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 traduzione di Vincenzo Monti 
 Libro Decimottavo Tutta così qual fiamma arde la pugna.Veloce messaggier correa frattanto
 Antìloco ad Achille. Anzi all'eccelse
 sue navi il trova, che nel cor già volge
 l'accaduto disastro, e nel segreto
 della grand'alma sospirando, dice:
 Perché di nuovo, ohimè! verso le navi
 fuggon gli Achivi con tumulto, e vanno
 spaventati pel campo? Ah! non mi cómpia
 l'ira de' numi la crudel sventura
 che un dì la madre profetò, narrando
 che, me vivente ancor, de' Mirmidóni
 il più prode guerrier dai Teucri ucciso
 del Sol la luce abbandonato avrìa.
 Ah! certo di Menèzio il forte figlio
 morì. Infelice! E pur gl'imposi io stesso
 che risospinta la nemica fiamma
 ritornasse alle navi, e con Ettorre
 cimentarsi in battaglia oso non fosse.
 In questo rio pensier l'aggiunse il figlio
 di Nestore piangendo, e, Ohimè! gli disse,
 magnanimo Pelìde; una novella
 tristissima ti reco, e che nol fosse
 oh piacesse agli Dei! Giace Patròclo;
 sul cadavere nudo si combatte;
 nudo; ché l'armi n'ha rapito Ettorre.
 Una negra a que' detti il ricoperse
 nube di duol; con ambedue le pugna
 la cenere afferrò, giù per la testa
 la sparse, e tutto ne bruttò il bel volto
 e la veste odorosa. Ei col gran corpo
 in grande spazio nella polve steso
 giacea turbando colle man le chiome
 e stracciandole a ciocche. Al suo lamento
 accorsero d'Achille e di Patròclo
 l'addolorate ancelle, e con alti urli
 si fêr dintorno al bellicoso eroe
 percotendosi il seno, e ciascheduna
 sentìa mancarsi le ginocchia e il core.
 Dall'altra parte Antìloco pietoso
 lagrimando dirotto, e di cordoglio
 spezzato il petto rattenea d'Achille
 le terribili mani, onde col ferro
 non si squarciasse per furor la gola.
 Udì del figlio l'ululato orrendo
 la veneranda Teti che del mare
 sedea ne' gorghi al vecchio padre accanto.
 Mise un gemito, e tutte a lei dintorno
 si raccolser le Dee, quante ne serra
 il mar profondo, di Nerèo figliuole
 Glauce, Talìa, Cimòdoce, Nesea
 e Spio vezzosa e Toe ed Alie bella
 per bovine pupille, e la gentile
 Cimòtoe ed Attea: quindi Melìte
 e Limnòria e Anfitòe, Jera ed Agave,
 Doto, Proto, Ferusa e Dinamena
 e Desamena ed Amfinòma e seco
 Callïanìra e Dori e Panopea,
 e sovra tutte Galatea famosa;
 v'era Apseude e Nemerte e con Janira
 Callïanassa ed Ïanassa; alfine
 l'alma Climene, e Mera ed Oritìa
 ed Amatea dall'auree trecce, ed altre
 Nerëidi dell'onda abitatrici.
 Tutto di lor fu pieno in un momento
 il cristallino speco, e tutte insieme
 batteansi il petto, allorché Teti in mezzo
 tal diè principio al lamentar: Sorelle,
 m'udite, e quanto è il mio dolor vedete.
 Ohimè misera! ohimè madre infelice
 di fortissima prole! Io generai
 un valoroso incomparabil figlio,
 il più prestante degli eroi: lo crebbi,
 lo coltivai siccome pianta eletta
 in fertile terren: poscia ne' campi
 d'Ilio lo spinsi su le navi io stessa
 a pugnar co' Troiani. Ahi che m'è tolto
 l'abbracciarlo tornato alla paterna
 reggia! e finch'egli all'amor mio pur vive,
 fin che gli è dato di fruir la luce,
 di tristezza si pasce; ed io, comunque
 a lui mi rechi, sovvenir nol posso.
 Nondimeno v'andrò, del caro figlio
 vedrò l'aspetto, e intenderò qual duolo
 dalla guerra lontano il cor gl'ingombra.
 Uscì, ciò detto, dallo speco, e quelle
 piangendo la seguîr: l' onda ai lor passi
 riverente s'aprìa. Come di Troia
 attinsero le rive, in lunga fila
 emersero sul lido ove frequenti
 le mirmidònie antenne in ordinanza
 facean selva e corona al grande Achille.
 A lui che in gravi si struggea sospiri
 la diva madre s'appressò, proruppe
 in acuti ululati, ed abbracciando
 l'amato capo, e lagrimando, disse:
 Figlio, che piangi? Che dolore è questo?
 Nol mi celar, deh parla. A compimento
 mandò pur Giove il tuo pregar: gli Achivi
 son pur, siccome supplicasti, astretti
 ripararsi alle navi, e del tuo braccio
 aver mestiero, di sciagure oppressi.
