| Ricerche sull'anima di Alfonsine |

Loris Pattuelli

per la posa in opera dei falsi cassonetti

 


tout commencement
est petit

Joseph
Joubert


 



one two free

 


 
four five six seven

 

La poesia è la solitudine senza distanza tra l’affaccendarsi di tutti.
René Char
  

    
         
un luogo nel tutto
   Osip Mandel’stam  

 

Dove non passano i carri pesanti, là devi camminare. Non spingere il tuo cocchio dietro impronte altrui, ma segui la tua strada. Non per la via larga, ma per sentieri non calpestati, muovi il tuo passo. E’ dalla stretta carraia, dalla strada più angusta che comincia il viaggio.
Callimaco
 

Qualcuna delle voci
sempre angeliche
-si tratta di me,-
si spiega acerbamente:

queste mille domande
che si ramificano
non danno in fondo,
che ebbrezza e follia;

riconosci questo giro
così facile, lieto:
è solo onda, flora,
ed è la tua famiglia!

poi ella canta. Oh,
così facile, lieto,
e visibile a occhio nudo...
-e io canto con lei, -

riconosci questo giro
così facile, lieto,
è solo onda,flora,
ed è la tua famiglia!...ecc...

e poi una voce
-com’è angelica!-
si tratta di me,
ci spiega acerbamente:

e subito canta,
sorella dagli aliti:
con tono tedesco,
ma ardente e piena:

il mondo è vizioso;
e tu ti stupisci!
vivi e lascia al fuoco
l’oscuro infortunio.

oh! bel castello
com’è chiara la tua vita!
quale età è la tua,
natura sovrana
del nostro fratello maggiore; ecc...

e canto anch’io:
molteplici sorelle; voci
per nulla pubbliche!
circondatemi
di gioia pudica... ecc...
Arthur Rimbaud 
  


Ho come la sensazione che al giorno d’oggi non si abbia “proprio più”, o forse, per dirla meglio, “non ancora” il diritto di comportarsi e di esprimersi “poeticamente”.  
Robert Walser  
 

