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Alfonsine

| Alfonsine | Famiglie alfonsinesi del '900

| Albero genealogico Famiglia Argelli |

 

Famiglia Argelli 

(ramo di Giuseppe, Tomaso, Giancarlo)

(ultimo aggiornamento 29 novembre 2010, 
essendo la ricerca ancora in atto)

Domenico Argelli (Sarò)
('?-?)
sposò Maria ? (1869) 

Abitava  a Borgo Fratti (o Borgo Gallina), era povero ma faceva il pescivendolo e anche il bracciante agricolo. Amante del vino, cercava di allietare la propria vita, ma era sovente ubriaco. 

Maria ?
('?-?)
sposò Domenico Argelli (1869)

Morì di tisi e di miseria.

Testimonianza di Paolo Savioli: "Quand'ero bambino passava davanti a casa mia Sarò con la carretta del pesce e mi chiamava: "Bianché ven a que... (io ero sempre un po' pallido di pelle e così mi chiamava "Bianché"). Poi gli portavo una scodella con del vino nostro che andavo a spillare dalla botte e lui mi dava due pesci."

Quando andava a lavorare come bracciante presso i possidenti terrieri non poteva portarsi dietro più di un litro di vino, per regolamento. Domenico Argelli (Sarò) andava a lavorare insieme alla moglie di suo figlio Anselmo, detto e Bèl. Così prima di entrare  nel lavoro si beveva tutto il suo litro, più il litro  della moglie de Bèl (che lo portava per lui dato che lei era astemia), poi per tutto il giorno beveva acqua. Ma quando era sera non ce la faceva quasi mai a ritornare a casa. Era comunque una buona persona. Un aneddoto narra che un pomeriggio rimase ubriaco nel parco davanti al cimitero e lì si addormentò. Verso sera mentre passava di lì un ragazzino che si avviava verso la sua casa in fondo alla via del cimitero Sarò si svegliò e si alzo da terra. Il bambino credendo che fosse il fantasma di un morto se ne fuggì urlando terrorizzato. E Sarò gli correva dietro per tranquillizzarlo urlandogli "A sò Sarò, a sò Sarò!!!" (Sono Sarò, sono Sarò).

ebbero tre figli

Alfredo Argelli
(?-?) 

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Era il maggiore dei tre fratelli.

Fece lo stradino comunale comunale, su raccomandazione del fratello Giuseppe che lo fece assumere dal Comune.

Fu iscritto al partito fascista

 

 Giuseppe Argelli 
(Scuscén) 

(1905-1945)

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Giuseppe ancora adolescente

Abitava a Borgo Fratti (detto Borgo gallina). Con un padre bracciante e sempre ubriaco e una madre tisica, ebbe un'infanzia e  un'adolescenza  nel segno della miseria. 

A 17 anni aderì al fascismo

Nel 1922 quando ad Alfonsine si formò la sezione del partito fascista, Giuseppe era un ragazzino di 17 anni. L'adesione al fascismo fu l'unica opportunità per sfuggire alla miseria. Vide in quel movimento politico un'occasione di riscatto, il sogno di uscire dalla miseria della famiglia in cui era nato. 

... e partecipò alla Marcia su Roma
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Giuseppe Argelli (Scuscén) in divisa da milite squadrista

Giuseppe, a vent'anni

Quasi disperato, senza una famiglia a monte, sul filo dell'entusiasmo della prima giovinezza divenne fascista e partecipò alla 'Marcia su Roma'. 

Trovò con l'adesione al fascismo una via d'uscita dalla miseria. Questa scelta comportava obblighi che l'Argelli assolse con costanza. 

A 18 anni fu squadrista insieme ad altri: Antonio Mirri (e mòr) 23 anni, Secondo Ricchi (Baràs) 18 anni, Giuseppe Pagani (Gigì dla Muretta) 34 anni, Antonio Baccarini, Ferdinando Amadei, Sante Vassura: molti di questi furono poi inquadrati nella Milizia Volontaria Nazionale. 

Erano manovrati da Abele Faccani e da Romildo Sasdelli, quest'ultimo nato a Faenza, trasferito ad Alfonsine dal fascio di Argenta, per prendere le redini del partito fascista.


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Sasdelli mise in difficoltà coloro che per primi avevano aderito ai Fasci di Combattimento con purezza d'intenti, come Marcello Mariani, che nei primi anni venti comandava le squadre e una corrente del partito, e come Mino Gessi, volontario combattente della Grande Guerra, che aveva aderito al fascismo, ma che non poteva tollerare di vedere tra gli squadristi ex-anarchici, disertori, disfattisti, violenti, gente opportunista senza ideali.

Sasdelli utilizzò i giovani più esuberanti e violenti, creando così un reparto parallelo di squadristi, non più sotto il controllo di Marcello Mariani. Con quelli attuò la sua politica: istigandoli a mettere in atto una serie continua di azioni violente e intimidatorie, nei primi anni del fascismo. Poi nascondeva la mano, e pubblicamente prendeva la distanza da quelle azioni, che erano deplorate dalla cittadinanza e anche dagli organi fascisti superiori.  

