Presentazione
Antonio Pagani (Togné) è nato ad Alfonsine il 29 novembre del 1925.
Ha sposato Lea Facchini, sua fidanzata fin dall’adolescenza, da
cui ha avuto un’unica figlia, Rita. Nel dopoguerra ha gestito il nuovo
bar in Piazza Gramsci ad Alfonsine. Nel 1957 si è trasferito a Cervia con
la famiglia, dove ancora oggi vive in compagnia della moglie. Solo in quel
periodo prese la tessera del PCI, su invito del segretario di Alfonsine
Ulisse Ballotta. |
Tonino
Pagani (foto
di Francesco Neri) |
Divenne nel 1972 segretario della sezione “Centro” del Partito Comunista di Cervia. Ci ha lasciati nel 2009. Il paradosso della sua vita: |
Alfonsine anteguerra: piazza Monti e fiume Senio (Foto
scattata da Serafino Faccani nel 1938, gentilmente concessa dalla
famiglia) |
A
Tonino. Figlio delle Alfonsine.
Angelo
Antonellini, Tante foto della
memoria. Fatti, eventi che hanno impressionato una pellicola vergine di un
animo infantile, innocente, puro, che non riesce a non soffrire ogni volta
che assiste a un atto di ingiustizia. Una storia vissuta, dai
sei ai vent’anni, sotto il piccolo-grande Senio, “il
nostro vero grande amico …con gli argini a volte più alti dei tetti
delle case”. Nello sfondo il dramma
degli ebrei, la presenza di donne che hanno reagito con “forza
e coraggio”, di eroi “spagnoli”, di scienziati che
mostrano la debolezza dei sentimenti, di medici “scalzi”, di suore
attive e coraggiose… Poi la guerra che
avanza. L’inverno del ’44, il fronte… con il mitico Fiume che, per
quattro mesi, viviseziona la nostra Comunità. Poi il 10 Aprile, con la
fine di un incubo, ma con una ferita bruciante, difficile da rimarginare,
col pensiero rivolto alla ricostruzione, con la solidarietà, la fierezza,
l’ingegnosità, la determinazione dei sopravvissuti. Con la volontà di
rimuovere quei ricordi e la consapevolezza di dovere fare di quegli eventi
un patrimonio, perché gli obiettivi e i valori guida della lotta di
Liberazione erano stati la pace e la libertà, la giustizia e la
democrazia. Il Presidente Ciampi
ebbe a dire che “…i popoli
che non hanno memoria del loro passato, non sono padroni del loro
futuro”. Mentre l’Autore vuole “…sperare che i giovani alfonsinesi conoscano la storia del loro paese
di quel periodo e ne vadano fieri…” E’
anche una nostra speranza e un nostro obiettivo… Alfonsine “Città
della Pace e della Solidarietà, del Lavoro e della Cultura” ringrazia
per questa bella testimonianza, che deve arricchire il futuro anche dei
nostri giovani. Grazie, Tonino. |
Prefazione di Luciano Lucci |
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Appartengo a una generazione nata fuori dal fascismo, quando la guerra era appena finita. Una delle prime generazioni che ha avuto la vita spianata, senza eccessive difficoltà: le guerre solo al cinema e in TV, un benessere sufficiente e quasi sempre in crescita, mai un terremoto, un’alluvione, una qualsiasi catastrofe. I nostri genitori e nonni, invece tutto il contrario. Per questo hanno cercato sempre di farci vivere bene, in un mondo possibilmente ovattato. Per questo non hanno quasi mai voluto raccontare dei periodi tragici delle loro vite: la miseria, due guerre mondiali, con l’intermezzo del fascismo. Da bambini, attorno ai primi anni ’50, ci si ritrovava spesso a giocare coi coperchini lungo una splendida, bianca scalinata in travertino, che dava sul marciapiede di Corso Garibaldi. Dietro quella scalinata non c’era niente, solo un terreno erboso. Nessuno ci aveva mai detto che quella era la scalinata di una vecchia grande villa padronale, presente ad Alfonsine già nel 1828, e che era stata colpita da un aereo inglese che vi sganciò sopra una bomba, nel 1945, la sera stessa in cui vi era appena arrivato un alto comandante delle “SS”. La villa era stata distrutta completamente con vari morti, sia civili ma soprattutto militari tedeschi delle SS. Io cominciai a capire questo solo quando vidi casualmente una foto anteguerra di Alfonsine in cui vi compariva la vecchia Villa di Maré (Marini), detta poi anche “Palazzo Preda”, (Antonio Preda era il geometra comunale che l’aveva acquistata, e ne era il proprietario, in quell'anno), o “Palazzo dell’Ebe” (la maestra Ebe Gramantieri moglie di Preda). Quando eravamo un po’ più grandicelli, a metà degli anni ’50 c’era un gioco che ci prendeva tutti. Si trattava di saltare giù dal monumento della pigna, che era situato in un cortile privato, a fianco delle case popolari di corso Garibaldi. In realtà era un rito primario di “iniziazione” all’adolescenza. Per dimostrare di essere finalmente “grandi” si doveva saltare a terra dalla parte alta del piedistallo. Un salto nel vuoto di circa due metri. Come ogni iniziazione che si rispetti c’era la perdita di sangue e la ferita che segna il distacco dall’infanzia (le ginocchia sbucciate e le mani scartavetrate). Ma che ci stava a fare un simile monumento in quel posto? Nessuno ce lo aveva mai spiegato. La
