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    traduzione di Vincenzo Monti 
    
     
    Libro Quarto 
    Nell'auree sale dell'Olimpo accolti 
    intorno a Giove si sedean gli Dei 
    a consulta. Fra lor la veneranda 
    Ebe versava le nettaree spume, 
    e quelli a gara con alterni inviti 
    l'auree tazze vôtavano mirando 
    la troiana città. Quand'ecco il sommo 
    Saturnio, inteso ad irritar Giunone, 
    con un obliquo paragon mordace 
    così la punse: Due possenti Dive 
    aiutatrici ha Menelao, l'Argiva 
    Giuno e Minerva Alalcomènia. E pure 
    neghittose in disparte ambo si stanno 
    sol del vederlo dilettate. Intanto 
    fida al fianco di Paride l'amica 
    del riso Citerea lungi respinge 
    dal suo caro la Parca; e dianzi, in quella 
    ch'ei morto si tenea, servollo in vita. 
    Rimasta è al forte Menelao la palma; 
    ma l'alto affar non è compiuto, e a noi 
    tocca il condurlo, e statuir se guerra 
    fra le due genti rinnovar si debba, 
    od in pace comporle. Ove la pace 
    tutti appaghi gli Dei, stia Troia, e in Argo 
    con la consorte Menelao ritorni. 
    Strinser, fremendo a questo dir, le labbia 
    Giuno e Minerva, che vicin sedute 
    venìan de' Teucri macchinando il danno. 
    Quantunque al padre fieramente irata 
    tacque Minerva e non fiatò. Ma l'ira 
    non contenne Giunone, e sì rispose: 
    Acerbo Dio, che parli? A far di tante 
    armate genti accolta, alla ruïna 
    di Priamo e de' suoi figli, ho stanchi i miei 
    immortali corsieri; e tu pretendi 
    frustrar la mia fatica, ed involarmi 
    de' miei sudori il frutto? Eh ben t'appaga; 
    ma di noi tutti non sperar l'assenso. 
    Feroce Diva, replicò sdegnoso 
    l'adunator de' nembi, e che ti fêro, 
    e Priamo e i Priamìdi, onde tu debba 
    voler sempre di Troia il giorno estremo? 
    La tua rabbia non fia dunque satolla 
    se non atterri d'Ilïon le porte, 
    e sull'infrante mura non ti bevi 
    del re misero il sangue e de' suoi figli 
    e di tutti i Troiani? Or su, fa come 
    più ti talenta, onde fra noi sorgente 
    d'acerbe risse in avvenir non sia 
    questo dissidio: ma riponi in petto 
    le mie parole. Se desìo me pure 
    prenderà d'atterrar qualche a te cara 
    città, non porre a' miei disdegni inciampo, 
    e liberi li lascia. A questo patto 
    Troia io pur t'abbandono, e di mal cuore; 
    ché, di quante città contempla in terra 
    l'occhio del sole e dell'eteree stelle, 
    niuna io m'aggio più cara ed onorata 
    come il sacro Ilïone e Priamo e tutta 
    di Priamo pur la bellicosa gente: 
    perocché l'are mie per lor di sacre 
    opìme dapi abbondano mai sempre, 
    e di libami e di profumi, onore 
    solo alle dive qualità sortito. 
    Compose a questo dir la veneranda 
    Giuno gli sguardi maestosi, e disse: 
    Tre cittadi sull'altre a me son care 
    Argo, Sparta, Micene; e tu le struggi 
    se odiose ti sono. A lor difesa 
    né man né lingua moverò; ché quando 
    pure impedir lo ti volessi, indarno 
    il tentarlo uscirìa, sendo d'assai 
    tu più forte di me. Ma dritto or parmi 
    che tu vano non renda il mio disegno, 
    ch'io pur son nume, e a te comune io traggo 
    l'origine divina, io dell'astuto 
    Saturno figlia, e in alto onor locata, 
    perché nacqui sorella e perché moglie 
    son del re degli Dei. Facciam noi dunque 
    l'un dell'altro il volere, e il seguiranno 
    gli altri Eterni. Or tu ratto invìa Minerva 
    fra i due commossi eserciti, onde spinga 
    i Troiani ad offendere primieri, 
    rotto l'accordo, i baldanzosi Achei. 
    Assentì Giove al detto, ed a Minerva, 
    Scendi, disse, veloce, e fa che i Teucri 
    primi offendan gli Achei, turbando il patto. 