Così disse Scuscén ad Arturo dla Canapira: "... Sasdelli, me lo indicò. Io ero come il cane da caccia. Sono andato e l'ho bastonato... non però violentemente... "


In questo modo il Sasdelli si impose come il vero ras locale, a cui dovette far riferimento Alberto Alberani quando si candidò per il PNF all'elezione di sindaco nel dicembre 1922. Lo scontro con i fascisti idealisti come Mariani e Gessi sulla gestione del partito, e in particolare delle squadre, portò questi ultimi a protestare presso il federale del PNF Frignani, il quale appoggiò comunque il Sasdelli.

Anselmo Argelli (e bèl) (?-?)

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Era il più giovane dei tre ed era detto 'e bel', perché di bell'aspetto. 

Il fratello Giuseppe riuscì a farlo assumere come bracciante.

Fu socialista, (così si definiva lui), dopo aver sposato una giovane comunista militante

IL 1923-24 COL FASCISMO
AD ALFONSINE

Dopo la marcia su Roma ad Alfonsine per due anni si creò una situazione impressionante, che portò più volte allo scioglimento della sezione fascista alfonsinese da parte degli organi superiori, all'espulsione dal partito fascista di vari iscritti, fino a interventi dello stesso Mussolini. 

Ma chi manovrava il tutto erano i Ras locali come Sasdelli e a Ravenna il Segretario provinciale del fascio Frignani. Questo clima si prolungò fino alle elezioni del 1924. E' di quei giorni la testimonianza documentata del Commissario di Pubblica Sicurezza di Alfonsine Veronesi che in una relazione "riservatissima" al Questore di Ravenna, il 9 aprile del 1924 racconta la "Situazione e ordine pubblico" ad Alfonsine. 

Poco meno di un anno prima c'era stato un episodio di scontro a fuoco con Mino Gessi che vide ferito Abele Faccani, pare per un colpo sparato però dalla pistola del Sasdelli. Il Faccani che era riuscito a farsi eleggere Segretario del fascio alfonsinese. 

Nel marzo del 1924 i fratelli Faccani aggredirono il Gessi, ma questi si difese con due pistole e sebbene ferito riuscì a salvarsi. A terra rimasero feriti i due fratelli. Abele Faccani morì dopo 17 giorni a causa della ferita: era il segretario comunale del fascio.

Lo squadrismo fascista in azione

Lo squadrismo fascista si scatenò contro la famiglia Gessi con incendi e spari. Una quarantina fra parenti e amici del Gessi vennero percossi.

Poi arrivò il 6 aprile: giorno di elezioni politiche.

Il 5 aprile del 1924 fu picchiato Antonio Galvani, sensale, bastonato da cinque individui di cui uno in divisa. Tra loro c'era il Faccani.
Poi fu incendiato il negozio di elettricista di Leonardo Errani e Francesco Biffi, repubblicani.

Il 6 aprile Bruno Contessi, appena uscito dal seggio elettorale e aver votato la Lista Nazionale fu bastonato dal Faccani perché parente dei Gessi.

Nella notte del 6 fu saccheggiato il negozio di Caffé e Liquori di Vittoria Calderoni, asportati liquori, oggetti e denaro... (Il Commissario scrisse che riteneva il promotore Antonio Mirri spalleggiato da altri compagni fascisti, dato che anche l'anno prima aveva compiuto un'azione analoga).

Nel pomeriggio del 7 a Pagani Tommaso viene ingiunto di smettere il lavoro di costruzione edilizia avviato (stava costruendo il Caffé Victoria e l'albergo "Al Gallo"), 'con minacce di danni agli averi e alla sua persona' da parte di Secondo Ricchi (Baràs), membro della milizia fascista.

Sempre il 7 un ex-repubblicano Riccardo Bosi venne bastonato in via Mazzini da Giuseppe Pagani e dal Ricchi, e poi stessa sorte toccò a un ragazzino di 16 anni. Nella notte incendiarono il negozio di merci, tabacchi, salami di Angela Mazzotti e della sorella (i maestar)

Sempre il 7 tre  persone furono inseguite da Secondo Ricchi, Giuseppe Argelli, Mirri Antonio e Giuseppe Pagani, con bastoni in mano. Riuscirono a fuggire abbandonando le biciclette, che furono smontate e distrutte poi gettate nel fiume. 
Giuseppe Margotti fu minacciato di morte da Ricchi e Argelli (Scuscén) costretto a rimaner chiuso in casa.

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Scuscèn all'epoca dello  squadrismo

Insomma in concomitanza con le elezioni politiche del 6 aprile ad Alfonsine un gruppo di squadristi inquadrati nella milizia fascista 
'
hanno girato di giorno e di notte per le vie del paese incutendo terrore, - scrisse il Commissario di Pubblica Sicurezza - e se per i fatti avvenuti non sono in grado in questo momento di fornire le prove all'autorità giudiziaria... in questo rapporto posso esprimere la convinzione che essi sono gli autori.' .... e propose 'l'eliminazione immediata dal Fascio e dalla Milizia di Faccani Giuseppe, Ricchi Secondo, Giuseppe Argelli, Pagani Giuseppe, e Mirri Antonio...
Ricchi Secondo ha tutti i caratteri del delinquente comune, violento, direi quasi sanguinario... 