 Con un forte sospir rispose Achille:
 O madre mia, ben Giove a me compiacque
 ogni preghiera: ma di ciò qual dolce
 me ne procede, se il diletto amico,
 se Pàtroclo è già spento? Io lo pregiava
 sovra tutti i compagni; io di me stesso
 al par l'amava, ahi lasso! e l'ho perduto.
 L'uccise Ettorre, e lo spogliò dell'armi,
 di quelle grandi e belle armi, a vedersi
 maravigliose, che gli eterni Dei,
 dono illustre, a Pelèo diero quel giorno
 che te nel letto d'un mortal locaro.
 Oh fossi tu dell'Oceàn rimasta
 fra le divine abitatrici, e stretto
 Pelèo si fosse a una mortal consorte!
 Ché d'infinita angoscia il cor trafitto
 or non avresti pel morir d'un figlio
 che alle tue braccia nel paterno tetto
 non tornerà più mai, poiché il dolore
 né la vita né d'uom più mi consente
 la presenza soffrir, se prima Ettorre
 dalla mia lancia non cade trafitto,
 e di Patròclo non mi paga il fio.
 Figlio, nol dir (riprese lagrimando
 la Dea), non dirlo, ché tua morte affretti:
 dopo quello d'Ettòr pronto è il tuo fato.
 Lo sia (con forte gemito interruppe
 l'addolorato eroe), si muoia, e tosto,
 se giovar mi fu tolto il morto amico.
 Ahi che lontano dalla patria terra
 il misero perì, desideroso
 del mio soccorso nella sua sciagura.
 Or poiché il fato riveder mi vieta
 di Ftia le care arene, ed io crudele
 né Pàtroclo aitai né gli altri amici
 de' quai molti domò l'ettòrea lancia,
 ma qui presso le navi inutil peso
 della terra mi seggo, io fra gli Achei
 nel travaglio dell'armi il più possente,
 benché me di parole altri pur vinca,
 pera nel cor de' numi e de' mortali
 la discordia fatal, pera lo sdegno
 ch'anco il più saggio a inferocir costrigne,
 che dolce più che miel le valorose
 anime investe come fumo e cresce.
 Tal si fu l'ira che da te mi venne,
 Agamennón. Ma su l'andate cose,
 benché ne frema il cor, l'obblìo si sparga,
 e l'alme in sen necessità ne domi.
 Del caro capo l'uccisore Ettorre
 or si corra a trovar; poi quando a Giove
 e agli altri Eterni piacerà mia morte,
 venga pur, ch'io l'accetto. Il forte Alcide,
 dilettissimo a Giove e suo gran figlio,
 Alcide stesso vi soggiacque, domo
 dalla Parca e dall'aspra ira di Giuno.
 Così pur io, se fato ugual m'aspetta,
 estinto giacerò. Questo frattanto
 tempo è di gloria. Sforzerò qualcuna
 delle spose di Dardano e di Troe
 ad asciugar con ambedue le mani
 giù per le guance delicate il pianto,
 e a trar dal largo petto alti sospiri.
 Sappiano alfin che il braccio mio dall'armi
 abbastanza cessò; né dalla pugna
 tu, madre, mi svïar, ché indarno il tenti.
 E a lui la Diva dall'argenteo piede:
 Giusta, o figlio, è l'impresa e d'onor degna,
 campar da scempio i travagliati amici.
 Ma le tue scintillanti armi divine
 son fra' Troiani, ed Ettore, quel fiero
 dell'elmo crollator, sen fregia il dosso,
 e dell'incarco esulta. Ma fia breve,
 lo spero, il suo gioir, ché negra al fianco
 già l'incalza la Parca. Or tu di Marte
 per anco non entrar nel rio tumulto,
 se tu qua pria venir non mi riveggia.
 Verrò dimani al raggio mattutino,
 e recherotti io stessa una forbita
 bella armatura di Vulcan lavoro.
 Così detto, dal figlio alle sorelle
 ripiegò la persona, e, Voi, soggiunse,
 rïentrate del mar nell'ampio grembo,
 e del marino genitor canuto
 rendetevi alle case, e tutto dite
 che vedeste ed udiste. Al grande Olimpo
 io salgo a ritrovar l'inclito fabbro
 Vulcano, e il pregherò che luminose
 armi stupende al figlio mio conceda.
 Disse; e quelle del mar tosto nell'onde
 discesero, e la Dea dal piè d'argento
 avvïossi all'Olimpo a procacciarne
 al diletto figliuolo armi divine.
 Mentr'ella al ciel salìa, con urlo immenso
 dal sanguinoso Ettòr cacciati in fuga
 giunser gli Achivi delle navi al vallo
 e al mugghiante Ellesponto. E non ancora
 del compagno achillèo la morta spoglia
 al nembo degli strali avean sottratta
 gli argolici guerrieri. Un'altra volta
 fiero assalto le dava una gran serra
 di cavalli e di fanti, e innanzi a tutti
 di Prìamo il figlio, l'indefesso Ettorre
 che una fiamma parea. Tre volte il prode
 per gli piedi il cadavere afferrando
 provò di trarlo, e con orrenda voce
 i Troiani chiamò: tre volte i due
 impetuosi e vigorosi Aiaci
 respinserlo dal morto. E nondimeno
 saldo e securo in sua fortezza or dentro
 nella turba ei s'avventa, ed or s'arresta,
 e con gran voce tuttavia pur grida,
 né d'un passo s'arretra. E qual di notte
 vigilanti pastori alla campagna
 da preso tauro allontanar non ponno
 affamato lïon; così de' forti
 Aiaci la virtù da quell'esangue
 dispiccar non potea l'ardito Ettorre.
