"E' Café d'Cài" 
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Introduzione

Ho sempre pensato, fin dal giorno della liberazione di Alfonsine, di raccontare ciò che mi era capitato in quel periodo così tragico e tremendo della mia vita (dall’età di sei anni fino ai venti), ma soltanto a settant’anni, ci sono riuscito.

Certo quelli sono ricordi che non si dimenticano, e mi sarebbe dispiaciuto non averli raccontati, non tanto per ciò che ho passato io, ma soprattutto per testimoniare e rendere omaggio ai cittadini alfonsinesi. Con coraggio e in ogni momento del giorno e della notte, col disprezzo del pericolo, a partire dal luglio del 1943, sino al giorno della liberazione del paese avvenuta il 10 aprile del 1945, essi si sono prodigati aiutando e salvando molti giovani fuggiti dai vari fronti per non farsi prendere dai tedeschi. 

La popolazione di Alfonsine accettò, in silenzio, i lunghi anni del primo fascismo. Pochi furono coloro che resistettero, mantenendo le proprie idee di libertà e subendone le conseguenze insieme alle loro famiglie. Ma negli ultimi due anni di quella guerra maledetta, voluta solo e soltanto da Mussolini e da una minoranza del popolo italiano, gli alfonsinesi seppero riscattare quel silenzio con cui avevano accettato la dittatura, aderendo in massa alla lotta di liberazione, partecipando e sostenendo il movimento della Resistenza, aiutando e nascondendo nelle loro case i partigiani. 

L’11 dicembre del 1944, tra le ventitré e la mezzanotte, caddero le prime granate nel paese, che cessarono solo il 10 aprile del 1945. Il fronte sostò per ben quattro mesi a ottocento metri dalla piazza del paese. Molti furono i morti e i feriti tra i miei concittadini, e purtroppo, fra loro, molti amici e conoscenti. Questa è la storia di quei giorni difficili.

Da molto tempo non abito più ad Alfonsine, ma voglio sperare che i giovani alfonsinesi conoscano la storia del loro Paese di quel periodo, e ne vadano fieri.

 

 

 
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La magia del fiume Senio

 Alfonsine, il mio paese, si trova in provincia di Ravenna nella bassa Romagna, a sedici chilometri dal capoluogo, e si estende lungo la “Statale 16”, verso Ferrara. E’ diviso in due parti dal fiume Senio, che lo attraversa da ovest a est con gli argini a volte più alti dei tetti delle case. Prima dell’ultima guerra abitavo con i miei genitori e i miei due fratelli nell’unica piazza del paese. Ricordo quale attrazione esercitava il fiume su noi bambini, specie in primavera o in estate: era lì, nelle sue basse acque, spesso limacciose, che imparavamo a stare a galla, ed era lì tra i cespugli delle sue rive che giocavamo a nascondino, oppure imitavamo i film western, fingendo battaglie fra cow boy e indiani, era sempre lì che a volte ci scontravamo con i bambini della riva opposta a suon di sassate, o tirando frecce fatte di canne di bambù con in cima conficcati grossi spini (“i spé d’e Signor”). 

Una volta, nel furore della "battaglia" fra le opposte rive, il mio amico Demetrio Faccani fu raggiunto da una violenta sassata, appena un pelo sopra all’occhio; rischiò di perderlo. Un’altra volta invece uno dei miei avversari dell’opposta riva mi colpì in pieno, con una freccia dal lungo e robusto spino, che mi rimase conficcata in testa. Un altro mio amico, Ferruccio Mariani, molto più alto di me, riuscì a togliermela con abilità, senza spezzarla. Terrorizzato, scappai a casa mentre i miei compagni se la ridevano a crepapelle! Non ebbi gravi conseguenze, e non dissi nulla ai miei familiari. Mi rimase solamente un grosso bernoccolo a punta. Il fiume era il nostro rifugio quando, ad esempio, tornavamo in gran fretta con le tasche piene e la maglietta rigonfia di frutta rubata non ancora matura dai campi vicini, pieni di alberi stracolmi di pesche e albicocche.