Argelli Giuseppe è un giovane impulsivo con tendenza a delinquere. Durante il tempo di questa gazzarra politica ne ha commesso di tutti i colori ed alcune azioni hanno rivestito il carattere di reati, le cui denunzie... sono state omesse per la delicata opportunità politica del momento...'

Le azioni intimidatorie continuarono per tutto l'anno con percosse e minacce ad altre persone, soprattutto repubblicani, oltre a più di un incendio del Circolo Repubblicano.

Espulso da Partito fascista poi riammesso e assunto come guardia municipale

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Scuscén in divisa da guardia municipale

Dopo numerose e ripetute espulsioni  di vari fascisti, con scioglimento e ricostruzione del locale partito, troviamo Giuseppe Argelli, Giuseppe Pagani, Giuseppe Faccani assunti come guardie municipali, certamente su raccomandazione del Sasdelli. 

Come guardia municipale tutti e tre operarono sempre in obbedienza alle indicazioni degli organi dirigenti del partito e in seguito (dal 1932 in poi) del nuovo Podestà Marcello Mariani. 

Giuseppe aveva avuto il suo premio con l'assunzione come Guardia Municipale, e per questo dimostrò sempre  riconoscenza al Sasdelli che era diventato, da Segretario del direttorio fascista, Segretario dei Sindacati fascisti. Da quella posizione riuscì a sistemare anche i due fratelli di Giuseppe: Alfredo come "stradino comunale" e Anselmo come bracciante.

Il rientro nella legalità (fascista) avvenne negli anni '30 ed durò fino alla caduta del fascismo. 
Così 'Scuscén' fu sempre fascista, ma senza le intemperanze e le violenze del periodo giovanile

Un grande amore 
per la famiglia

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Giuseppe Argelli e e la moglie Tonina Zaganelli, durante il viaggio di nozze a Venezia

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Giuseppe, il figlio Tomaso e la moglie Tonina (anno 1934)

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In estate la famiglia Argelli andava in vacanza al mare a Viserba, un privilegio di pochi a quei tempi.

Da sinistra: dott. Pasini, Scuscén in divisa, Corrado Santoni, Marcello Mariani, Faustino Vecchi, davanti alla Casa del Fascio

L'emancipazione sociale di Giuseppe si completò a 29 anni quando nel 1932 sposò Antonia, figlia del fattore Tomaso Zaganelli e Marianna Tarroni, con un matrimonio di prim'ordine al Santuario della Madonna del Bosco. 

Ebbero due figli Tomaso nato nel 1934 e Giancarlo nato il 22 ottobre del 1945 (quando il padre era già stato fatto scomparire).  Abitavano all'incrocio tra via Reale e Raspona, dove oggi (2010) c'è il forno Azara. 

Giuseppe Argelli fu un buon marito e un buon padre di famiglia, molto attento nell'educazione del figlio, e nel sostegno alla famiglia. 
Nel tempo libero si dedicava con passione alla cura dell'orto di casa. 

Amava la musica classica, ma non era certo un uomo di cultura: aveva acquisito il diploma di sesta elementare frequentando le scuole serali. Leggeva libri di Dostojevski come 'L'idiota' e 'Delitto e Castigo', e altri simili.

Dagli anni '30 fino alla caduta del fascismo svolse il suo ruolo di guardia municipale seguendo gli ordini del podestà Mariani. 

In qualità di Guardia Municipale veniva a volte incaricato di controllare e tenere sotto pressione i supposti anti-fascisti del paese, svolgendo ancora un ruolo intimidatorio, anche se non più violento, come nei primi anni. 

Si mostrò a volte arrogante ed eccessivamente autoritario, nello svolgere l'incarico di Guardia Municipale, forte della sua divisa, attirando su di sé astio, ostilità e anche odio da parte di vari alfonsinesi. Ma non vi furono episodi particolarmente gravi.

Giuseppe (Scuscén) Argelli si dimostrò anche capace di momenti vari di solidarietà con i più deboli e le persone in difficoltà. 
- A Natale e a Pasqua invitava a pranzo una vecchietta del vicino ricovero per anziani, "Mai la stessa" - ha precisato il figlio Tomaso. A tavola era bandito il vino in reazione alle abitudini del babbo Domenico, grande bevitore e spesso ubriaco.

- Essendo il fratello Anselmo sposato a una comunista, spesso Giuseppe dovette intervenire per tirar fuori di prigione i fratelli di lei, quando venivano 'fermati' dai fascisti e dai repubblichini: gli capitò così di dover far liberare tutto il gruppo di antifascisti tra i quali c'erano i cognati del fratello, che i fascisti di Ravenna avevano rastrellato per portarli nel capoluogo. (Testimonianza della moglie di Ivo Calderoni)

Un legame particolare 
con la famiglia Pescarini

I Pescarini erano una nota famiglia alfonsinese. Il capofamiglia Natale era un militante anarchico, a cui il regime fascista non rendeva certo la vita facile, tanto che fini in esilio in Francia, a Nizza, insieme ad altri antifascisti italiani e di Alfonsine.