 E l'avrìa tratto alfine e conseguita
 immensa gloria, s'Iride veloce,
 a Giove occulta e a ogni altro iddio, dall'alto
 Olimpo non correa col vento al piede
 messaggiera ad Achille; e la spedìa,
 per eccitarlo alla battaglia, il cenno
 dell'augusta Giunon. Gli parve al fianco
 improvvisa la Diva, e questi accenti
 fe' dal labbro volar: Sorgi, Pelìde
 terribile guerriero, e di Patròclo
 il cadavere salva. Intorno a lui
 ferve avanti alle navi orrida pugna
 con mutue stragi. In sua difesa i Greci
 fan che puossi: per trarlo in Ilio i Teucri
 s'avventano di punta. Il fiero Ettorre
 innanzi a tutti di rapirlo agogna,
 bramoso di mozzar dal dilicato
 collo il bel capo, e d'un infame tronco
 conficcarlo alla cima. Alzati, e pigro
 più non giacer. Ti tocchi il cor vergogna
 che de' cani di Troia il tuo diletto
 debba le sanne trastullar. Se offesa
 ne riceve la salma, è tuo lo smacco.
 Rispose Achille: E quale a me de' numi
 ti manda ambasciatrice, Iri divina?
 Mi manda, replicò la Dea veloce,
 Giunon, di Giove glorïosa moglie,
 né Giove il sa, né verun altro iddio
 de' sereni d'Olimpo abitatore.
 Come al campo n'andrò, soggiunse Achille,
 se in mano di color venner le mie
 armi: e che d'armi or io mi cinga il vieta
 la cara madre, se lei pria non veggio
 da Vulcano tornar, come promise,
 di leggiadra armatura apportatrice?
 Di qual altra famosa or mi vestire
 al bisogno non so, tranne lo scudo
 dell'egregio figliuol di Telamone.
 Ma pur egli, mi spero, in questo punto
 sta combattendo pel mio spento amico.
 E a lui di nuovo la taumànzia figlia:
 Noto è ben anco a noi che le tue belle
 armi or sono d'altrui. Ma su la fossa
 anco inerme ti mostra all'inimico.
 Lascerà spaventato la battaglia
 solo al vederti, e respirar potranno
 i travagliati Achei. Salute è spesso
 nel calor della pugna un sol respiro.
 Così disse, e disparve. In piedi allora
 rizzossi Achille amor di Giove, e tutto
 coll'egida Minerva il ricoperse.
 D'un'aurea nube gli fasciò la fronte,
 ed una fiamma dalla nube uscìa,
 che dintorno accendea l'aria di luce.
 Siccome quando al ciel s'innalza il fumo
 d'isolana città, cui d'aspro assedio
 cinge il nemico: con orrendo marte
 combattono dal muro i cittadini
 finché gli alluma il Sol; poi quando annotta,
 destan fuochi frequenti alle vedette,
 e al ciel ne sbalza uno splendor che manda
 ai convicini del periglio il segno,
 se per sorte venir con pronte antenne
 volessero in aita: a questo modo
 dalla testa d'Achille alta alle stelle
 quella fiamma salìa. Varcato il muro,
 sul primo margo s'arrestò del fosso,
 né mischiossi agli Achei, ché della madre
 al precetto obbedìa. Lì stando, un grido
 mise, e d'un altro da lontan gli fece
 eco Minerva, ed un terror ne' Teucri
 immenso suscitò. Come sonoro
 d'una tuba talor s'ode lo squillo,
 quando d'assedio una città serrando
 armi grida terribile il nemico,
 così chiara d'Achille era la voce.
 N'udiro i Teucri il ferreo suono, e a tutti
 tremaro i petti; si rizzâr sul collo
 ai destrieri le chiome, e d'alto affanno
 presaghi addietro rivolgean le bighe.
 Gli aurighi sbigottîr, vista la fiamma
 che da Minerva di repente accesa
 orrenda e lunga su la fronte ardea
 del magnanimo eroe. Tre volte Achille
 dalla fossa gridò: tre volte i Teucri
 e i collegati sgominârsi, e dodici
 de' più prestanti fra i riversi cocchi
 trafitti vi perîr dal proprio ferro.
 Pronti intanto gli Achei di sotto ai densi
 strali sottratto di Menèzio il figlio,
 il locâr nella bara, e gli fêr cerchio
 lagrimando i compagni. Anch'ei veloce
 v'accorse Achille, e si disciolse in pianto
 nel feretro mirando il fido amico
 d'acuta lancia trapassato il petto.