Il fiume era il nostro vero grande amico, e continuò ad esserlo anche negli anni a seguire. 

 

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La villa della marchesa

All’età dell’adolescenza, la sera dopo cena, si faceva su e giù con gli amici lungo l’argine che costeggia il Borgo dei Sabbioni, un borgo di case basse e umide, dai muri vecchi e scoloriti dal tempo, abitate in prevalenza da braccianti e da cavatori di sabbia che la estraevano dal letto del fiume.

Tra queste umili casette spiccava un palazzo signorile fatto con un certo stile; davanti si apriva un ampio giardino con, al centro, una grande vasca di marmo bianco a forma di oca. 

In quella enorme casa abitava un’anziana signora, che in paese chiamavano “la marchesa”, con il figlio Pomino sulla quarantina, che vestiva in modo appariscente e inusuale anche per quegli anni. A volte in estate portava il Panama, o anche la paglietta alla “Chevalier”; indossava vestiti scuri su scarpe chiare, spesso bianche, e usava il bastone con il pomolo d’avorio. 

A noi ragazzini sembrava ridicolo! Si diceva che sua madre, la marchesa Passeri Massaroli fosse originaria di Recanati.  

... spiccava un palazzo signorile, fatto con un certo stile: davanti si apriva un ampio giardino con, al centro, una grande vasca in marmo bianco a forma di oca...  

... un’anziana signora, che in paese chiamavano “la marchesa” ...

... A volte in estate portava il Panama, o anche la paglietta alla “Chevalier”... ;

 
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Le ragazze del borgo Sabbioni

Durante le passeggiate lungo l’argine, incontravamo spesso gruppi di ragazzine dei “Sabbioni”, e scambiavamo con loro occhiate furtive, senza parlare. Così, ridendo e scherzando, ripetevamo il giro molte volte, e infine tornavamo a casa felici e contenti, promettendo di ritrovarci la sera dopo. 

.... Lungo il tragitto incontravamo spesso gruppi di ragazzine del Borgo Sabbioni...

Pur a distanza di tanti anni sento ancora il desiderio di tornare a quelle passeggiate; non so se anche i ragazzi alfonsinesi di oggi provano l’attrazione del fiume come la sentivamo noi.
Me lo auguro per loro.

Fui privato di quelle innocenti passeggiate, a causa di due fatti gravissimi che sconvolsero la tranquillità della mia vita: la morte di mio padre avvenuta nel ’39, quando avevo poco più di tredici anni, e lo scoppio dell’ultima guerra mondiale nel ’40.

 
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Il Caffè d’Cai, 
una scuola di antifascismo fin dal 1924
 

La mia famiglia era proprietaria di un bar ad Alfonsine la cui clientela era formata prevalentemente da braccianti, muratori, artigiani e contadini. Era considerato il più attrezzato; c’era la sala biliardo, la radio-giradischi e la gelateria. Si trovava nella piazza, dove ce n’erano altri tre:
il Caffè del Fascio (detto “Cafè d’la Beatriz”, situato all’angolo della piazza, dalla parte opposta al nostro); il caffè "d’la Niculena", e “Frazché”. 

Il nostro bar, detto “Caffè d’Cai”, aveva la nomea di essere un covo antifascista e sovversivo; infatti, la maggioranza dei clienti non era fascista, e ogni giorno facevano vivaci discussioni sull’andamento della guerra, sulle vittorie che l’Asse, nei primi mesi, otteneva sui campi di battaglia, cosa questa che li lasciava amareggiati.