Aveva tre  figli Giorgio, Angelo e Vincenzo. Giorgio fu insegnante del figlio di Giuseppe Argelli, Tomaso nell'immediato dopoguerra. Angelo, più giovane, divenne professore di Matematica e insegnò al Liceo Classico di Ravenna, fu anche esponente del PCI e assessore regionale alla Pubblica Istruzione negli anni sessanta.

Una testimonianza di Angelo Pescarini

Tomaso Argelli nel dopoguerra, quando era sottufficiale della Marina e comandante del porto di Cervia ricevette la visita del professor Angelo Pescarini. Questi gli raccontò (cosa che lui non ricordava) che ogni domenica Scuscén portava la carne a casa dei Pescarini, che erano all'epoca poverissimi, e nel pomeriggio accompagnava Tomaso e i due fratelli Pescarini al cinema.

A distanza di così tanti anni il Pescarini dimostrò a Tomaso la sua gratitudine per quel fatto di suo padre e gli espresse anche le sue condoglianze.

Durante la guerra portava carne a famiglie bisognose. Rimase in amicizia con i Pescarini, che per avere un padre anarchico erano stati spesso perseguitati dai fascisti.

 

 

Testimonianze per capire il ruolo che Scuscén ebbe nella società civile di Alfonsine durante il fascismo e dopo la sua caduta

Da alcune testimonianze che riporto qui di seguito si intravede il ruolo che Scuscèn giocava nella società civile di Alfonsine, ma nello stesso tempo anche la moderazione a cui si adattava quando il rischio era di scatenare violenza

Una testimonianza di Mario Cassani

Il giorno della presa di Madrid (1939) Mario Cassani, che gestiva un negozio da barbiere  si vide arrivare in bottega Giuseppe Argelli (Scussé), che era guardia municipale:" Et savu ch'ja ciap Madrid? e bsogna t'metta fura la bangiéra" (Hai saputo che hanno preso Madrid? devi esporre la bandiera) "Perché hanno preso Madrid, non credo di dover esporre la bandiera... E poi io non ce l'ho...". 

Argelli ribatté "Non l'hai o è perché non la vuoi esporre?"

Mario era già riconosciuto come antifascista, in quei giorni. 

Argelli insistette - "Se non ce l'hai vuol dire che tu sei poco italiano"  
- "Io sono convinto di essere italiano, tanto che mio padre è morto in guerra per fare l'Italia, ma ciò non significa avere la bandiera" 
-" Se tu dici che non hai la bandiera, fra dieci minuti te ne porto una io" e così se ne andò subito con la bicicletta.

Mario cercò di finire in fretta la barba al cliente che aveva sotto, poi chiuse la bottega e andò dalla fidanzata Tonina (futura moglie) raccontando cosa gli era successo e che si sarebbe rifugiato dai Calderoni, amici di famiglia che abitavano lì vicino nelle Borse: si sarebbe nascosto per non prendere le botte. 
Intanto Argelli arrivò e vedendo il negozio chiuso andò a casa di Tambini (Piulò) che era sua amico ma anche questi amico e cliente di Mario: "Tu che sei un suo cliente fagli sapere che quando l'incontro gli darò un mucchio di botte, così impara a fare lo sbruffone e a non esporre la bandiera".

Tambini (Piulò) il giorno dopo andò al negozio e disse a Mario che aveva fatto male, che avendo una famiglia, era meglio essere prudente, che mettere fuori la bandiera non era niente...

Mario rispose "Vo a duvì fem un piasé, a duvì dij che un m'ha brisa da de dal bot, mo um'ha d'amazé (Voi dovete farmi un piacere, gli dovete dire che non mi deve dare delle botte, ma mi deve ammazzare), parché se lo um bastona, me dop pu hai feg la posta e hai deg do sciupté (perché se lui mi bastona, io dopo mi apposto e gli sparo due colpi) parché me al bot an li voi brisa. Se me ajo viulè la lez c'um denuzia (perché io le botte non le voglio e se io ho violato la legge che mi denunci)  se io sono poco italiano che prendano i provvedimenti che devono, ma se lui dice che mi bastona voi ditegli che se mi lascia al mondo lui poi ci rimette la vita (la gabana).

Intanto Mario si procurò una pistola. Passarono i giorni e non successe niente, finché un giorno che andava a fare la barba a casa di gente lungo la Stroppata, che era in "macadam" (strada ghiaiata),  incrociò proprio Scuscén. Aveva la pistola nella sporta. Avanzava guardando cosa avrebbe fatto Scuscén, il quale fece finta di non vederlo e così non successe nulla. Da quel giorno Scuscén non gli fece più alcuna provocazione.