Il Grande Capo di Washington vuole comprare la nostra Terra. Mi sembra una proposta amichevole, gentile e piena di buona volontà, perché la nostra terra lui può prenderla anche con i fucili. Quello che dice il Capo Seattle, il Grande Capo di Washington deve considerarlo sicuro, così come sicuro è il ritorno delle stagioni. Le mie parole sono stelle che non tramontano mai. Ma come potete comprare o vendere il cielo e il tepore della terra? L’idea ci sembra strana. Se noi non possediamo la freschezza dell'aria e lo scintillio dell'acqua, come potete voi comprarli? Ogni zolla di terra è sacra per il mio popolo. Ogni ago di pino, ogni spiaggia sabbiosa, ogni goccia di rugiada, ogni insetto ronzante è sacro per la mia gente. La linfa che circola negli alberi porta le memorie dell’uomo rosso. I morti dell’uomo bianco dimenticano il paese dove sono nati quando girano tra le stelle. Noi siamo parte della terra e la terra è parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo, il cavallo e l’aquila sono nostri fratelli. Le creste rocciose, il verde dei prati, il calore dei pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia. Considereremo la vostra offerta, ma non sarà facile perché questa terra per noi è sacra. L’acqua che scorre nei torrenti e nei fiumi non è soltanto acqua, ma anche il sangue degli antenati. Se vendiamo la nostra terra, voi dovete ricordare che essa è sacra e dovete insegnare ai vostri figli che ogni riflesso sulla superficie dei laghi racconta la vita della mia gente. Il mormorio dell'acqua è la voce del padre di mio padre. I fiumi sono nostri fratelli, trasportano le nostre canoe e nutrono i nostri bambini. Se decidiamo di vendervi la terra, voi dovrete trattarla come una sorella. Le ceneri degli antenati sono sacre, e così questa collina e questi alberi. Per noi tutta la terra è sacra. Sappiamo che l’uomo bianco non capisce questi pensieri. Per lui un pezzo di terra vale un altro pezzo di terra. Come uno straniero arriva all’improvviso,  prende quello che gli serve, e scappa via. La terra non è sua amica, ma un trofeo da mostrare. Tratta sua madre (la terra) e suo fratello (il cielo) come cose che possono essere comprate, sfruttate e vendute. La sua ingordigia divorerà tutto quanto e dietro di lui non resterà che il deserto.  Quello che io so è che abbiamo pensieri diversi. La vista delle vostre città ferisce gli occhi dell’uomo rosso. Non c’è un posto tranquillo nelle città dell’uomo bianco. Non esiste in esse un luogo dove sentire il ronzio di un insetto o lo schiudersi delle gemme in primavera. Ma forse ciò avviene perché l’uomo rosso è un selvaggio e non comprende. Il rumore delle città ferisce le sue orecchie. E che cosa è mai la vita, se un uomo non può ascoltare il grido solitario del succiacapre o i discorsi delle rane attorno a uno stagno quando si fa sera? L’aria è preziosa per l’uomo rosso, poiché tutte le cose sono parte dello stesso respiro. L’uomo bianco sembra non accorgersi dell’aria che respira e, come un moribondo, è insensibile al fetore che produce. Se vendiamo la nostra terra, voi dovete ricordare che l’aria è preziosa per noi e che ha anche lo stesso spirito della vita che essa sostiene. Il vento che ha dato ai nostri padri il primo alito riceve anche il loro ultimo respiro. E se vendiamo la nostra terra, voi dove conservarla come una cosa sacra, come un posto dove anche l’uomo bianco può andare a gustare il vento e le fragranze dei prati. Prenderemo in considerazione la vostra offerta, ma qualora dovessimo accettare io porrò una condizione: l’uomo bianco dovrà rispettare gli animali che vivono su questa terra come se fossero suoi fratelli. Io sono un selvaggio e non conosco altro modo di vivere. Ho visto migliaia di bisonti marcire sulla prateria, lasciati lì dall’uomo bianco dopo che un treno in corsa li aveva travolti. Io sono un selvaggio e non comprendo come un cavallo di ferro sbuffante possa essere più importante dei bisonti. Che cosa è l’uomo senza animali? Se tutti gli animali sparissero, noi moriremmo di solitudine. Perché ciò che accade agli animali accade anche all’uomo. Tutte le cose sono collegate. Dovete insegnare ai vostri figli che il terreno sotto i loro piedi è la cenere dei nostri antenati, dite loro che essa è ricca della vita della nostra gente. Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri, che la terra è la madre di tutti noi. Qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra. Sputare sulla terra significa sputare su se stessi. Questo noi sappiamo: non è la terra che appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla terra. Non è stato l’uomo a tessere la tela della vita, egli ne è soltanto un filo. Qualunque cosa egli faccia alla tela, lo fa a se stesso. Vogliamo prendere in considerazione la vostra offerta di andare nella riserva che avete preparato per il mio popolo. Noi vivremo per conto nostro e in pace. I nostri figli hanno visto i loro padri umiliati nella sconfitta. I nostri guerrieri hanno provato vergogna. E dopo la sconfitta, essi passano i giorni nell’ozio e contaminano i loro corpi con cibi dolci e bevande forti. Poco importa dove passeremo il resto dei nostri giorni: non saranno molti. Ancora poche ore, ancora pochi inverni, e nessuno verrà più a pregare sulle tombe degli antenati. Ma perché dovrei piangere la scomparsa del mio popolo? Le tribù sono fatte di uomini, niente di più. Gli uomini vanno e vengono come le onde del mare. Neanche l’uomo bianco, il cui dio cammina e parla con lui da amico ad amico, sarà mai libero da questo destino comune. Può darsi che siamo fratelli, dopo tutto. C’è una cosa che noi sappiamo e che forse l’uomo bianco scoprirà presto: il nostro dio è il suo stesso dio. Può darsi che ora voi pensiate di possederlo, così come pensate di possedere la nostra terra. Non è possibile. Egli è il dio dell’uomo e la sua compassione è uguale per l’uomo rosso come per l’uomo bianco. Questa terra è preziosa per lui e disprezzare la terra è come disprezzare il suo creatore. Anche gli uomini bianchi passeranno, forse prima di altre tribù. Continuate a contaminare il vostro letto e una notte soffocherete nei vostri stessi rifiuti. Stiamo prendendo in considerazione la vostra proposta di acquisto. Se accetteremo, sarà per assicurarci la riserva che ci avete promesso. Lì forse potremo vivere gli ultimi nostri giorni come desideriamo. Questo destino è un mistero per noi, poiché non capiamo perché i bisonti saranno massacrati, i cavalli selvatici tutti domati, gli angoli segreti della foresta pieni dell’odore di molti uomini, la vista delle colline rovinate dai fili del telegrafo. Dov’è la  boscaglia? Sparita. Dov’è l’aquila? Sparita. E che cos’è dire addio al cavallo e alla caccia? La fine della vita e l’inizio della sopravvivenza. Quando l'ultimo uomo rosso se ne sarà andato dalla faccia della terra, quando la sua memoria fra gli uomini bianchi sarà diventata un mito, queste riserve brulicheranno degli invisibili morti della mia tribù. Loro amano questa terra come un neonato ama il battito del cuore della madre. L'uomo bianco non sarà mai solo. Fate che sia giusto e gentile nel trattare la mia gente, perché i morti non sono privi di potere. Morti ho detto? La morte non esiste. Solo un cambiamento di mondi. Così, se comprerete la nostra terra, amatela come l'abbiamo amata noi, curatela come l'abbiamo curata noi. Conservate dentro di voi la memoria di com’era quando l’avete presa in consegna. E con tutta la vostra forza, con tutta la vostra mente e con tutto il vostro cuore preservatela per i vostri figli e amatela come dio ama tutti.