 Egli stesso con carri, armi e destrieri
 l'avea spedito alla battaglia, e freddo
 lo rïebbe al ritorno e sanguinoso.
 Costrinse allor la veneranda Giuno
 suo malgrado a calar nelle correnti
 dell'Oceàno l'instancabil Sole.
 Ei si sommerse, e dal crudel conflitto
 ebber tregua gli Achei. Dier posa all'armi
 di rincontro i Troiani; i corridori
 sciolser dai cocchi, e pria che a cibo alcuno
 volger la mente, convocâr consiglio.
 Ritti in piedi aprîr essi il parlamento;
 né verun di sedersi ebbe fidanza,
 perché d'Achille la comparsa orrenda
 facea loro tremar le vene e i polsi,
 ché da lunga stagion ne' lagrimosi
 campi di Marte non l'avean veduto.
 Prese tra lor Polidamante il primo
 a ragionar. Di Panto era costui
 prudente figlio, e de' Troiani il solo
 che le passate e le future cose
 al guardo avea presenti. Egli d'Ettorre
 era compagno, e una medesma notte
 li produsse ambedue, l'un di parole,
 l'altro d'asta valente. Ei dunque in mezzo
 con saggio avviso così tolse a dire:
 Librate, amici, la bisogna; ir dentro
 alla cittade, e tosto, è mio consiglio,
 senz'aspettar davanti a queste navi
 l'alma luce del dì. Troppo siam lungi
 qui dalle mura. Finché l'ira in petto
 arse a questo guerrier contra l'Atride,
 più lieve er'anco il debellar gli Achivi,
 ed io pure vegliar godea le notti
 presso le navi, nella dolce speme
 d'occuparle. Or tremar fammi il Pelìde.
 L'ardor che il mena non vorrà ristretto
 contenersi nel campo ove l'acheo
 col troiano valore in generose
 prove la gloria marzïal divise:
 ma per Ilio a pugnar e per le mogli
 ne sforzerà. Nella cittade adunque
 ripariamo, e si segua il mio sentire,
 ché le cose avverran com'io v'assenno.
 L'alma notte or sopito in dolce calma
 tien d'Achille il furor: ma se dimani
 all'assalto prorompe, e qui ne trova,
 certo talun conoscerallo, e quanti
 dar potranno le spalle, e dentro il sacro
 Ilio camparsi, si terran beati;
 ma pria ben molti rimarran pastura
 di voraci avoltoi. Deh ch'io non oda
 sì rio caso giammai! Se al mio ricordo,
 benché non grato, obbedirem, la notte
 spenderem ne' rinforzi e ne' consigli.
 E le torri e le porte e i contrafforti
 de' ben commessi tavolati intanto
 faran sicura la città. Poi tutti
 d'arme orrendi domani al nuovo Sole
 starem su i merli. E s'ei lasciato il lido
 verrà nosco a pugnar sotto le mura,
 duro affar troveravvi, e poiché stanca
 in vane giravolte avrà la foga
 de' suoi superbi corridor, gli fia
 forza alle navi ritornar confuso;
 né di scagliarsi dentro alla cittade
 daragli il cuore, e pria che porla al fondo,
 ei farà sazii del suo corpo i cani.
 Qui tacque; e bieco gli rispose Ettorre:
 Tu non mi fai gradevole proposta,
 Polidamante, no, quando n'esorti
 a serrarci di nuovo entro le mura.
 E non vi noia ancor di quelle torri
 la prigionia? Fu tempo in cui le genti
 di vario favellar tutte a una voce
 dicean ricca di molto auro e di bronzo
 la città prïameia. Or dalle case
 dileguârsi i tesori. Alle contrade
 dell'amena Meonia e della Frigia
 molta ricchezza ne passò venduta
 da che l'ira di Giove i Teucri oppresse.
 Ed or che Giove innanzi a questi legni
 d'alta vittoria mi fe' lieto, e diemmi
 che al mar chiudessi le falangi achee,
 non far palese, o stolto, ai cittadini
 questo consiglio, ché nessuno avrai
 fra i Troiani sì vil che lo secondi,
 né patirollo io mai. Teucri, obbediamo
 tutti al mio detto. Ristorate i corpi
 al suo posto ciascuno, e vi sovvegna
 delle scolte per tutto e delle ronde.
 Qualunque de' Troiani in pensier stassi
 di sue ricchezze, le raguni, e poscia
 largo ai soldati le spartisca. E meglio
 che alcun nostro ne goda, e non l'Acheo.
 Sull'aurora dimani in tutto punto
 assalirem le navi: e se il divino
 Achille all'armi si svegliò davvero,
 gli fia la pugna, se la vuol, funesta.
 Non fuggirollo io, no, nell'affannoso
 ballo di Marte, ma starogli a fronte
 con intrepido petto. Uno de' due
 d'un'illustre vittoria andrà superbo;
 il cimento è comune, ed avvien spesso
 che morte incontra chi di darla ha speme.
 Disse, e i Teucri levâr d'applauso un grido.
 Stolti! ché Palla avea lor tolto il senno.