    A Minerva, per sé già desïosa, 
    sprone aggiunse quel cenno. In un baleno 
    dall'Olimpo calò. Quale una stella 
    cui portento a' nocchieri o a numerose 
    schiere d'armati scintillante e chiara 
    invìa talvolta di Saturno il figlio; 
    tale in vista precipita dall'alto 
    Minerva in terra, e piantasi nel mezzo. 
    Stupîr Teucri ed Achivi all'improvvisa 
    visïone, e talun disse al vicino: 
    Arbitro della guerra oggi vuol Giove 
    per certo rinnovar fra un campo e l'altro 
    l'acerba pugna, o confermar la pace. 
    La Dea mischiossi tra la folta intanto 
    delle turbe troiane, e la sembianza 
    di Laòdoco assunta (un valoroso 
    d'Antènore figliuol) si pose in traccia 
    del dëiforme Pandaro. Trovollo 
    stante in piedi nel mezzo al clipeato 
    stuolo de' forti che l'avea seguìto 
    dalle rive d'Esepo. Appropinquossi 
    a lui la Diva, e disse: Inclito germe 
    di Licaon, vuoi tu ascoltarmi? Ardisci, 
    vibra nel petto a Menelao la punta 
    d'un veloce quadrello. E grazia e lode 
    te ne verrà dai Dardani e dal prence 
    Paride in prima, che d'illustri doni 
    colmeratti, vedendo il suo rivale 
    montar sul rogo, dal tuo stral trafitto. 
    Su via dunque, dardeggia il burbanzoso 
    Atride, e al licio saettante Apollo 
    prometti che, tornato al patrio tetto 
    nella sacra Zelèa, darai di scelti 
    primogeniti agnelli un'ecatombe. 
    Così disse Minerva, e dello stolto 
    persuase il pensier. Diè mano ei tosto 
    al bell'arco, già spoglia di lascivo 
    capro agreste. L'aveva egli d'agguato, 
    mentre dal cavo d'una rupe uscìa, 
    colto nel petto, e su la rupe steso 
    resupino. Sorgevano alla belva 
    lunghe sedici palmi su l'altera 
    fronte le corna. Artefice perito 
    le polì, le congiunse, e di lucenti 
    anelli d'oro ne fregiò le cime. 
    Tese quest'arco, e dolcemente a terra 
    Pandaro l'adagiò. Dinanzi a lui 
    protendono le targhe i fidi amici, 
    onde assalito dagli Achei non vegna, 
    pria ch'egli il marzio Menelao percuota. 
    Scoperchiò la faretra, ed un alato 
    intatto strale ne cavò, sorgente 
    di lagrime infinite. Indi sul nervo 
    l'adattando promise al licio Apollo 
    di primonati agnelli un'ecatombe 
    ritornato in Zelèa. Tirò di forza 
    colla cocca la corda, alla mammella 
    accostò il nervo, all'arco il ferro, e fatto 
    dei tesi estremi un cerchio, all'improvviso 
    l'arco e il nervo fischiar forte s'udiro, 
    e lo strale fuggì desideroso 
    di volar fra le turbe. Ma non fûro 
    immemori di te, tradito Atride, 
    in quel punto gli Dei. L'armipotente 
    figlia di Giove si parò davanti 
    al mortifero telo, e dal tuo corpo 
    lo devïò sollecita, siccome 
    tenera madre che dal caro volto 
    del bambino che dorme un dolce sonno, 
    scaccia l'insetto che gli ronza intorno. 
    Ella stessa la Dea drizzò lo strale 
    ove appunto il bel cinto era frenato 
    dall'auree fibbie, e si stendea davanti 
    qual secondo torace. Ivi l'acerbo 
    quadrello cadde, e traforando il cinto 
    nel panzeron s'infisse e nella piastra 
    che dalle frecce il corpo gli schermìa. 
    Questa gli valse allor d'assai, ma pure 
    passolla il dardo, e ne sfiorò la pelle, 
    sì che tosto diè sangue la ferita. 
    Come quando meonia o caria donna 
    tinge d'ostro un avorio, onde fregiarne 
    di superbo destriero le mascelle; 
    molti d'averlo cavalieri han brama; 
    ma in chiusa stanza ei serbasi bel dono 
    a qualche sire, adornamento e pompa 
    del cavallo ed in un del cavaliero: 
    così di sangue imporporossi, Atride, 
    la tua bell'anca, e per lo stinco all'imo 
    calcagno corse la vermiglia riga. 