Una testimonianza di Tonino Pagani (d'Cài)

L’anno in cui gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco della Francia, dell’Inghilterra e dell’Unione Sovietica era il ’42; quello fu anche l’anno in cui mio fratello Cassiano faceva il militare a Bari, ed era tornato a casa per una breve licenza. Mio fratello Mino, invece, si trovava al confine tra l’Italia e la Jugoslavia. Era un mattino di primavera verso mezzogiorno, stavamo pulendo il pavimento del bar, quando arrivò in bicicletta la guardia municipale “Scussé” (Giuseppe Argelli), e appoggiando il piede sulla soglia della porta ci allungò un manifesto di propaganda fascista, intimando a Cassiano di appenderlo immediatamente e in maniera ben visibile.
Mio fratello smise di spazzare, lo ascoltò guardandolo tutto serio poi gli rispose in dialetto: “Attaccatelo tu se vuoi, io non lo attacco!” Quel personaggio era un fascista della prima ora, e insistette ancora un po’ ma, visto che mio fratello rimaneva nelle sue posizioni, diede a me il manifesto e se ne andò.
La temerarietà di mio fratello era dovuta probabilmente al fatto che pensava al suo imminente ritorno alla base militare di Bari: il suo reparto sarebbe stato inviato in uno dei vari fronti europei o africani, quindi le conseguenze della sua reazione non gli potevano fare né caldo né freddo, visto che stava per andare a rischiare la vita al fronte.

Qualche giorno dopo la sua partenza ricevemmo una lettera dalla Commissione Speciale dei fascisti locali, dove si diceva che Cassiano Pagani era stato sottoposto al giudizio della stessa e quindi proposto al confino per insubordinazione. Ma lui non ebbe modo di subirne conseguenza, perché continuò a fare il militare per tutta la durata della guerra, tornando però a casa, sano e salvo, dopo la liberazione, quando i fascisti erano già stati cacciati da Alfonsine.

Con la caduta del fascismo non seppe da che parte stare

Una testimonianza di Arturo Montanari dla Canapira lo descrive insicuro se andare con i repubblichini o no. 
Così ha detto Arturo dla canapira: "Io ebbi molte discussioni con lui. Alla caduta del fascio, mentre con mia sorella mi recavo al di là del Reno dove avevamo delle patate, lui ci raggiunse in bicicletta. Mi mise una mano sulla spalla. Io gli dissi:"E allora? hai visto che 'scaramella' ha fatto il tuo Fascio? Ti ricordi quando in piazza dicevi che il fascismo aveva delle radici e e dei muri grossi come quelli della chiesa? Adesso come la metti?" E  lui :"Adesso sono un povero disgraziato e non c'è più nessun che mi rivolga la parola" Ed io:"Per forza ne hai fatte di tutti i colori!" 
Mi disse "Di me tu non ti puoi lamentare!..." 
"Personalmente non posso lamentarmi, ma hai bastonato delle persone che quando le bastonavi è come se bastonassi me..." 
"Lo so, lo so... pensi a Primo d'Batanèn (Montanari Primo di Taglio Corelli). Eravamo partiti con una squadra per andare a bastonare lui e Gianetto Zaniboni e non li abbiamo trovati... Ci avevano detto di bastonarli e far loro anche di più se era il caso... Successivamente, in piazza, il capo dei fascisti, Sasdelli, me lo indicò. Io ero come il cane da caccia. Sono andato e l'ho bastonato... non però violentemente... E dopo però sono andato a casa sua con Bruno Bendazzi a chiedergli scusa..." 

Scuscén venne ancora una volta, alla caduta del fascismo, a casa mia per chiedermi un parere su quello che era meglio che facesse. 
Io gli dissi :"Un parere a me che sono qui a casa con mia moglie e mia sorella... ed oggi ci sono e domani chissà?!..." 
Soggiunse che nel Fiumazzo c'era la Decima Mas. 
"Potrei andare ad arruolarmi con loro..." 
Ed io: "Così non farai che aggravare la tua posizione..." 
Mi disse:" Tu che sei in contatto con il Comitato di Liberazione..." 
Lo interruppi: "Io non sono in contatto con nessuno!" 
Erano momenti quelli, in cui non era prudente fidarsi di nessuno. Evidentemente Scuscén cercava qualcuno che lo potesse indirizzare."

Arturo Montanari dla Canapira conclude la testimonianza con una frase che fa pensare: 
"Scussena Argelli fu poi trovato morto nel Fiumazzo". 

Poiché invece il corpo di Giuseppe Argelli non fu mai trovato o Arturo ha riportato una diceria, oppure qualcuno all'epoca trovò il corpo e lo fece sparire.

L'Argelli, durante l'occupazione tedesca, si trovò in una zona grigia

Durante la Repubblica di Salò,  l'Argelli si trovò in una zona grigia: dopo la caduta del fascismo lasciò qualche dichiarazione dubbia, ma poi si offrì di aiutare chi, durante il fronte di guerra, organizzava l’assistenza sanitaria per gli ammalati e feriti di Alfonsine, tramite un Comitato Cittadino, accettato dai tedeschi, (ma in pratica gestito dal CLN).