 Tutti assentîr d'Ettorre al pazzo avviso,
 nessuno al saggio del figliuol di Panto.
 Mentre col cibo a rivocar le forze
 intendono i Troiani, in alti lai
 l'intera notte dispendean gli Achivi
 sovra il morto Patròclo, e prorompea
 fra loro in pianti sospirosi Achille,
 la man tremenda sul gelato petto
 dell'amico ponendo, e cupi e spessi
 i gemiti mettea, come talvolta
 ben chiomato lïone a cui rapìo
 il cacciator nel bosco i lïoncini.
 Crucciato il fiero del suo tardo arrivo,
 tutta scorre la valle, e l'orme esplora
 del predator, se mai di ritrovarlo
 in qualche lato gli rïesca; e orrenda
 gli divampa nel cor la rabbia e l'ira:
 tal si cruccia il Pelìde, e con profondi
 sospiri in mezzo ai Mirmidóni esclama:
 Oh mie vane parole il dì ch'io diedi
 a Menèzio il conforto, e la promessa
 che in Opunta gli avrei carco di gloria
 e di gran preda ricondotto il figlio
 dall'atterrata Troia! Ahi che non tutti
 Giove i disegni de' mortali adempie!
 Sotto Troia il destino ambo ne danna
 a far vermiglia una medesma terra,
 ché me neppure abbraccerà tornato
 il buon vecchio Pelèo nel patrio tetto,
 né Teti genitrice; ma sepolcro
 mi darà questo lido. Or poi che deggio
 dopo te, mio fedel, scender sotterra,
 tu, no, sul rogo non andrai, lo giuro,
 se non t'arreco in prima io qui d'Ettorre,
 del tuo crudo uccisor l'armi e la testa;
 e dodici d'illustri iliaci figli
 troncheronne davanti alla tua pira.
 Giaci intanto così, caro compagno,
 qui presso alle mie navi; e le troiane
 e le dardanie ancelle il largo seno
 tutte discinte intorno al tuo ferètro
 notte e dì faran pianto, e ploreranno.
 Esse ne fur comun fatica e preda
 quando noi colla forza e colle lunghe
 aste domando le nemiche genti
 l'opime n'atterrammo ampie cittadi.
 Ciò detto, comandò l'almo Pelìde
 che dai compagni al fuoco si ponesse
 sul tripode un gran vaso, onde veloci
 di Pàtroclo lavar la sanguinosa
 tabe. E quelli sul fuoco in un baleno
 atto ai lavacri collocaro un bronzo,
 e v'infusero l'onda, e di stecchiti
 rami di sotto alimentâr la fiamma.
 Abbracciavan le vampe mormorando
 del vaso il ventre, e rotto in sottil fumo
 scaldavasi l'umor. Poiché nel cavo
 rame la linfa al suo bollor pervenne,
 diersi il corpo a lavar: l'unser di pingue
 felice oliva, e le ferite empiero
 di balsamo novenne. Indi al funèbre
 letto renduto, dalla fronte al piede
 in sottil lino avvolserlo, e superno
 un bianco panno vi spiegâr. Ciò fatto,
 tornaro ai pianti, e intorno al mesto Achille
 tutta in lamenti consumâr la notte.
 Giove in questo alla sua moglie e sorella
 si volse e disse: Veneranda Giuno,
 ecco pieni alla fine i tuoi desiri;
 ecco all'armi tornato il grande Achille.
 Di te nacque, cred'io, (cotanto l'ami)
 l'argiva gente. - E Giuno a lui: Che parli,
 tremendo figlio di Saturno? All'uomo
 povero d'alma e di consigli è dato
 il dannaggio tramar del suo simile;
 ed io che incedo degli Dei reina,
 perché saturnia prole e perché sposa
 son dell'alto de' numi imperadore,
 contra i Troiani co' Troiani irata
 macchinar qualche offesa io non dovea?
 Mentre seguìan tra lor queste contese,
 Teti agli alberghi di Vulcan pervenne;
 stellati eterni rilucenti alberghi,
 fra i celesti i più belli, e dallo stesso
 Vulcan costrutti di massiccio bronzo.
 Tutto in sudor trovollo affaccendato
 de' mantici al lavoro. Avea per mano
 dieci tripodi e dieci, adornamento
 di palagio regal. Sopposte a tutti
 d'oro avea le rotelle, onde ne gisse
 da sé ciascuno all'assemblea de' numi,
 e da sé ne tornasse onde si tolse:
 maraviglia a vederli! Omai compiuto
 l'ammirando lavor, solo restava
 ch'ei v'adattasse le polite orecchie,
 e appunto all'uopo n'aguzzava i chiovi.
 Mentre venìa tai cose elaborando
 con egregio artificio, entro la soglia
 l'alma Teti mettea l'argenteo piede.
 La vide, e le si fe' Càrite incontro
 ornata il capo d'eleganti bende,
 dell'inclito Vulcan moglie vezzosa:
 per man la strinse, e il roseo labbro aprendo,
 Qual, le disse, cagione, o bella Teti,
 ti guida inaspettata a queste case?