  
Eaux, roseaux. 
On dirait qu’un de ces mots
 se mire dans l’autre.  
Joseph Joubert  

Ciò che è pubblico non ha nessun bisogno di essere letto. Tanto per incominciare, l’autore potrebbe limitarsi a non firmare l’opera. Noli me legere, si prega di non guardare Euridice. Appello cortese, avvertimento insolito, divieto già da tempo trasgredito. L’incantatore ha bisogno di assicurarsi che ci sia una bellezza che lo segue.  

zen inchiostro pittura astratta grafica Archivio Fotografico - 3233640

Non passeggiano sugli intervalli, li saltano.

Chi converte l’aculeo in fiore arrotonda il lampo.
René Char
  

 

Un pittore aveva ricevuto dall’imperatore l’incarico di disegnare un drago sul paravento della stanza del trono. Passato qualche anno, l’imperatore si recò nello studio del pittore per appurare le ragioni del ritardo. Il posto era pieno di disegni e schizzi di draghi, uno più bello e particolareggiato dell’altro. L’artista disse che stava facendo degli studi, ma che presto sarebbe venuto a palazzo per l’opera definitiva. Poco tempo dopo arrivò e, variando con la punta del pennello la pressione sulla superficie da dipingere, completò in un attimo il suo lavoro. Da allora un drago adorna il paravento dell’imperatore nella stanza del trono.

Canta il merlo e fa un bel verso, chi me lo renderà
questo tempo perso, canta il merlo bel verso fa, questo tempo perso chi me lo renderà?

maschera Sticker GATTO

Il a commencé vingt ouvrages sans en avancer aucun, il en est de meme de ses lectures. Jamais il n’achève un livre.
 

  
Con la sagoma di un aquilone misureremo la circonferenza dei fulmini, con un disco di carta ripeteremo la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Prossimamente su questi schermi la compagnia dei trovatori completerà la riverenza, le splendide città torneranno a dividersi, gli scolari più previdenti riporteranno in esilio il mistero delle tavole sempre imbandite.

 