Era deluso da come si erano messe le cose, e aveva capito che la baracca era ormai andata, ma non volle mai passare dall'altra parte, non voleva essere un voltagabbana. Non volle cambiar faccia e questo atteggiamento forse l'ha pagato con la vita.

Nel complesso sembra di intravedere, nell'Argelli del dopo fascismo, una persona che, nella nuova fase che si andava delineando con la guerra, isolato da suoi concittadini rimasti in paese, voleva comunque rendersi utile, e, quasi a farsi perdonare delle intemperanze del periodo violento giovanile, tentasse un riscatto morale, senza rinnegare il suo essere stato fascista. 

Comunque non si iscrisse all'RSI perché, se l'avesse fatto, avrebbe dovuto abbandonare la famiglia e andare al nord. Ma il suo legame col figlio Tomaso e la moglie che era incinta gli impedirono comunque quella scelta. (Questo è ciò che ha raccontato a me Tomaso Argelli)

La testimonianza del figlio Tomaso

 Il figlio Tomaso Argelli quindi conferma che che il proprio padre non aderì alla Repubblica di Salò e che poi con l'occupazione tedesca, si rese disponibile per aiutare il pronto soccorso allestito dal Comitato Cittadino (ufficialmente si chiamava così, ma era un Comitato gestito dalla Resistenza) in via Mazzini, nel palazzo Ferné. 

Scuscén collaborò con il Comitato Cittadino, che tenne alcune riunioni per non destare sospetti nella sua casa all'incrocio di via Raspona con via Reale, dove avevano la loro abitazione (oggi forno Azara). Era un luogo sicuro perché essendo casa d'Scuscén i brigatisti neri non avrebbero dovuto azzardarsi a perquisirla. 

Quindi il vigile urbano Scuscén, l'unico di quelli in servizio rimasto in paese, in quanto dipendente comunale, si era messo a disposizione di quel Comitato Cittadino, consapevole certamente che quelli che comandavano lì erano tutti membri del CLN, (lui doveva saperlo, visto il suo ruolo durante gli anni precedenti).

Fu spesso impiegato per missioni tipo andare a prendere medicinali a Ferrara, oppure provvedere alla distribuzione di carne ecc... Tutte azioni che compiva con suo fratello Anselmo, e bel, sposato con una che era un'accanita comunista e faceva parte della Resistenza. Così l'uno garantiva l'incolumità all'altro: se incontravano brigatisti neri o tedeschi era Scuscén il salvacondotto, e viceversa.

Un giorno che in casa c'era solo Tomaso  arrivarono delle squadre di fascisti dal ferrarese alla ricerca di informazioni e di armi che pensavano fossero lì. Erano forse convinti che Scuscén fosse una spia dei partigiani? Non trovarono nulla, solo una vecchia pistola del nonno di Tomaso.
Dopo quell'esperienza Giuseppe Argelli ebbe paura e trasferì tutta la famiglia presso la casa di suo fratello Anselmo, detto 'E bel'. Qui abitarono insieme al fratello Anselmo e a sua moglie, la comunista.  Era una casupola attigua alla casa del Dott. Pasini in via Mazzini, proprio di fronte al  Pronto Soccorso aperto nel sotterraneo del palazzo Ferné e nella casa attigua di un cugino di Scuscén, Ezio Argelli detto Fumì, che il Comitato Cittadino gestiva direttamente e usava anche come copertura dei suoi militanti della Resistenza.

La prima domanda che io mi sono posto è: quell'episodio dei fascisti che arrivarono a perquisire la casa di Scuscè non insinuò forse lo stesso dubbio, e cioè che potesse essere un doppiogiochista anche in quelli della Resistenza?

Comunque lì attorno a quel pronto soccorso bazzigavano anche tanti altri vecchi amici di Borgo Gallina, che ora erano diventati tutti comunisti. Con loro aveva un rapporto di amicizia. Tant'è che nei giorni poi della sua scomparsa, dopo che era stato ammazzato, quei compagni facchini presero le difese della famiglia: "Chi si permette di toccare la famiglia di Scuscén deve fare i conti con noi". (testimonianza di Tomaso, il figlio).
E infatti nessuno trattò mai male la moglie e il figlioletto.

Ipotesi sulla fine di Scuscén

La mattina del 7 febbraio 1945 Giuseppe Argelli fu incaricato da due del comitato cittadino (due esponenti della Resistenza) di recarsi a Ferrara a recuperare medicinali che servivano per l'ospedale e il pronto soccorso di via Mazzini. (Tomaso il figlio era presente e ha usato spesso la frase 'vennero a prendere mio padre', ma poi quando gli ho fatto notare che gli 'fu ordinato di andare a Ferrara' è diverso dal dire 'lo vennero a prendere', ha ammesso che sì la sua forse è stata una forzatura.

Quel giorno Anselmo era ammalato e i due diedero a Scuscén un documento salvacondotto del CLN di Alfonsine. Da notare che Scuscén aveva anche un documento salvacondotto rilasciato dai tedeschi.