    Raccapricciossi a questa vista il rege 
    Agamennón, raccapricciò lo stesso 
    marzïal Menelao; ma quando ei vide 
    fuor della polpa l'amo dello strale, 
    gli tornò tosto il core, e si rïebbe. 
    Per man tenealo intanto Agamennóne, 
    ed altamente fra i dolenti amici 
    sospirando dicea: Caro fratello, 
    perché qui morto tu mi fossi, io dunque 
    giurai l'accordo, te mettendo solo 
    per gli Achivi a pugnar contra i Troiani, 
    contra i Troiani che l'accordo han rotto, 
    e a tradimento ti ferîr? Ma vano 
    non andrà delle vittime il giurato 
    sangue, né i puri libamenti ai numi, 
    né la fé delle destre. Il giusto Giove 
    può differire ei sì, ma non per certo 
    obblïar la vendetta; e caro un giorno 
    colle lor teste, colle mogli e i figli 
    ne pagheranno gli spergiuri il fio. 
    Tempo verrà (di questo ho certo il core) 
    ch'Ilio e Priamo perisca, e tutta insieme 
    la sua perfida gente. Dall'eccelso 
    etereo seggio scoterà sovr'essi 
    l'egida orrenda di Saturno il figlio 
    di tanta frode irato; e non cadranno 
    vôti i suoi sdegni. Ma d'immenso lutto 
    tu cagion mi sarai, dolce fratello, 
    se morte tronca de' tuoi giorni il corso. 
    Sorgerà negli Achei vivo il desìo 
    del patrio suolo, e d'onta carco in Argo 
    io tornerommi, e lasceremo ai Teucri, 
    glorïoso trofeo, la tua consorte. 
    Putride intanto nell'iliaca terra 
    l'ossa tue giaceran, senz'aver dato 
    fine all'impresa, e il tumulo del mio 
    prode fratello un qualche Teucro altero 
    calpestando, dirà: Possa i suoi sdegni 
    satisfar così sempre Agamennóne, 
    siccome or fece, senza pro guidando 
    l'argoliche falangi a questo lido, 
    d'onde scornato su le vote navi 
    alla patria tornò, qui derelitto 
    l'illustre Menelao. Sì fia ch'ei dica; 
    e allor mi s'apra sotto i piè la terra. 
    Ti conforta, rispose il biondo Atride, 
    né co' lamenti spaventar gli Achivi. 
    In mortal parte non ferì l'acuto 
    dardo: di sopra il ricamato cinto 
    mi difese, e di sotto la corazza 
    e questa fascia che di ferrea lama 
    buon fabbro foderò. - Sì voglia il cielo, 
    diletto Menelao, l'altro riprese. 
    Intanto tratterà medica mano 
    la tua ferita, e farmaco porravvi 
    atto a lenire ogni dolor. - Si volse 
    all'araldo, ciò detto, e, Va, soggiunse, 
    vola, o Taltibio, e fa che ratto il figlio 
    d'Esculapio, divin medicatore, 
    Macaon qua ne vegna, e degli Achei 
    al forte duce Menelao soccorra, 
    cui di freccia ferì qualche troiano 
    o licio saettier che sé di gloria, 
    noi di lutto coprì. - Disse, e l'araldo 
    tra le falangi achee corse veloce 
    in traccia dell'eroe. Ritto lo vide 
    fra lo stuolo de' prodi che da Tricca 
    altrice di corsier l'avea seguìto: 
    appressossi, e con rapide parole, 
    Vien, gli disse, t'affretta, o Macaone; 
    Agamennón ti chiama: il valoroso 
    Menelao fu di stral colto da qualche 
    licio arciero o troiano che superbo 
    va del nostro dolor. Corri, e lo sana. 
    Al tristo annunzio si commosse il figlio 
    d'Esculapio; e veloci attraversando 
    il largo campo acheo, fur tosto al loco 
    ove al ferito dëiforme Atride 
    facean cerchio i migliori. Incontanente 
    dal balteo estrasse Macaon lo strale, 
    di cui curvârsi nell'uscir gli acuti 
    ami: disciolse ei quindi il vergolato 
    cinto e il torace colla ferrea fascia 
    sovrapposta; e scoperta la ferita, 
    succhionne il sangue, e destro la cosparse 
    dei lenitivi farmaci che al padre, 
    d'amor pegno, insegnati avea Chirone. 