Se tu fossi un poeta, vedresti chiaramente che su questo foglio di carta scorre una nuvola. Senza la nuvola non può esserci la pioggia; senza la pioggia gli alberi non crescono; e senza gli alberi non possiamo fare la carta. La nuvola è essenziale perché la carta esista. Se non c’è la nuvola, non può esserci neppure questo foglio di carta. Dunque possiamo dire che la nuvola e la carta inter-esistono. “Inter-esistere” è una parola che non c’è ancora nel dizionario, ma se combiniamo il prefisso “inter” con il verbo “esistere” otteniamo un nuovo verbo, “inter-esistere” appunto. Senza la nuvola non avremmo la carta, dunque possiamo dire che la nuvola e la carta “inter-esistono”. Se poi guardassimo più attentamente questo foglio di carta, potremmo scorgervi la luce del sole. Senza la luce del sole la foresta non potrebbe crescere. Niente in effetti potrebbe crescere. Nemmeno noi potremmo crescere senza la luce del sole. Così sappiamo che su questo foglio di carta c’è anche il sole. Carta e sole inter-esistono. E se continuassimo a guardare, vedremmo il taglialegna che ha tagliato l’albero e l’ha portato alla cartiera perché fosse trasformato in carta. E vedremmo il grano. Noi sappiamo che il taglialegna non può vivere senza il suo pane quotidiano, e perciò sul foglio di carta c’è anche il grano con cui è stato fatto il pane. E ci sono il padre e la madre del taglialegna. Se guardiamo in questo modo, capiamo che senza tutte queste cose il nostro foglio di carta non potrebbe esistere. Guardando ancora più attentamente, vedremmo che ci siamo anche noi. Non è difficile da comprendere: quando guardiamo un foglio di carta, il foglio è parte della nostra percezione. La tua mente è là dentro, come anche la mia. Dunque possiamo dire che su questo foglio di carta c’è tutto. Non riuscirai a indicare una sola cosa che non ci sia: il tempo, lo spazio, la terra, la pioggia, i minerali del sottosuolo, la luce del sole, la nuvola, il fiume, il calore. Tutto coesiste con questo foglio di carta. Ecco perché penso che la parola “inter-esistere” dovrebbe essere inclusa nei dizionari. “Esistere” significa “inter-esistere”. Non puoi esistere da solo, separatamente. Devi inter-esistere con tutte le altre cose. Questo foglio di carta esiste perché tutte le altre cose esistono.
Thich Nhat Hanh

 

 

 

 


Bach e Beethoven hanno legato la terra con il cielo per impedire a Mozart di volare via.

                          

La creazione di un piccolo fiore è lavoro di ere.
William Blake




 

 

Urano non permetteva ai suoi figli di venire alla luce, li nascondeva nel ventre di Gea, Crono invece li ingoiava appena nascevano.  

 

              E’ ritrovata.
              Che? – L’eternità. 
             
E’ il mare andato
             
con il sole.  

              Anima mia sentinella, 
               mormoriamo l’assenso 
               della notte sì nulla 
               e del giorno di fuoco.

                 Dagli umani suffragi,
               dagli slanci comuni,
               là ti disciogli
               e libera voli.  

              Da voi soli invero,
               tizzoni di raso,
               si esala il dovere,
               e non si dice: finalmente.  

              Là, niente speranza,
               nessun orietur.
               Scienza e pazienza
               supplizio sicuro.  

              E’ ritrovata.
               Che? – L’eternità.
               E’ il mare andato
               con il sole.
              
Arthur Rimbaud  
  

 
   

Sono venuto a consacrare. Non importa dove, non importa quando.  
  

Un uomo morto, almeno così pare, è disteso, abbattuto davanti un enorme animale immobile, minaccioso. Quest’animale è un bisonte, e la sua minacciosità è tanto più incombente perché sta morendo: è ferito e, sotto il ventre aperto, si liberano i suoi intestini. Apparentemente è quest’uomo disteso che colpì con il suo giavellotto l’animale morente... Ma l’uomo non è un uomo, la sua testa, quella di un uccello, termina con un becco. Niente di questo complesso di immagini giustifica il fatto paradossale che l’uomo abbia il sesso eretto.
Georges Bataille
 

 

 

In giro con un’ombra tutta mia.  
 

Come si chiama la tua terra
dietro il monte, dietro l’anno?
Lo so come si chiama.
Come la fiaba d’inverno, così si chiama,
si chiama come la fiaba d’estate,
La terra dei tre anni di tua madre, era questa,
è questa,
peregrina per ogni dove, come la lingua,
gettala via, gettala via,
così la riavrai.
Paul Celan

 

Il fuoco, se non vuoi che si spenga, devi accarezzarlo, sfiorarlo appena, alimentarlo quel tanto che basta a farne nebbia. Solo così, stretto tra la soglia e l’ombra, quel mormorio di braci, anche dopo averti scaldato, seguiterà ad incantarti.  