Fu anche accompagnato da una donna appartenente alle formazioni partigiane di Lavezzola (o Voltana). (Questa informazione non ricordo da dove io l'abbia avuta .ndr)

Scuscén aveva un triste presentimento mentre indossava la divisa da vigile urbano. La moglie lo implorò di non andare, ma lui disse che aveva dato la propria parola e che i medicinali erano indispensabili per l'ospedale. Salutò la moglie e abbracciò a lungo il figlioletto Tomaso.

Il 7 febbraio 1945 Giuseppe Argelli scomparve, e fu probabilmente assassinato, anche se non si è mai saputo da chi né per ordine di chi. Il suo corpo non fu mai più trovato. Voci lo davano sepolto in quel di Bondeno insieme ad altri. Qualcun altro dice che fu ucciso nelle scuole di Borgo Fratti e lì vicino sepolto. 
Ricerche recenti (febbraio 2016) ordinate dalla Procura di Ravenna nei pozzi del cortile di tali scuole hanno dato esito negativo.

Il figlio maggiore Tommaso sostiene che la mattina che scomparve il padre, i due capi dei partigiani locali che gli avevano dato l'incarico erano: Annibale Manzoli (Nebal) e Mario Cassani (Marii). Lui era presente e sostiene che era una trappola. Secondo voci che circolarono poi in paese Scuscén fu torturato e poi ucciso a Taglio Corelli presso la casa di Tabanelli ed il suo corpo gettato nel Reno. 
Unico superstite, il Mario Cassani (che fu il primo sindaco di Alfonsine nel dopoguerra) ha negato al sottoscritto, o comunque ha detto di non ricordare,  che lui insieme al Manzoli si fosse recato quella mattina a casa di Argelli per dargli l’incarico di andare a prendere medicine a Ferrara. 
Se non fu il Cassani, comunque potrebbe essere verosimile che il Manzoli avesse incaricato Argelli di quella commissione, anche se va detto che poteva essere normale dargli un tal incarico visto che l'Argelli si era dichiarato disponibile a svolgere tale attività in quanto guardia comunale. 

Ciò non significherebbe automaticamente che si trattasse di un tranello ordito proprio per eliminare Giuseppe Argelli, anche se può apparire plausibile. 

Il fatto che, nei giorni dopo la scomparsa, nessuno di coloro che aveva dato quell'incarico si sia mai fatto vivo presso la famiglia, testimonierebbe di una loro responsabilità, anche se pur morale?
"I responsabili di quella missione - dice Tomaso - non si fecero trovare. Per alcuni giorni fu impossibile parlare con loro. Non si curarono nemmeno di salvare le apparenze, magari raccontando due frottole alla famiglia.
Quando iniziò a circolare la voce che Giuseppe Argelli era stato ucciso alcune decine di persone inscenarono una manifestazione davanti al Pronto Soccorso. I carabinieri cominciarono a svolgere delle indagini e interrogarono anche i due indicati da Tomaso. Nessuno però sapeva nulla di nulla. Di quelle indagini e interrogatori non è rimasta traccia negli archivi della Tenenza dei Carabinieri di Alfonsine, trasferita poi a Cervia"

Sull'accusa quindi che Tomaso Argelli rivolge ai due rappresentanti comunisti della Resistenza ad Alfonsine di aver ordito una trappola per suo padre non c'è ovviamente alcuna prova che lo documenti.

Anche la loro riluttanza a farsi vivi presso la famiglia, dopo che la moglie aveva fatto i loro nomi ed erano stati interrogati dai carabinieri (come ha detto Tomaso), sarebbe comprensibile.

C'è una sola indicazione di un conoscente della famiglia, un certo Antonio Baldini, che dopo circa un mese dalla scomparsa, disse di aver visto Scuscén bloccato dai partigiani sul ponte della Bastia. Era territorio occupato dai tedeschi, e come ha scritto anche Ugo Cortesi la cosa non quadra: in quel periodo il ponte della Bastia era presidiato, con due specie di garitte, una dalla parte ferrarese, dai tedeschi e l’altra dalla parte ravennate dai repubblichini, quindi non potevano esserci lì dei partigiani.

 Ma nel caso fosse vero che il Comitato di Liberazione stesso (o chi per lui) avesse davvero deciso la sua eliminazione,  probabilmente la motivazione potrebbe essere stata (questa è un'opinione mia) che temendo fosse una spia, nel dubbio, andasse eliminato: non erano tempi quelli in cui si andasse tanto per il sottile. 

Come pure plausibile potrebbe essere una vendetta più che politica, di carattere esclusivamente personale (come è più propenso a sostenere il figlio Tomaso), per qualche offesa o pestaggio subito nel periodo del fascismo, eseguita magari con la copertura della lotta partigiana. 

Dopo anni sembra che qualcuno abbia cominciato a parlare di quella vicenda. Secondo costoro Giuseppe Argelli sarebbe stato torturato e ucciso in una casa di Taglio Corelli, sotto l'argine del fiume Reno. In quella casa subito dopo il passaggio del fronte furono trovati due arsenali di armi e munizioni.