    Mentre questi alla cura intenti sono 
    del bellicoso Atride, ecco i Troiani 
    marciar di nuovo con gli scudi al petto, 
    e di nuovo gli Achei l'armi vestire 
    di battaglia bramosi. Allor vedevi 
    non assonnarsi, non dubbiar, né pugna 
    schivar l'illustre Agamennón; ma ratto 
    volar nel campo della gloria. Il carro 
    e i fervidi destrier tratti in disparte 
    lascia all'auriga Eurimedonte, figlio 
    del Piraìde Tolomèo; gl'impone 
    di seguirlo vicin, mentre pel campo 
    ordinando le turbe egli s'aggira, 
    onde accorrergli pronto ove stanchezza 
    gli occupasse le membra. Egli pedone 
    scorre intanto le file, e quanti all'armi 
    affrettarsi ne vede, ei colla voce 
    fortemente gl'incuora, e grida: Argivi, 
    niun rallenti le forze: il giusto Giove 
    bugiardi non aiuta: chi primiero 
    l'accordo vïolò, pasto vedrassi 
    di voraci avoltoi, mentre captive 
    le dilette lor mogli in un co' figli 
    noi nosco condurremo, Ilio distrutto. 
    Quanti poi ne scorgea ritrosi e schivi 
    della battaglia, con irati accenti 
    li rabbuffando, O Argivi, egli dicea, 
    o guerrier da balestra, o vitupèri! 
    Non vi prende vergogna? A che vi state 
    istupiditi come zebe, a cui, 
    dopo scorso un gran campo, la stanchezza 
    ruba il piede e la lena? E voi del pari 
    allibiti al pugnar vi sottraete. 
    Aspettate voi forse che il nemico 
    alla spiaggia s'accosti ove ritratte 
    stan sul secco le prore, onde si vegga 
    se Giove allor vi stenderà la mano? 
    Così imperando trascorrea le schiere. 
    Venne ai Cretesi; e li trovò che all'armi 
    davan di piglio intorno al bellicoso 
    Idomenèo. Per vigorìa di forze 
    pari a fiero cinghiale Idomenèo 
    guidava l'antiguardia, e Merïone 
    la retroguardia. Del vederli allegro 
    il sir de' forti Atride al re cretese 
    con questo dolce favellar si volse: 
    Idomenèo, te sopra i Dànai tutti 
    cavalieri veloci in pregio io tegno, 
    sia nella guerra, sia nell'altre imprese, 
    sia ne' conviti, allor che ne' crateri 
    d'almo antico lïeo versan la spuma 
    i supremi tra' Greci. Ove degli altri 
    chiomati Achivi misurato è il nappo, 
    il tuo del par che il mio sempre trabocca, 
    quando ti prende di bombar la voglia. 
    Or entra nella pugna, e tal ti mostra 
    qual dianzi ti vantasti. - E de' Cretensi 
    a lui lo duce: Atride, io qual già pria 
    t'impromisi e giurai, fido compagno 
    per certo ti sarò. Ma tu rinfiamma 
    gli altri Achivi a pugnar senza dimora. 
    Rupper l'accordo i Teucri, e perché primi 
    del patto vïolâr la santitate, 
    sul lor capo cadran morti e ruïne. 
    Disse; e gioioso proseguì l'Atride 
    fra le caterve la rivista, e venne 
    degli Aiaci alla squadra. In tutto punto 
    metteansi questi, e li seguìa di fanti 
    un nugolo. Siccome allor che scopre 
    d'alto loco il pastor nube che spinta 
    su per l'onde da Cauro s'avvicina, 
    e bruna più che pece il mar vïaggia, 
    grave il seno di nembi; inorridito 
    ei la guarda, ed affretta alla spelonca 
    le pecorelle; così negre ed orride 
    per gli scudi e per l'aste si moveano 
    sotto gli Aiaci accolte le falangi 
    de' giovani veloci al rio conflitto. 