 Di fianco al borgo bivaccano campi di mimose. Al tempo del raccolto può starci l’incontro odoroso con le braccia di una ragazza impiegata tutto il giorno tra quelle rame. Non molto diversa dal chiarore di una lampada al profumo d’aureola, lei si gira e subito volta le spalle al crepuscolo. Anche una sola parola sarebbe sacrilegio. Al piede che smuove l’erba, cedere il passo. Ti sarà forse dato di staccare da quelle labbra la chimera dell’umidità della notte? 
René Char

   

Sereno e spensierato, come soltanto un genuino nullatenente può essere, un ragazzo dall’aria bonaria e scioccherella, andava a spasso, un giorno, per la campagna sorridente e rigogliosa. Lasciandosi alle spalle alberi, cespugli, cortili e casolari, attraversava leggero, divertito, gaio e scanzonato campi e foreste, e il buonumore che spirava dal suo volto gli procurava il cordiale saluto di tutti coloro che incontrava, cosa che del resto non poteva fargli che piacere. Ma era altresì un tipo animato dalle migliori attenzioni verso tutte le creature, fossero uomini o animali, e ben disposto verso tutto il mondo che lo circondava, e quelle persone che sanno vedere subito, da lontano, come stanno le cose potevano certo accorgersene. Composto e dignitoso, tributava ognuno dei suoi buonasera, poiché già la sera – questa bella, nobile fanciulla dagli occhi e dalle mani d’oro – si andava insinuando tra le piante e i casolari, e vicino e lontano si levavano rintocchi di campana. Stava passando davanti a un prato, quando un vitellino allungò il capo nella sua direzione e gli fece capire che avrebbe desiderato aver qualcosa da lui. O forse voleva farci amicizia, scambiarci quattro chiacchiere, raccontargli un po’ della sua esistenza di vitellino. “Non ho nulla, caro animale. Volentieri ti darei in dono qualcosa, se l’avessi” disse il giovanotto e proseguì, ma andando avanti non riusciva a togliersi dalla testa quel vitellino che avrebbe desiderato aver qualcosa da lui.  Un po’ più tardi passò davanti a una splendida casa colonica situata al limitare del bosco. Ed ecco avventarglisi contro un cane enorme che abbaiava in maniera assordante, tanto che il buon giovane fu assalito dal terrore. Ma non c’era nulla da temere. La bestia prese a zompargli intorno, ma senza il minimo intento aggressivo, anzi affettuosamente; tutto quell’abbaiare non era stato che l’annuncio esplicito della sua gioia e non sarebbe stato necessario, da parte della buona villica, di richiamarlo da lontano a non accogliere la gente in maniera così sconveniente. “Cosa cerchi da me, buon animale? Vedo bene che desideri aver qualcosa da me, ma disgraziatamente non ho nulla. Ti darei volentieri qualcosa, se l’avessi” disse il giovanotto, e il cagnone volle accompagnarlo verso il bosco di faggi, come per stringere amicizia con lui e narrargli delle sue vicende di animale. Come vide che l’amico procedeva imperterrito nel suo cammino, il cane si arrestò per far ritorno alla casa colonica e ai suoi doveri, mentre il giovane continuò la sua passeggiata; ma strada facendo non riusciva a togliersi dalla testa quel cane, che gli si era avvicinato con tanta fiducia e che certamente avrebbe desiderato aver qualcosa da lui. Passato un buon tratto, dopo essere disceso giù a valle, il ragazzo s’imbatté, sulla bella e larga strada maestra, in una capra che, non appena lo vide, gli si avvicinò e prese a seguirlo come fosse un essere bisognoso di comprensione o volesse confidargli chissà che cosa sulla sua misera esistenza di capra. “Tu desideri aver qualcosa da me, ma non ho nulla. Ti darei volentieri qualcosa, caro animale, se l’avessi” le si rivolse carico di compassione e tirò avanti, ma proseguendo non riusciva a togliersi dalla testa quegli animali che avrebbero voluto aver qualcosa da lui – la capra, il cane, il vitellino – che avrebbero voluto stringere amicizia con lui e volentieri gli avrebbero narrato della loro muta, paziente, ottusa esistenza, che non conoscono una lingua e non possono parlare, che vengono al mondo prigionieri e asserviti all’utilità degli uomini, che gli volevano bene come lui ne voleva loro, che avrebbe più che volentieri preso con sé e che forse, a loro volta, volentieri lo avrebbero accompagnato e che avrebbe tanto desiderato aiutare a evadere dall’angusto, misero regno degli animali per conquistare un’esistenza più libera e felice. “Ma io non sono nulla, non posso nulla, non possiedo disgraziatamente nulla, e nell’immensità del mondo non sono che un uomo povero debole e impotente” concluse, e in quella gli balzò agli occhi la bellezza del mondo e rivide quegli animali; vide quanto tutti i suoi amici, uomini e animali, siano abbandonati alla loro sorte, e non poté più proseguire. Si accomodò sul prato, non lontano dalla strada, e pianse amaramente la sua stupida esistenza di sbarbatello. 
Robert Walser