Come siano andate veramente le cose non si sa per certo...

La reazione del figlio Tomaso

Dopo circa un mese dalla morte presunta del padre Tomaso allora appena undicenne, inforcò la bicicletta per raggiungere la Decima Mas. Era quasi arrivato ad Argenta quando lo zio Rino (Pellegrino Montanari detto Marlé, repubblicano, partigiano, vice Comandante generale della 28° Brigata Garibaldi, quella di Bulow) lo raggiunse per portarlo a casa.

Da allora il desiderio più grande di Tomaso fu di ritrovare i poveri resti del padre e di dargli una degna sepoltura, ma a nulla valsero le sue ricerche e le sue invettive anche a viso aperto contro quelli che riteneva i responsabili di quella tragedia.

Nell'immaginario collettivo degli alfonsinesi Scuscén è stato raccontato come l'emblema dell'aspetto violento e fanatico del fascismo. Probabilmente ciò fu dettato per giustificare, di fronte all'opinione pubblica degli anni del dopoguerra, la sua eliminazione tragicamente violenta. 

Non essendoci motivazioni ufficiali né ufficiose per tale esecuzione, e facendo riferimento alle sole testimonianze avute e qui riportate, in attesa magari di altre eventuali, balza all'occhio la sproporzione fra le 'colpe' che potrebbero essere attribuite a Scuscén e la pena massima che gli è stata inflitta. Questo nell'ipotesi che egli sia stato soppresso per motivi 'politici' o di 'vendetta personale'.

 Se invece la causa fosse perché era stato ritenuto 'collaborazionista dei tedeschi' (ma non ci sono indizi per questo, tra l'altro non aderì alla Repubblica di Salò) o 'doppiogiochista e potenziale spia', questo potrebbe essere uno dei motivi forti e 'comprensibili' della sua eliminazione, perché questo fu uno dei rischi più elevati a cui si esposero tutti coloro che da fascisti restarono nella zona del fronte, cercando di dare il loro contributo per aiutare la popolazione senza aderire ai partiti del CLN.

Se il suo assassinio fosse invece dovuto a motivi personali, vendicativi o quant'altro, dovrebbe risultare come una delle tante vittime dell'atrocità della guerra, e come tale essere riconosciuto. Del resto il suo nome appare in un elenco dei morti civili caduti durante la guerra ad Alfonsine redatto da Giuseppe Masetti, a nome dell'Istituto Storico Provinciale della Resistenza. 

Una riflessione di Luciano Lucci, autore del sito e della ricerca su Scuscén

In una dedica scritta a mano in un libro pubblicato nel 2009 sulla storia della sua famiglia Tomaso ha scritto:

"Sarebbe bastato un atto di umana pietà per essere partecipi di una comunità"

Quell'atto, cioè indicargli dove erano finiti i resti di suo padre, non c'è mai stato, e la comunità degli alfonsinesi dovrà portarsi appresso questo peso per sempre.

Il raccontare la storia di Giuseppe Argelli vuole essere un modo per sopperire a quella mancanza, dato che la possibilità di ritrovare quelle povere ossa resta ormai solo una lontanissima speranza. Giuseppe Argelli fa parte della storia di Alfonsine, nel bene e nel male, è morto in una orribile guerra e in modo tragico, e a lui, come a tutti gli altri morti che il paese ha avuto, spetta il riconoscimento dei suoi concittadini  di un sentimento di pietà e di rispetto umano.

L'ULTIMA RICERCA NEL FEBBRAIO 2016

A riaccendere le speranze di Tomaso Argelli ci aveva pensato Gianfranco Stella nel suo libro «I grandi killer della Liberazione». Sebbene le versioni sulla fine di Scuscèn siano diverse, («più che a una questione politica – dice Tomaso –, io ho sempre pensato ad una vendetta personale»), il giornalista, nel suo volume, ha fatto nomi e cognomi di chi, secondo lui, stava dietro alla scomparsa di Giuseppe Argelli, e nero su bianco ha scritto che Scuscèn sarebbe stato "freddato dai partigiani e il suo corpo gettato in uno dei pozzi nel cortile delle vecchie scuole di Borgo Fratti".
Una volta letto il capitolo riguardante suo padre, Tomaso Argelli si è recato alla stazione dei Carabinieri di Alfonsine. La pratica è arrivata alla procura della Repubblica di Ravenna, che ha riaperto i faldoni e ordinato di scavare, dopo 71 anni, nel cortile delle vecchie scuole. 

Le operazioni sono andate avanti e venerdì 12 il verdetto: di Giuseppe non c’è traccia. «Non cercavo assassini, volevo chiudere il capitolo della guerra trovando le spoglie di mio padre per dargli degna sepoltura, ma purtroppo non ci sono riuscito. Per me la questione è chiusa. conclude Tomaso -. Sono grato alla Procura, che con coraggio ha lavorato per accertare la verità, e mi dispiace per Stella, che qui si è rivelato poco credibile: ora gliela faranno pagare».

 

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