 Rado suoli onorarle, e nondimeno
 sempre cara vi giungi e riverita.
 Inóltrati, perch'io pronta t'appresti
 le vivande ospitali. - E sì dicendo,
 la bellissima Dea l'altra introdusse,
 e in un bel seggio collocolla, ornato
 d'argentee borchie a lavorìo gentile
 col suo sgabello al piede. Indi a chiamarne
 corse l'esimio fabbro, e sì gli disse:
 Vieni, Vulcan, ché ti vuol Teti. - Ed egli:
 Venerevole Diva e d'onor degna
 nella casa mi venne. Ella malconcio
 e afflitto mi salvò quando dal cielo
 mi feo gittar l'invereconda madre,
 che il distorto mio piè volea celato;
 e mille allor m'avrei doglie sofferto
 se me del mar non raccogliean nel grembo
 del rifluente Ocèano la figlia
 Eurìnome e la Dea Teti. Di queste
 quasi due lustri in compagnia mi vissi,
 e di molte vi feci opre d'ingegno,
 fibbie ed armille tortuose e vezzi
 e bei monili, in cavo antro nascoso
 a cui spumante intorno ed infinita
 d'Oceàn la corrente mormorava;
 né verun di mia stanza avea contezza,
 né mortale né Dio, tranne le belle
 mie servatrici. Or poiché Teti è giunta
 alla nostra magion, piena le voglio
 render mercé del benefizio antico.
 Tu dinanzi sollecita le poni
 il banchetto ospital, mentr'io veloce
 questi mantici assetto e gli altri arnesi.
 Disse, e dal ceppo dell'incude il mostro
 abbronzato levossi zoppicando.
 Moveansi sotto a gran stento le fiacche
 gambe sottili. Allontanò dal fuoco
 i mantici ventosi: ogni fabbrile
 istrumento raccolse, e dentro un'arca
 li ripose d'argento. Indi con molle
 spugna ben tutto stropicciossi il volto
 affumicato ed ambedue le mani
 e il duro collo ed il peloso petto.
 Poi la tunica mise; ed il pesante
 scettro impugnato, tentennando uscìo.
 Seguìan l'orrido rege, e a dritta e a manca
 il passo ne reggean forme e figure
 di vaghe ancelle, tutte d'oro, e a vive
 giovinette simìli, entro il cui seno
 avea messo il gran fabbro e voce e vita
 e vigor d'intelletto e delle care
 arti insegnate dai Celesti il senno.
 Queste al fianco del Dio spedite e snelle
 camminavano; ed egli a tardo passo
 avvicinato a Teti, in un lucente
 trono s'assise, e la sua man ponendo
 nella man della Dea, così le disse:
 Qual mai sorte t'adduce a queste soglie,
 o sempre cara e veneranda Teti,
 in quell'ampio tuo peplo ancor più bella?
 Troppo rado ne fai di tua presenza
 contenti e lieti. Or parla, e il tuo desire
 libera esponi. A soddisfarlo il grato
 cor mi sospinge, se pur farlo io possa,
 e il farlo mi s'addica. - E a lui suffusa
 di lagrime i bei rai Teti rispose:
 Delle Dive d'Olimpo e qual sofferse
 tanti, o Vulcano, tormentosi affanni
 quanti in me Giove n'adunò? Me sola
 fra le Dive del mar suggetta ei fece
 ad un mortale, al re Pelèo. Ritrosa
 ne sostenni gli amplessi; ed egli or giace
 logro dagli anni nel regal suo tetto.
 Né il tenor qui restò di mie sventure.
 Mi nacque un figlio. Io l'educai gelosa,
 e come pianta ei crebbe, e mi divenne
 il maggior degli eroi. Questo germoglio
 di fertile terren, questo diletto
 unico figlio su le navi io stessa
 spedii di Troia alle funeste rive
 a guerreggiar co' Teucri. Avverso fato
 gli dinega il ritorno; ed io non deggio
 nella pelèa magion madre infelice
 abbracciarlo più mai. Né questo è tutto.
 Fin ch'ei mi vive, e la ria Parca il raggio
 gli prolunga del Sole, ei lo consuma
 nella tristezza, né giovarlo io posso.
 Dagli Achivi ottenuta egli s'avea
 premio di sue fatiche una fanciulla.
 Agamennón gliela ritolse; ed esso
 dell'onta irato, e nel dolor sepolto
 si ritrasse dall'armi. I Teucri intanto
 alle navi rinchiusero gli Achei,
 né permettean l'uscita. Umìli allora
 i duci argivi gli mandâr preghiere
 e d'orrevoli doni ampie profferte.
 Egli fermo negò la chiesta aita:
 ma cinse di sue stesse armi l'amico
 Pàtroclo, e al campo l'invïò seguìto
 da molti prodi. Su le porte Scee
 tutto un giorno durò l'aspro conflitto.