 

   

 Trentatré lumache andavano al mare
                                      per un fosso tutto pieno di guazza
 tra prugne azzurre e raggi di rame
                                                la testa persa in una nuvola bassa.

 

Ho aperto la finestra
e goccia a goccia
ho versato la luna
nel mio boccale di vetro.

Ho allungato una mano
e con un po’ di timore
mi sono mangiato tutte le stelle
che pascolavano in cielo.

Ho fatto poi un bel rutto
e dato che sono un gentiluomo
mi sono pulito la bocca
con una nuvoletta bianca.

 

 

Gira, trottola, gira.
Gira dalla sera alla mattina.

 La terra sotto le case e la nebbia nel cielo.

 Gira, trottola, gira.
Gira tutta la sera e la mattina.

 

Uno sciame d’effimere s’imbatté volando in una fortezza, si posò sui bastioni, prese d’assalto il mastio, invase il cammino di ronda ed i torrioni. Le nervature delle ali trasparenti si libravano tra le muraglie di pietra. 
“Invano v’affannate a tendere le vostre membra filiformi”, disse la fortezza. “Solo chi è fatto per durare può pretendere d’essere. Io duro, dunque sono; voi no”. 
“Noi abitiamo lo spazio dell’aria, scandiamo il tempo con il vibrare delle ali. Cos’altro vuol dire: essere?”, risposero quelle fragili creature. “Tu piuttosto, sei soltanto una forma messa lì a segnare i limiti dello spazio e del tempo in cui noi siamo”. 
“Il tempo su di me scorre: io resto”, insisteva la fortezza. “Voi sfiorate soltanto la superficie del divenire come il pelo dell’acqua dei ruscelli”.
E le effimere: “Noi guizziamo nel vuoto così come la scrittura sul foglio bianco e le note del flauto nel silenzio. Senza di noi, non resta che il vuoto onnipotente e onnipresente, così pesante che schiaccia il mondo, il vuoto il cui potere annientatore si riveste di fortezze compatte, il vuoto-pieno che può essere dissolto solo da ciò che è leggero e rapido e sottile”.
Italo Calvino
 
 

 


Ecate
trimorfa, figlia di Fanes, protettrice delle strade, regina celeste, terrestre e marina, luna piena, luna crescente, luna calante, seme, spiga e fungo, trivia, amabile, senza cintura, candida mente, signora delle solitudini e degli almanacchi, custode di tutto il cosmo.
 

Ridono e nascono
nel va e vieni del mondo
tanti mondi profondi
che nuovamente vagano
e fuggendo, attraverso gli altri,
sembrano ogni volta più belli.
Si concedono nel passare,
s’ingrandiscono nel fuggire,
svanire è la loro vita.
Non sono più preoccupato
poiché posso,integro, attraversare
il mondo come mondo.
Robert Walser

 

 
Partecipare allo slancio. Non al festino, suo epilogo.