Me li ricordo ancora tutti i nostri clienti di allora, potrei menzionarli uno ad uno con i loro soprannomi, farei un elenco molto lungo, ma temo che, se ne lasciassi indietro qualcuno, mi dispiacerebbe. Questi clienti manifestavano apertamente le loro idee: c’erano repubblicani, comunisti, socialisti ed anche cattolici, discutevano sulla guerra e sul pericolo della vittoria nazi-fascista. Avevo imparato a conoscerli fin da piccolo, quando andavo alle elementari e mio padre era ancora al mondo. Nelle sere d’inverno, quando si raccoglievano attorno alla stufa, i più anziani iniziavano a discutere raccontando le vicende della prima guerra mondiale e i fatti di quell’immediato dopo guerra. Riferendosi poi all’avvento del fascismo, raccontavano gli episodi che erano accaduti nel paese, dalla distruzione e dall’incendio dei circoli socialista repubblicano, e del teatro “e’ baracò” dei Gessi, a vari episodi contro il nostro caffè, alle bastonature e agli assassinii di gente onesta, colpevole solo di non avere aderito al fascismo. raccontare di un gravissimo episodio avvenuto nella bottega “Sale e tabacchi” sotto il porticato, prima della rampa del fiume.

Abele Faccani, segretario del partito fascista di Alfonsine, insieme al fratello, aggredì Mino Gessi, mentre entrava in tabaccheria. Questi era membro di una famiglia di tendenza liberale e benestante, da qualche tempo in odio ai fascisti locali. Il Gessi che girava sempre armato per difendersi da eventuali aggressioni fasciste, fu buttato violentemente per terra e malmenato, ma riuscì, con le due pistole che portava sotto il mantello (la “caparèla”), a colpire a morte Abele Faccani e a ferire l’altro. Ferito a sua volta, si rifugiò in alcuni casolari di contadini, e fu aiutato a scappare in Francia. Là svolse attività antifascista. 

.... Da sempre, li sentivo fare vivaci discussioni, fin dai giorni in cui il fascismo era salito al potere....

 

.. nella bottega “Sale e tabacchi” sotto il porticato, prima della rampa del fiume...  

... fu aiutato a scappare in Francia. Là svolse attività antifascista...

Mino Gessi negli anni dell'esilio in Francia

 

Mino Gessi a sinistra con Primo Babini 
(e’ Pepa) a Nizza a cavallo degli anni '20-'30.

La Lancia Lambda è di Mino, acquistata dopo anni di lavoro, con la quale faceva servizi, per campare.

 

Cagnes-sur-Mer (Nizza) : la lapide, dedicata ai resistenti morti per la patria, porta anche il nome di Giacomo (Jacques) Gessi. 
I Francesi, a pochi anni dalla fine della guerra (1948), 
dettero a Gessi questo onore.

 

 

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Solo nel dopoguerra si seppe della sua tragica morte: Gessi nel gennaio 1942 era stato arrestato dai fascisti francesi del governo collaborazionista di Vichy, e incarcerato nel campo d’internamento a Vernet; poi nell’estate del 1944 fu deportato come prigioniero politico dai tedeschi a Dachau, dove morì di malattia. Il suo corpo finì in un forno crematorio, nel febbraio del 1945.   Non era mai più ritornato né in Italia, né ad Alfonsine.  

Ma il mito di Mino Gessi si era talmente radicato, soprattutto tra la gente povera, che ogni tanto circolavano voci di qualcuno che l’aveva visto in paese. Chi al funerale del padre, nel ’36, chi vestito da frate aggirarsi tra le case del borgo detto “e’ Lazzarètt”. Io stesso ho creduto di averlo visto coi miei occhi, un giorno del 1943. Era venuto un signore nel mio bar a prendere un caffè. Un gruppo di clienti gli si era radunato attorno, sembravano tutti eccitati.

Mia madre mi disse che quello era Mino Gessi

 

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... Il nostro bar, detto “Caffè d’Cai”, aveva la nomea di essere un covo antifascista  
 
e sovversivo, infatti la maggioranza dei clienti non era fascista...

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... all’incendio del circolo socialista, repubblicano e del teatro “e’ baracò” dei Gessi...