 E il dì stesso Ilïon sarìa caduto,
 s'alta strage menar visto il gagliardo
 di Menèzio figliuol, non l'uccidea
 tra i combattenti della fronte Apollo,
 esaltandone Ettorre. Or io pel figlio
 vengo supplice madre al tuo ginocchio,
 onde a conforto di sua corta vita
 di scudo e d'elmo provveder tu il voglia,
 e di forte lorica e di schinieri
 con leggiadro fermaglio. A lui perdute
 ha tutte l'armi dai Troiani ucciso
 il suo fedel compagno, ed egli or giace
 gittato a terra, e dal dolore oppresso.
 Tacque; e il mal fermo Dio così rispose:
 Ti riconforta, o Teti, e questa cura
 non ti gravi il pensier. Così potessi
 alla morte il celar quando la Parca
 sul capo gli starà, com'io di belle
 armi fornito manderollo, e tali
 che al vederle ogni sguardo ne stupisca.
 Lasciò la Dea, ciò detto, e impazïente
 ai mantici tornò, li volse al fuoco,
 e comandò suo moto a ciascheduno.
 Eran venti che dentro la fornace
 per venti bocche ne venìan soffiando,
 e al fiato, che mettean dal cavo seno,
 or gagliardo or leggier, come il bisogno
 chiedea dell'opra e di Vulcano il senno,
 sibilando prendea spirto la fiamma.
 In un commisti allor gittò nel fuoco
 argento ed auro prezïoso e stagno
 ed indomito rame. Indi sul toppo
 locò la dura risonante incude,
 di pesante martello armò la dritta,
 di tanaglie la manca; e primamente
 un saldo ei fece smisurato scudo
 di dèdalo rilievo, e d'auro intorno
 tre ben fulgidi cerchi vi condusse,
 poi d'argento al di fuor mise la soga.
 Cinque dell'ampio scudo eran le zone,
 e gl'intervalli, con divin sapere,
 d'ammiranda scultura avea ripieni.
 Ivi ei fece la terra, il mare, il cielo
 e il Sole infaticabile, e la tonda
 Luna, e gli astri diversi onde sfavilla
 incoronata la celeste volta,
 e le Pleiadi, e l'Iadi, e la stella
 d'Orïon tempestosa, e la grand'Orsa
 che pur Plaustro si noma. Intorno al polo
 ella si gira ed Orïon riguarda,
 dai lavacri del mar sola divisa.
 Ivi inoltre scolpite avea due belle
 popolose città. Vedi nell'una
 conviti e nozze. Delle tede al chiaro
 per le contrade ne venìan condotte
 dal talamo le spose, e Imene, Imene
 con molti s'intonava inni festivi.
 Menan carole i giovinetti in giro
 dai flauti accompagnate e dalle cetre,
 mentre le donne sulla soglia ritte
 stan la pompa a guardar maravigliose.
 D'altra parte nel fôro una gran turba
 convenir si vedea. Quivi contesa
 era insorta fra due che d'un ucciso
 piativano la multa. Un la mercede
 già pagata asserìa; l'altro negava.
 Finir davanti a un arbitro la lite
 chiedeano entrambi, e i testimon produrre.
 In due parti diviso era il favore
 del popolo fremente, e i banditori
 sedavano il tumulto. In sacro circo
 sedeansi i padri su polite pietre,
 e dalla mano degli araldi preso
 il suo scettro ciascun, con questo in pugno
 sorgeano, e l'uno dopo l'altro in piedi
 lor sentenza dicean. Doppio talento
 d'auro è nel mezzo da largirsi a quello
 che più diritta sua ragion dimostri.
 Era l'altra città dalle fulgenti
 armi ristretta di due campi in due
 parer divisi, o di spianar del tutto
 l'opulento castello, o che di quante
 son là dentro ricchezze in due partito
 sia l'ammasso. I rinchiusi alla chiamata
 non obbedìan per anco, e ad un agguato
 armavansi di cheto. In su le mura
 le care spose, i fanciulletti e i vegli
 fan custodia e corona; e quelli intanto
 taciturni s'avanzano. Minerva
 li precorre e Gradivo entrambi d'oro,
 e la veste han pur d'oro, ed alte e belle
 le divine stature, e d'ogni parte
 visibili: più bassa iva la torma.
 Come in loco all'insidie atto fur giunti
 presso un fiume, ove tutti a dissetarse
 venìan gli armenti, s'appiattâr que' prodi
 chiusi nel ferro, collocati in pria
 due di loro in disparte, che de' buoi
 spïassero la giunta e delle gregge.
 Ed eccole arrivar con due pastori
 che, nulla insidia suspicando, al suono
 delle zampogne si prendean diletto.
 L'insidiator drappello alla sprovvista
 gli assalìa, ne predava in un momento
 de' buoi le mandre e delle bianche agnelle,
 ed uccidea crudele anco i pastori.
 Scossa all'alto rumor l'assediatrice
 oste a consiglio tuttavia seduta,
 de' veloci corsier subitamente
 monta le groppe, i predatori insegue,
 e li raggiunge. Allor si ferma, e fiera
 sul fiume appicca la battaglia. Entrambe
 si ferìan coll'acute aste le schiere.