René Char  
 


Un giorno, davanti al tempio di Afrodite a Pafo, Smirna, figlia di re Cinira di Cipro, si vantò di avere capelli più belli di quelli della dea dell’amore. La cosa non dovette garbare molto ad Afrodite che, per vendicarsi, la gettò tra le braccia del padre. Per dodici giorni e dodici notti, infatti, o almeno così dice la storia, i due furono amanti. Qualche tempo dopo, re Cinira si scoprì padre e nonno del bimbo che Smirna portava in grembo e, pazzo di rabbia, la inseguì per tutta la città. Non sapendo dove nascondersi, la ragazza chiese agli dèi di non essere in nessun luogo, né tra i vivi e né tra i morti. Preghiera prontamente esaudita, e destino vuole che fosse proprio Afrodite a salvare la fanciulla dalla furia omicida del genitore, trasformandola in un albero di mirra. Subito dopo il parto, la dea chiuse Adone (questo è il nome del bambino) in un baule e lo affidò a Persefone, regina dei morti, perché lo custodisse in un posto sicuro. Mossa dalla curiosità, Persefone aprì il baule e vi trovò dentro Adone. Il fanciullo era così bello che la regina dell’Ade decise di portarlo nel suo palazzo al centro della terra. Afrodite, informata della cosa, scese subito nel Tartaro per riprendersi il maltolto. E quando Persefone non volle restituirlo, perché ne aveva già fatto il suo amante, Afrodite si appellò al giudizio di Zeus. Il signore dell’Olimpo, consapevole che anche la dea dell’amore era smaniosa di andare a letto con Adone, rimise la contesa al tribunale presieduto dalla musa Calliope. Il verdetto di Calliope stabilì che Afrodite e Persefone avevano uguali diritti su Adone, perché una lo aveva salvato al momento della nascita, e l’altra aveva fatto la stessa cosa poco tempo dopo, aprendo il baule. Per proteggere il fanciullo dalle brame delle due insaziabili dee, era necessario concedergli un periodo di riposo. Calliope divise così l’anno in tre parti uguali: nella prima Adone sarebbe stato con Persefone, nella seconda avrebbe frequentato Afrodite, e nella terza sarebbe rimasto da solo. Ma Afrodite non si comportò lealmente e, disubbidendo agli ordini di Calliope, costrinse il fanciullo a trascorrere quasi tutto il tempo in sua compagnia.  Ferita nell’orgoglio, Persefone si recò in Tracia e disse ad Ares, signore della guerra, che oramai Afrodite gli preferiva Adone. Preso dalla gelosia, il dio si trasformò in un cinghiale, inseguì il ragazzo per tutto il monte Libano e, davanti agli occhi atterriti di Afrodite, lo azzannò a morte. Anemoni sbocciarono dal sangue di Adone e la sua anima discese al Tartaro. Poco dopo Afrodite si recò da Zeus e chiese che fosse concesso ad Adone di trascorrere soltanto la metà più cupa dell’anno in compagnia di Persefone e tutto il resto della stagione chiara di nuovo in sua compagnia. Il signore degli dèi acconsentì. Da allora Adone è lo spirito della vegetazione, il simbolo della natura che muore e rinasce continuamente. Ancora oggi, infatti, nelle feste in suo onore si rievocano il congiungimento e la separazione: un giorno si celebrano le nozze e il giorno dopo il suo funerale. Adone giace per terra, Afrodite lo ama, lo piange, inutilmente cerca di trattenerlo, poi, con il passare delle ore, lentamente egli si dilegua tra le onde e nell’aria. Ma Adone è vivo, Adone tornerà sempre come le rondini. Per questo le donne tagliano i loro capelli, giacciono con gli stranieri nel tempio, confezionano quelli che vengono chiamati i Giardini di Adone. Trattasi di cestini pieni di terra che, per dodici giorni, vengono riempiti con semi di frumento, orzo, lattuga, finocchio e vari tipi di fiori. Con il calore del sole, le piantine germogliano rapidamente ma, non avendo radici, altrettanto rapidamente appassiscono. E allo scadere dei dodici giorni, quei piccoli recipienti vengono portati via con le effigi di Adone e gettati in mare o nelle sorgenti. Questo sortilegio serve a favorire la crescita della vegetazione, perché Adone da sempre ne impersona il ruolo, da sempre ne è il signore. Il contadino deve propiziarsi lo spirito del grano che lo nutre, così come il pastore deve placare lo spirito delle erbe e delle foglie che il suo gregge rumina, e il raccoglitore deve fare altrettanto con le radici che estrae dalla terra e i frutti che coglie dal ramo. Simili ad Adone sono Attis nell’Asia Occidentale, Osiride in Egitto, per non parlare delle affinità con Dioniso e con la morte e resurrezione di Gesù Cristo.  
 