    Allegrossi a tal vista Agamennóne, 
    e a' lor duci converso in presti accenti, 
    Aiaci, ei disse, condottieri egregi 
    de' loricati Achivi, io non v'esorto, 
    (ciò fôra oltraggio) a inanimar le vostre 
    schiere; già per voi stessi a fortemente 
    pugnar le stimolate. Al sommo Giove 
    e a Pallade piacesse e al santo Apollo, 
    che tal coraggio in ogni petto ardesse, 
    e tosto presa ed adeguata al suolo 
    per le man degli Achei Troia cadrebbe. 
    Così detto lasciolli, e procedendo 
    a Nestore arrivò, Nestore arguto 
    de' Pilii arringator, che in ordinanza 
    i suoi prodi metteva, e alla battaglia 
    li concitava. Stavangli dintorno 
    il grande Pelagonte ed Alastorre, 
    e il prence Emone e Cromio, ed il pastore 
    di popoli Biante. In prima ei pose 
    alla fronte coi carri e coi cavalli 
    i cavalieri, e al retroguardo i fanti, 
    che molti essendo e valorosi, il vallo 
    formavano di guerra. Indi nel mezzo 
    i codardi rinchiuse, onde forzarli 
    lor mal grado a pugnar. Ma innanzi a tutto 
    porge ricordo ai combattenti equestri 
    di frenar lor cavalli, e non mischiarsi 
    confusamente nella folla. - Alcuno 
    non sia, soggiunse, che in suo cor fidando 
    e nell'equestre maestrìa, s'attenti 
    solo i Teucri affrontar di schiera uscito: 
    né sia chi retroceda; ché cedendo 
    si sgagliarda il soldato. Ognun che sceso 
    dal proprio carro l'ostil carro assalga, 
    coll'asta bassa investalo, ché meglio 
    sì pugnando gli torna. Con quest'arte, 
    con questa mente e questo ardir nel petto 
    le città rovesciâr gli antichi eroi. 
    Il canuto così mastro di guerra 
    le sue genti animava. In lui fissando 
    gli occhi l'Atride, giubilonne, e tosto 
    queste parole gli drizzò: Buon veglio, 
    oh t'avessi tu salde le ginocchia 
    e saldi i polsi come hai saldo il core! 
    La ria vecchiezza, che a null'uom perdona, 
    ti logora le forze: ah perché d'altro 
    guerrier non grava la crudel le spalle! 
    perché de' tuoi begli anni è morto il fiore! 
    Ed il gerenio cavalier rispose: 
    Atride, al certo bramerei pur io 
    quelle forze ch'io m'ebbi il dì che morte 
    diedi all'illustre Ereutalion. Ma tutti 
    tutto ad un tempo non comparte Giove 
    i suoi doni al mortal. Rideami allora 
    gioventude: or mi doma empia vecchiezza. 
    Ma qual pur sono mi starò nel mezzo 
    de' cavalieri nella pugna, e gli altri 
    gioverò di parole e di consiglio, 
    ché questo è officio de' provetti. Dêssi 
    lasciar dell'aste il tiro ai giovinetti 
    di me più destri e nel vigor securi. 
    Disse; e lieto l'Atride oltrepassando 
    venne al Petìde Menestèo, perito 
    di cocchi guidator, ritto nel mezzo 
    de' suoi prodi Cecròpii. Eragli accanto 
    lo scaltro Ulisse colle forti schiere 
    de' Cefaleni, che non anco udito 
    di guerra il grido avean, poiché le teucre 
    e l'argive falangi allora allora 
    cominciavan le mosse: e questi in posa 
    aspettavan che stuolo altro d'Achei 
    impeto fêsse ne' Troiani il primo, 
    e ingaggiasse battaglia. In quello stato 
    li sorprese l'Atride; e corruccioso 
    fe' dal labbro volar questa rampogna: 
    Petìde Menestèo, figlio non degno 
    d'un alunno di Giove, e tu d'inganni 
    astuto fabbro, a che tremanti state 
    gli altri aspettando, e separati? A voi 
    entrar conviensi nella mischia i primi, 
    perché primi io vi chiamo anche ai conviti 
    ch'ai primati imbandiscono gli Achei. 
    Ivi il saìme saporar vi giova 
    delle carni arrostite, e a piena gola 
    di soave lïeo cioncar le tazze. 
    Or vi giova esser gli ultimi, e vi fôra 
    grato il veder ben dieci squadre achee 
    innanzi a voi scagliarsi entro il conflitto. 
    Lo guatò bieco Ulisse, e gli rispose: 
    Qual detto, Atride, ti fuggì di bocca? 