(I resti del teatro detto “e’ baracò” , incendiato dalle squadre fasciste nel 1924, come rappresaglia contro la famiglia Gessi )

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… quel tronco di strada, che partiva dall’inizio del porticato fino alla rampa del ponte, fu intitolato, dalla giunta fascista, al loro segretario ucciso, “Via Abele Faccani”…

 
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Il pestaggio di Gusto d’Cabarièl  

 I fascisti locali attuavano molte “azioni punitive” come questa, a volte aiutati da gruppi di camerati provenienti dai vicini paesi ferraresi, (Argenta, Portomaggiore). In quelle tragiche giornate, lo venni a sapere dai racconti serali al bar, anche il nostro “Caffè” era stato distrutto, incendiato e saccheggiato per ben tre volte, e a mio padre e mio zio, quando avevano denunciato ai carabinieri le persone riconosciute mentre stavano incendiando il bar, era stato risposto che purtroppo non si poteva intervenire, perché i colpevoli erano capi fascisti; nel caso di mio padre la sola colpa era di essere un socialista. A quegli episodi se ne aggiunsero altri: il licenziamento in tronco di mio padre, impiegato nell’ufficio tecnico del comune, solo perché si rifiutava di prendere la tessera del fascio.

Molti clienti del bar furono ricattati per lo stesso motivo e persero anch’essi il lavoro, ma nonostante ciò avevano ancora il coraggio di difendere le proprie idee in privato e anche in pubblico, pur consapevoli di andare incontro a seri pericoli per sé e per la propria famiglia. Per difendersi dalle spedizioni punitive fasciste, queste persone si riunivano per affrontare insieme il pericolo di eventuali scontri, che potevano avere luogo lungo la strada. Così non arrivavano al caffè mai singolarmente, ma in gruppo: c’era il gruppo del Borgo Gallina, del Borgo Seganti, del Taglio Corelli, del Fiumazzo, delle Borse e del Borghetto. Arrivavano al “Cafè d’Cai” per incontrarsi e svagarsi un po’ insieme; per parlare della situazione e tenere sempre viva la questione dell’antifascismo. Era gente umile, coi calli sulle mani, di poche parole, ma quello che diceva mi colpiva, e rimanevo ammirato dal coraggio morale che aveva. Andavo a letto turbato. Mi ricordo che, sempre in quel periodo, una sera dopo cena, mentre, ancora bambinetto, giocherellavo con Paicca (era il soprannome di un ragazzo sulla ventina che si chiamava Mario, abitava nei Sabbioni, amico di mio fratello), entrò un anziano cliente di nome Gusto d’Cabarièl, uno dei pochi anarchici rimasti, che aveva capeggiato nel 1914 la rivolta della “Settimana Rossa” di Alfonsine. Gusto stava bevendo il caffè che gli aveva preparato mio fratello maggiore Mino, quando entrarono quattro o cinque giovani alfonsinesi, studenti universitari, in camicia nera perché probabilmente quello era il giorno di una ricorrenza fascista, forse il 22 ottobre.

Si avventarono su Gusto imponendogli di intonare “Giovinezza, Giovinezza”. Lui impaurito, rispose di non saper cantare, ma loro insistettero e uno gli allungò uno scapaccione, facendogli cadere il cappello dalla testa. Quando lui si chinò per raccoglierlo ricevette un calcio che lo fece barcollare, e, tra calci, scapaccioni e spinte, lo fecero arrivare in mezzo alla piazza, lasciandolo lì per terra. Tutti nel bar assistettero attoniti a quella vile e selvaggia mascalzonata. Io, rivolgendomi a Paicca, chiesi quasi terrorizzato. “Perché?” Ma lui, che pure era fascista, con la faccia contratta, restò fermo senza guardarmi e non disse una parola.

