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I cappelletti

(Da un articolo apparso su "Settesere" n° 22 dicembre 2012)

«Il giorno di Natale - si legge in un rapporto napoleonico del 1811 redatto dall'allora prefetto di Forlì Leopoldo Staurenghi - ogni famiglia si fa una minestra di pasta col ripieno di ricotta, che chiamasi cappelletti. L'avidità di tale minestra è così generale che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggiore quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500. Questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per le forti indigestioni». 

Di una minestra «composta di ricotta, formaggio, uova e aromi, il tutto avvolto in pasta detta spoglia da lasagne» parla nel 1818 il forlivese Michele Placucci nel suo «Usi e pregiudizi de' contadini della Romagna». Sono dunque almeno due secoli che i cappelletti costituiscono uno dei tratti distintivi della Romagna.  

la ricetta giusta

Cappelletti, dunque, ma qual è la ricetta giusta? Perché su come farli la Romagna si divide: basta spostarsi da un paese all'altro per mangiare cappelletti - tutti ottimi, per carità - diversi fra loro. La sola a non cambiare è la sfoglia, che dev'essere di farina di grano tenero, uova e acqua, né troppo morbida né troppo soda, omogenea e consistente. È sul contenuto del classico involtino, e batù, che le soluzioni diventano tante.

Un primo dilemma “carne sì, carne no”

 Escludendo i tortellini bolognesi, che sono altra cosa, nel ravennate e nel cesenate prevale e batù di soli formaggi: forma, ovviamente, con l'aggiunta di un formaggio morbido che può essere la ricotta, il tomino, il raveggiolo o la casatella. 

Mentre invece nel forlivese e nel riminese si utilizzano anche carni leggere: petto di cappone, vitello, lonza e mortadella. 
- Noce moscata sempre e poco sale, poiché la forma di per sé fornisce sapidità al composto. 

Le soluzioni sono davvero tante, forse una per ciascuna famiglia o ristorante.

A mano a mano che si allontanano dalla loro terra d'origine, i cappelletti finiscono fatalmente per subire alterazioni tali da renderli irriconoscibili. 
Citiamo il caso di un ripieno nel quale le compaiono maiale arrosto, cervella di vitello, mortadella e molto burro. Qualcuno potrà chiamarli ancora cappelletti, ma per favore non aggiunga «romagnoli»,
perché coi nostri hanno poco da spartire.

Si dirà che anche il grande Artusi prevede la carne, ma è bene sapere che il suo arcinoto «La, scienza in cucina e l'arte di mangiar bene» non rappresenta le usanze a tavola in Romagna, quanto il mangiare borghese del centro-nord d'Italia. 

Uno che se ne intende, Graziano Pozzetto, ha scritto recentemente in “Le minestre romagnole, di ieri e di oggi” che l’aggiunta di carni di petto di pollo, lonza o altro, «non ci sembra che migliorino affatto il gusto, e comunque esula dalle migliori tradizioni”.

Quella dei cappelletti asciutti col ragù è un’usanza che ha preso piede negli ultimi decenni, ma che non tutti i buongustai apprezzano. Si tratta né più né meno, affermano, di una storpiatura dovuta alla ristorazione di massa.

Già che si parla di tradizione, bisogna riaffermare che la loro «fine gloriosa» - è ancora Pozzetto a dirlo – sta nell'affogare in un brodo misto di carne di manzo e di cappone. 

Altro errore da evitare è quello di cospargerli di formaggio grattugiato: così facendo non si fa che alterare sapori che non hanno bisogno di nient’altro per risultare gradevolissimi. 

E allora? Fateli come vi pare, ma  a Natale cappelletti in tavola.

Ingredienti 
per circa 4 persone

Per la sfoglia

500 gr di farina

4 uova

acqua o brodo caldi
(se l’impasto risulterà ruvido e granuloso)

per 'e batu'

200 grammi di ricotta fresca
100 grammi di forma 
2 uova
un pizzico di noce moscata
un pizzico di sale
un pizzico di pepe

I cappelletti in brodo
(dal romanzo “Doppio errore” di Guido Pasi)

I cappelletti di Natale hanno un altro sapore il giorno dopo.

Si sono fatti completamente diafani e a stento tengono unite le pieghe che chiudono il ripieno nella cupola.

Il corpo di pasta è divenuto inconsistente e il sapore, diventato impreciso, si confonde con quello del brodo. Questo, in compenso, incorpora tutto il sapore dei due elementi.

Non sono pochi coloro che preferiscono la versione post-natalizia del piatto forte romagnolo. Sono dei filosofi sincretisti, dei dialettici post-hegheliani di destra, che teorizzano la composizione in uno degli opposti, del tutto dimentichi della citazione di Mao, contraria al due che si compone in uno.

E' nell'uno che si divide in due il succo della dottrina rivoluzionaria.

Ma sono migliori o no, quelli del giorno dopo Natale?

Il fatto è che sono migliori a Natale e anche a S. Stefano. Solo che questo distrugge su tutta linea la dialettica hegheliana, travolgendo anche Marx e Mao.

Praticamente è come se ogni volta dovessimo ripartire da Kant.

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