    E come ardisci di chiamarne in guerra 
    neghittosi? Allorché contra i Troiani 
    daran principio al rio marte gli Achei, 
    vedrai, se il brami e te ne cal, vedrai 
    nelle dardanie file antesignane 
    di Telemaco il padre. Or cianci al vento. 
    Veduto il cruccio dell'eroe, sorrise 
    l'Atride, e dolce ripigliò: Divino 
    di Laerte figliuol, sagace Ulisse, 
    né sgridarti vogl'io, né comandarti 
    fuor di stagione, ch'io ben so che in petto 
    volgi pensieri generosi, e senti 
    ciò ch'io pur sento. Or vanne, e pugna; e s'ora 
    dal labbro mi fuggì cosa mal detta, 
    ripareremla in altro tempo. Intanto 
    ne disperdano i numi ogni ricordo. 
    Ciò detto, gli abbandona, e ad altri ei passa; 
    e ritto in piedi sul lucente cocchio 
    il magnanimo figlio di Tidèo 
    Diomede ritrova. Al fianco ha Stènelo, 
    prole di Capanèo. Si volse il sire 
    Agamennóne a Diomede, e ratto 
    con questi accenti rampognollo: Ahi figlio 
    del bellicoso cavalier Tidèo, 
    di che paventi? Perché guardi intorno 
    le scampe della pugna? Ah! non solea 
    così Tidèo tremar; ma precorrendo 
    d'assai gli amici, co' nemici ei primo 
    s'azzuffava. Ciascun che ne' guerrieri 
    travagli il vide, lo racconta. In vero 
    né compagno io gli fui né testimone, 
    ma udii che ogni altro di valore ei vinse. 
    Ben coll'illustre Polinice un tempo 
    senz'armati in Micene ospite ei venne, 
    onde far gente che alle sacre mura 
    li seguisse di Tebe, a cui già mossa 
    avean la guerra; e ne fêr ressa e preghi 
    per ottenerne generosi aiuti; 
    e volevam noi darli, e la domanda 
    tutta appagar; ma con infausti segni 
    Giove da tanto ne distolse. Or come 
    gli eroi si fûro dipartiti e giunti 
    dopo molto cammino al verdeggiante 
    giuncoso Asopo, ambasciatore a Tebe 
    spedîr Tidèo gli Achivi. Andovvi, e molti 
    banchettanti Cadmei trovò del forte 
    Eteòcle alle mense. In mezzo a loro, 
    quantunque estrano e solo, il cavaliero 
    senza punto temer tutti sfidolli 
    al paragon dell'armi, e tutti ei vinse, 
    col favor di Minerva. Irati i vinti 
    di cinquanta guerrieri, al suo ritorno, 
    gli posero un agguato. Eran lor duci 
    l'Emonide Meone, uom d'almo aspetto, 
    e d'Autofano il figlio Licofonte, 
    intrepido campion. Tidèo gli uccise 
    tutti, ed un solo per voler de' numi, 
    il sol Meone rimandonne a Tebe. 
    Tal fu l'etòlo eroe, padre di prole 
    miglior di lingua, ma minor di fatti. 
    Non rispose all'acerbo il valoroso 
    Tidìde, e rispettò del venerando 
    rege il rabbuffo; ma rispose il figlio 
    del chiaro Capanèo, dicendo: Atride, 
    non mentir quando t'è palese il vero. 
    Migliori assai de' nostri padri a dritto 
    noi ci vantiam. Noi Tebe e le sue sette 
    porte espugnammo: e nondimen più scarsi 
    eran gli armati che guidammo al sacro 
    muro di Marte, ne' divini auspìci 
    fidando e in Giove. Per l'opposto quelli 
    peccâr d'insano ardire e vi periro. 
    Non pormi adunque in onor pari i padri. 
    Gli volse un guardo di traverso il forte 
    Tidìde, e ripigliò: T'accheta, amico, 
    ed obbedisci al mio parlar. Non io, 
    se il re supremo Agamennóne istiga 
    alla pugna gli Achei, non io lo biasmo. 
    Fia sua la gloria, se, domati i Teucri, 
    noi la sacra cittade espugneremo, 
    e suo, se spenti noi cadremo, il lutto. 
    Dunque a dar prove di valor si pensi. 
    Disse, e armato balzò dal cocchio in terra. 