 

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Quand’ero bambino  

Vorrei ricordare anche un altro episodio che colpì la mia sensibilità di bambino: una sera, assieme a qualche amico, andammo al cinematografo, il Cinema Teatro Aurora, che si trovava a cinquanta metri da casa mia. Quella sera proiettavano "Il segno della croce", un film in costume ambientato in epoca romana. Eravamo nelle prime file vicino allo schermo quando, nell’intervallo fra il primo e il secondo tempo, irruppe nella sala un gruppo di alfonsinesi in camicia nera, abbastanza eccitati, che si sedettero nella fila davanti alla nostra.

Noi giocavamo facendo qualche schiamazzo e dicendo qualche parolaccia: le solite cose che si fanno a quell'età. Ad un certo momento, Romanino, l’amico che sedeva vicino a me, fece una scherzosa pernacchia rivolta a noi. Il più anziano di quei signori, uno dei gerarchi fascisti di Alfonsine, rivolgendosi brutalmente al mio amico in dialetto gli chiese, con fare brusco:

 “Di chi sei figlio?” Lui rispose timoroso: “Sono figlio di Cavina e d’la Seraféna”.

Il padre era un antifascista rifugiatosi in Francia, costretto a lasciare la propria famiglia ad Alfonsine. Alla sua risposta quello gli allungò di scatto un manrovescio. Io rimasi impietrito per la violenza di quel gesto; dalla paura sgattaiolai fuori e ritornai a casa. Ricordo che mio padre si trovava dietro il bancone del bar e mi chiese:

“Cos’hai fatto?”  Glielo raccontai. Poi svelto, svelto andai a letto tremante e impressionato.

  

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La tessera “balilla”  

Una mattina, quando ero in seconda elementare, prima dell’inizio della lezione, la maestra chiamò quattro o cinque di noi, tutti figli di antifascisti, e, in tono perentorio, ci disse che, se il giorno dopo non avessimo portato le cinque lire per la tessera di “balilla”, non ci avrebbe ripreso a scuola. Quando fui a casa non lo dissi a nessuno, però nel pomeriggio mi venne un’idea, un’idea non troppo felice. Presi di nascosto le cinque lire dal cassetto del bar. Le cinque lire erano una moneta d’argento che aveva da una parte un’aquila e dall’altra la testa di re Emanuele III. Lo chiamavamo “scudo” in dialetto.  

Di queste monete nel cassetto se ne trovavano poche, perché a quei tempi, nel ’34-’35, erano una cifra considerevole. Ad esempio allora con cinque lire si poteva dormire in un albergo e avere la pensione completa per un giorno. Lo so perché spesso e volentieri andavo a giocare con il mio amico Natalino, figlio del proprietario del ristorante "Gallo", adiacente al mio bar, e sentivo le cifre che suo padre comunicava a voce alta alla Caterina (detta “la biastména”) che teneva i conti dei clienti. Quindi per me sottrarre le cinque lire dal cassetto era un fatto grave.  

Nel tardo pomeriggio, approfittando d’un attimo di assenza di mio fratello Mino, riuscii nell’intento. Ero certo che Mino non avrebbe mai pensato che avrei potuto compiere un tal gesto. Siccome non mi disse nulla, non mi resi conto che lui sospettasse la verità.  

Uno scudo del 1929

... Presi di nascosto le cinque lire dal cassetto del bar. Le cinque lire erano una moneta d’argento che aveva da una parte un’aquila e dall’altra la testa di re Emanuele III. Lo chiamavamo “scudo” in dialetto....  

La mattina seguente portai le cinque lire a scuola e mi fu data la tessera da “balilla” che, naturalmente, nascosi fra i miei quaderni.

Ma il pomeriggio mio fratello mi affrontò e mi disse: “Tu hai preso uno scudo”. Io risposi di sì, e gli spiegai il motivo del mio gesto; mi raccomandai però che non lo dicesse ai nostri genitori. Lui mi guardò seriamente, senza parlare, e se ne ritornò al suo lavoro.  

 

La tessera “Balilla”

  ... se il giorno dopo non avessimo portato le cinque lire per la tessera di “balilla”, non ci avrebbe ripreso a scuola...

 
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continua...