mia è una generazione, che usava frasi dialettali come “Mo’ va a
spass int’ Ho incontrato quasi un anno fa, casualmente, Tonino Pagani, di cui non conoscevo l’esistenza. Tutto è nato da un desiderio mio, quasi esistenziale, che da qualche anno mi pervade, di ascoltare racconti di vita vissuta degli anni del primo ‘900, del fascismo e della guerra. Non l’ho fatto quando era il momento, chiedendo direttamente ai miei nonni o alla mia mamma: ora è tardi, non ci sono più. Lo faccio con gli alfonsinesi più anziani o vecchi, che ancora hanno ricordi da tramandare, storie da raccontare, e ancora la voglia e il piacere di farlo. Quando Tonino mi ha fatto avere la prima bozza scritta del racconto sulla sua vita di adolescente alfonsinese, mi sono trovato a leggerla tutta d’un fiato: il desiderio di sentire il racconto della vita degli alfonsinesi, durante il fascismo e la guerra, da uno che l’ha vissuta in diretta, era finalmente soddisfatto. Il modo stesso di scrivere di Tonino mi è sembrato capace di fascinazione come quella che si prova quando vedi un film. C’è tra gli alfonsinesi un bisogno, una voglia di “ripristinare contatti col proprio passato”, di ricostruire una memoria storica, che ha rischiato più di una volta di ripartire da zero. Questo paese e la sua gente sono stati costretti da eventi, spesso tragici, e comunque violenti, a rimuovere dalla memoria collettiva (se non da quella dei singoli individui) parti della sua storia vissuta. Questa rimozione ha coinciso anche con la distruzione fisica di materiali documentali, di luoghi, di case, di persone. Una prima volta capitò con la cosiddetta “Settimana Rossa”: un tentativo rivoluzionario tutto romagnolo. La distruzione di parte dell’archivio comunale (verbali, atti di nascita ecc..) lasciò un vuoto di memoria, difficile da colmare ancora oggi. Soprattutto la critica e l’autocritica successive da parte di giornali, politici, partiti, cancellarono quasi completamente l’esperienza di rivolta e di festa, di carnevale e voglia di vita che in parte aveva caratterizzato quei giorni di metà giugno 1914. La “Settimana Rossa” passò alla storia come qualcosa da dimenticare. Gli alfonsinesi si trovarono a cancellare una parte della loro storia. La prima Grande Guerra diede il colpo finale. Nei primi anni ’50, capitava talvolta, ai bambini della mia generazione, di sentir parlare della “Settimana Rossa”: essa veniva citata con un certo sorriso, ma nessuno che abbia mai voluto raccontarcene qualcosa. La seconda amnesia ha colpito gli anni trenta, gli anni del fascismo vincente, che sono stati rimossi dall’indagine storica, dai racconti e perfino dai ricordi di molti di quegli stessi che li hanno vissuti. Di quel periodo nessuno, ad Alfonsine, ha mai raccontato niente, come se ancora una volta gli alfonsinesi si vergognassero del loro passato, e lo avessero cancellato dalla memoria. Una terza volta capitò con la distruzione dell’intero centro del paese nel gennaio-febbraio del 1945, quando i tedeschi minarono tutte le case di Corso Garibaldi, di Piazza Monti, di Carraretto Venturi, e - si dice - non terminarono del tutto l’opera perché non avevano più bombe, o perché non c’era più tempo. L’azzeramento dei luoghi (case, edifici pubblici, ecc…) determinò un nuovo azzeramento della memoria, soprattutto per le generazioni nate da lì in poi. Ecco: “ristabilire un contatto col passato” significa prendere per mano queste storie, ragionarci insieme, raccontarle, per colmare i buchi di memoria, per ricordare, capire e vivere con la gente di allora le emozioni, le aspettative, le rabbie, le gioie, le delusioni che attraversarono. Il racconto scritto da Tonino Pagani (d’Cai), in cui l’autore narra la propria vita, da sei a vent’anni, può aiutare a capire fino in fondo questo paese, e tutta la gente che ci è vissuta ed è riuscita a tirarlo fuori da tante tragedie, con dignità. |
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