    Orrendamente risonâr sul petto 
    l'armi al re concitato, a tal che preso 
    n'avrìa spavento ogni più fermo core. 
    Siccome quando al risonante lido, 
    di Ponente al soffiar, l'uno sull'altro 
    del mar si spinge il flutto; e prima in alto 
    gonfiasi, e poscia su la sponda rotto 
    orribilmente freme, e intorno agli erti 
    scogli s'arriccia, li sormonta, e in larghi 
    sprazzi diffonde la canuta spuma: 
    incessanti così l'una su l'altra 
    movon l'achee falangi alla battaglia 
    sotto il suo duce ognuna; e sì gran turba 
    marcia sì cheta, che di voce priva 
    la diresti al vederla; e riverenza 
    era de' duci quel silenzio; e l'armi 
    di varia guisa, di che gìan vestiti 
    tutti in ischiera, li cingean di lampi. 
    Ma simiglianti i Teucri a numeroso 
    gregge che dentro il pecoril di ricco 
    padron, nell'ora che si spreme il latte, 
    s'ammucchiano, e al belar de' cari agnelli 
    rispondono belando alla dirotta; 
    così per l'ampio esercito un confuso 
    mettean schiamazzo i Teucri, ché non uno 
    era di tutti il grido né la voce, 
    ma di lingue un mistìo, sendo una gente 
    da più parti raccolta. A questi Marte, 
    a quei Minerva è sprone, e quinci e quindi 
    lo Spavento e la Fuga, e del crudele 
    Marte suora e compagna la Contesa 
    insazïabilmente furibonda, 
    che da principio piccola si leva, 
    poi mette il capo tra le stelle, e immensa 
    passeggia su la terra. Essa per mezzo 
    alle turbe scorrendo, e de' mortali 
    addoppiando gli affanni, in ambedue 
    le bande sparse una rabbiosa lite. 
    Poiché l'un campo e l'altro in un sol luogo 
    convenne, e si scontrâr l'aste e gli scudi, 
    e il furor de' guerrieri, scintillanti 
    ne' risonanti usberghi, e delle colme 
    targhe già il cozzo si sentìa, levossi 
    un orrendo tumulto. Iva confuso 
    col gemer degli uccisi il vanto e il grido 
    degli uccisori, e il suol sangue correa. 
    Qual due torrenti che di largo sbocco 
    devolvonsi dai monti, e nella valle 
    per lo concavo sen d'una vorago 
    confondono le gonfie onde veloci: 
    n'ode il fragor da lungi in cima al balzo 
    l'atterrito pastor: tal dai commisti 
    eserciti sorgea fracasso e tema. 
    Primo Antiloco uccise un valoroso 
    Teucro, alle mani nelle prime file, 
    il Taliside Echèpolo, il ferendo 
    nel cono del chiomato elmo: s'infisse 
    la ferrea punta nella fronte, e l'osso 
    trapanò: s'abbuiâr gli occhi al meschino, 
    che strepitoso cadde come torre. 
    Ghermì pe' piedi quel caduto il prence 
    de' magnanimi Abanti Elefenorre 
    figliuol di Calcodonte, e desïoso 
    di spogliarlo dell'armi, lo traea 
    fuor della mischia: ma fallì la brama; 
    ché mentre il morto ei dietro si strascina, 
    Agenore il sorprende, e a lui che curvo 
    offrìa nudati di pavese i fianchi, 
    tale un colpo assestò, che gli disciolse 
    le forze, e l'alma abbandonollo. Allora 
    tra i Troiani e gli Achei surse una fiera 
    zuffa sovr'esso: s'affrontâr quai lupi, 
    e in mutua strage si metteano a morte. 
    Qui fu che Aiace Telamonio il figlio 
    d'Antemion percosse il giovinetto 
    Simoesio, cui scesa dall'Idee 
    cime la madre partorì sul margo 
    del Simoenta, un giorno ivi venuta 
    co' genitori a visitar la greggia; 
    e Simoesio lo nomâr dal fiume. 
    Misero! Ché dei presi in educarlo 
    dolci pensieri ai genitor diletti 
    rendere il merto non poteo: la lancia 
    d'Aiace il colse, e il viver suo fe' breve. 
    Al primo scontro lo colpì nel petto 
    su la destra mammella, e la ferrata 
    punta pel tergo riuscir gli fece. 