 Scorrea nel mezzo la Discordia, e seco
 era il Tumulto e la terribil Parca
 che un vivo già ferito e un altro illeso
 artiglia colla dritta, e un morto afferra
 ne' piè coll'altra, e per la strage il tira.
 Manto di sangue tutto sozzo e rotto
 le ricopre le spalle: i combattenti
 parean vivi, e traean de' loro uccisi
 i cadaveri in salvo alternamente.
 Vi sculse poscia un morbido maggese
 spazïoso, ubertoso e che tre volte
 del vomero la piaga avea sentito.
 Molti aratori lo venìan solcando,
 e sotto il giogo in questa parte e in quella
 stimolando i giovenchi. E come al capo
 giungean del solco, un uom che giva in volta,
 lor ponea nelle man spumante un nappo
 di dolcissimo bacco; e quei tornando
 ristorati al lavor, l'almo terreno
 fendean, bramosi di finirlo tutto.
 Dietro nereggia la sconvolta gleba:
 vero arato sembrava, e nondimeno
 tutta era d'òr. Mirabile fattura!
 Altrove un campo effigïato avea
 d'alta messe già biondo. Ivi le destre
 d'acuta falce armati i segatori
 mietean le spighe; e le recise manne
 altre in terra cadean tra solco e solco,
 altre con vinchi le venìan stringendo
 tre legator da tergo, a cui festosi
 tra le braccia recandole i fanciulli
 senza posa porgean le tronche ariste.
 In mezzo a tutti colla verga in pugno
 sovra un solco sedea del campo il sire,
 tacito e lieto della molta messe.
 Sotto una quercia i suoi sergenti intanto
 imbandiscon la mensa, e i lombi curano
 d'un immolato bue, mentre le donne
 intente a mescolar bianche farine,
 van preparando ai mietitor la cena.
 Seguìa quindi un vigneto oppresso e curvo
 sotto il carco dell'uva. Il tralcio è d'oro,
 nero il racemo, ed un filar prolisso
 d'argentei pali sostenea le viti.
 Lo circondava una cerulea fossa
 e di stagno una siepe. Un sentier solo
 al vendemmiante ne schiudea l'ingresso.
 Allegri giovinetti e verginelle
 portano ne' canestri il dolce frutto,
 e fra loro un garzon tocca la cetra
 soavemente. La percossa corda
 con sottil voce rispondeagli, e quelli
 con tripudio di piedi sufolando
 e canticchiando ne seguìano il suono.
 Di giovenche una mandra anco vi pose
 con erette cervici. Erano sculte
 in oro e stagno, e dal bovile uscièno
 mugolando e correndo alla pastura
 lungo le rive d'un sonante fiume
 che tra giunchi volgea l'onda veloce.
 Quattro pastori, tutti d'oro, in fila
 gìan coll'armento, e li seguìan fedeli
 nove bianchi mastini. Ed ecco uscire
 due tremendi lïoni, ed avventarsi
 tra le prime giovenche ad un gran tauro,
 che abbrancato, ferito e strascinato
 lamentosi mandava alti muggiti.
 Per rïaverlo i cani ed i pastori
 pronti accorrean: ma le superbe fiere
 del tauro avendo già squarciato il fianco,
 ne mettean dentro alle bramose canne
 le palpitanti viscere ed il sangue.
 Gl'inseguivano indarno i mandrïani
 aizzando i mastini. Essi co' morsi
 attaccar non osando i due feroci,
 latravan loro addosso, e si schermivano.
 Fecevi ancora il mastro ignipotente
 in amena convalle una pastura
 tutta di greggi biancheggiante, e sparsa
 di capanne, di chiusi e pecorili.
 Poi vi sculse una danza a quella eguale
 che ad Arïanna dalle belle trecce
 nell'ampia Creta Dedalo compose.
 V'erano garzoncelli e verginette
 di bellissimo corpo, che saltando
 teneansi al carpo delle palme avvinti.
 Queste un velo sottil, quelli un farsetto
 ben tessuto vestìa, soavemente
 lustro qual bacca di palladia fronda.
 Portano queste al crin belle ghirlande,
 quelli aurato trafiere al fianco appeso
 da cintola d'argento. Ed or leggieri
 danzano in tondo con maestri passi,
 come rapida ruota che seduto
 al mobil torno il vasellier rivolve,
 or si spiegano in file. Numerosa
 stava la turba a riguardar le belle
 carole, e in cor godea. Finìan la danza
 tre saltator che in varii caracolli
 rotavansi, intonando una canzona.
 Il gran fiume Oceàn l'orlo chiudea
 dell'ammirando scudo. A fin condotto
 questo lavoro, una lorica ei fece
 che della fiamma lo splendor vincea;
 poi di raro artificio un saldo e vago
 elmo alle tempie ben acconcio, e sopra
 d'auro tessuta v'innestò la cresta.
 Fur l'ultima fatica i bei schinieri
 di pieghevole stagno. E terminate
 l'armi tutte, il gran fabbro alto levolle,
 e al piè di Teti le depose. Ed ella,
 co' bei doni del Dio, come sparviero
 ratta calossi dal nevoso Olimpo.
 
 
      
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