    Cadde il garzone nella polve a guisa 
    di liscio pioppo su la sponda nato 
    d'acquidosa palude: a lui de' rami 
    già la pompa crescea, quando repente 
    colla fulgida scure lo recise 
    artefice di carri, e inaridire 
    lungo la riva lo lasciò del fiume, 
    onde poscia foggiarne di bel cocchio 
    le volubili rote: così giacque 
    l'Antemide trafitto Simoesio, 
    e tale dispogliollo il grande Aiace. 
    Contro Aiace l'acuta asta diresse 
    d'infra le turbe allor di Priamo il figlio 
    Antifo, e il colpo gli fallì; ma colse 
    nell'inguine il fedel d'Ulisse amico 
    Leuco che già di Simoesio altrove 
    traea la salma; e accanto al corpo esangue, 
    che di man gli cadea, cadde egli pure. 
    Forte adirato dell'ucciso amico 
    si spinse Ulisse tra gl'innanzi, tutto 
    scintillante di ferro, e più dappresso 
    facendosi, e dintorno il guardo attento 
    rivolgendo, librò l'asta lucente. 
    Si misero a quell'atto in guardia i Teucri, 
    e lo cansâr; ma quegli il telo a vôto 
    non sospinse, e ferì Democoonte, 
    Priamide bastardo che d'Abido 
    con veloci puledre era venuto. 
    A costui fulminò l'irato Ulisse 
    nelle tempie la lancia; e trapassolle 
    la ferrea punta. Tenebrârsi i lumi 
    al trafitto che cadde fragoroso, 
    e cupo gli tonâr l'armi sul petto. 
    Rinculò de' Troiani, al suo cadere, 
    la fronte, rinculò lo stesso Ettorre; 
    dier gli Argivi alte grida, ed occupati 
    i corpi uccisi, s'avanzâr di punta. 
    Dalla rocca di Pergamo mirolli 
    sdegnato Apollo, e rincorando i Teucri 
    con gran voce gridò: Fermo tenete, 
    valorosi Troiani, ed agli Achei 
    non cedete l'onor di questa pugna, 
    ché né pietra né ferro è la lor pelle 
    da rintuzzar delle vostr'armi il taglio. 
    Non combatte qui, no, della leggiadra 
    Tétide il figlio: non temete; Achille 
    stassi alle navi a digerir la bile. 
    Così dall'alto della rocca il Dio 
    terribile sclamò. Ma la feroce 
    Palla, di Giove glorïosa figlia, 
    discorrendo le file inanimava 
    gli Achivi, ovunque li vedea rimessi. 
    Qui la Parca allacciò l'Amarancìde 
    Dïore. Un'aspra e quanto cape il pugno 
    grossa pietra il percosse alla diritta 
    tibia presso il tallone, e feritore 
    fu l'Imbraside Piro che de' Traci 
    condottiero dall'Eno era venuto. 
    Franse ambidue li nervi e la caviglia 
    l'improbo sasso, ed ei cadde supino 
    nella sabbia, e mal vivo ambo le mani 
    ai compagni stendea. Sopra gli corse 
    il percussore, e l'asta in mezzo all'epa 
    gli cacciò. Si versâr tutte per terra 
    le intestina, e mortale ombra il coperse. 
    All'irruente Piro allor l'Etòlo 
    Toante si rivolge; e lui nel petto 
    con la lancia ferendo alla mammella 
    nel polmon gliela ficca. Indi appressato 
    gliela sconficca dalla piaga; e in pugno 
    stretta l'acuta spada glie l'immerse 
    nella ventraia, e gli rapìo la vita; 
    l'armi non già, ché intorno al morto Piro 
    colle lungh'aste in pugno irti di ciuffi 
    affollârsi i suoi Traci, e il chiaro Etòlo, 
    benché grande e gagliardo, allontanaro 
    sì che a forza respinto si ritrasse. 
    Così l'uno appo l'altro nella polve 
    giacquero i due campioni, il tracio duce, 
    e il duce degli Epei. Dintorno a questi 
    molt'altri prodi ritrovâr la morte. 
    Chi da ferite illeso, e da Minerva 
    per man guidato, e preservato il petto 
    dal volar degli strali, avvolto in mezzo 
    alla pugna si fosse, avrìa le forti 
    opre stupito degli eroi, ché molti 
    e Troiani ed Achivi nella polve 
    giacquer proni e confusi in quel conflitto. 
     
    
      
          
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