     

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria et  l’honore et omne benedictione.

 Ad te solo, altissimo, se konfano,
et  nullu homo éne dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,

spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual’è jorno, et allumini noi per lui.
 Et ellu è bellu et radiante cum grande splendore:

da te, Altissimo, porta significatione.

 Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ài  formate clarite et preziose et belle.

 Laudato sì, mì Signore, per frate Vento
et  per aere et nubilo et sereno et onne tempo,

per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

 Laudato sì, mì Signore, per sor’aqua,
la quale è molto utile et umile et preziosa et casta.

 Laudato sì, mì Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:

et  ello è bello et  iocundo et robustoso et forte.

 Laudato sì, mì Signore, per sora nostra madre terra,
la quale ne sustenta et governa,

et  produce diversi fructi cum coloriti flori et herba.

 Laudato sì, mì Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et  sostengo infirmitate et  tribulatione.

 Beati quelli ke ’l sosterranno in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò  skappare:
Guai a cqelli che morranno ne le peccata mortali;
Beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,

ka la morte secunda no ’l farrà male.

 Laudate e benedicete mi’ Signore et  rengratiate
et serviateli cum grande humiltate.

 

        

guardo gli asini
che volano nel ciel
ma le papere sulle nuvole
si divertono
a fare i cigni nel ruscel
bianco come inchiostro
vanno i treni
sopra il mare tutto blu
e le gondole bianche
sbocciano nel crepuscolo
sulle canne di bambu'
du du du du du
queste strane cose
vedo ed altro ancor
quando ticchete ticche
ticchete ticche
ticchete sento che è
guarito il cuor
dall'estasi d'amor
Stan Laurel & Oliver Hardy

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Secondo autografo de «L'infinito» (Visso, Archivio Comunale)


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johnny b goode

 

 

Il Mazapegul è un folletto dispettoso, il protettore delle bestie e della casa. Con il suo bastone da passeggio e con in testa un berrettino rosso, il Mazapegul è l’antico spirito che giace con le donne. Di gradevole aspetto, lo si direbbe un incrocio tra un gatto e uno scimmiotto. Come la maggior parte dei suoi simili, non gira che di notte e lascia impronte dappertutto. Se lo tratti bene, ti fa i lavori domestici, ma se lo fai arrabbiare, ti rovescia tutta la casa. Il Mazapegul lo puoi scacciare in centomila modi. Lo puoi anche catturare, chiudendolo in un sacco. Ma a che pro? La notte dopo lo troveresti ancora lì, leggero come un refolo di vento e pesante come la pietra degli incubi. Per il dizionario Devoto-Oli, il folletto è un “essere fiabesco della tradizione popolare, piccolo ed astuto, magnificamente operante a danno o a vantaggio dell’uomo”. Folletto, in romagnolo fulèt, nodo di vento, piccolo mulinello che s’alza quando l’aria è calma. La radice “fol” significa “soffio d’aria” da cui derivano i termini latini follis, flare, flatus, e gli italiani folle, folata, folletto, ma anche fola, favola. Il Mazapegul è piccolino, di pelo grigio e corre spedito sulle zampette posteriori. In testa porta un berretto rosso e tra le mani stringe un bastone da passeggio. Per il resto è nudo come un verme o un bambino appena nato. Il Mazapegul è il genio tutelare della famiglia, lo spirito degli antenati, è quell’attività onirica che mette in comunicazione il cielo con la terra. Per Anselmo Calvetti, Mazapegul è derivato da pécul/pécol e significa “il piccolo dalla mazza”. La mazza (bastone, martello, zanèta) intesa come l’arma con la quale la divinità tutelare della casa impediva agli spiriti maligni di oltrepassare la soglia domestica. Il Mazapegul alza le sottane delle signore, salta in groppa alle rane, intreccia le code delle mucche, le criniere dei cavalli, i capelli delle fanciulle, nasconde e sposta oggetti, suggerisce sogni, dona gioia e spensieratezza alle persone amate. Il Mazapegul può trasformarsi in un filo d’erba, una foglia, un sasso, può essere così piccolo da passare per il buco della serratura o così grande da bloccare una strada. Inconsistente come l’aria, il Mazapegul è capace di assumere qualsiasi aspetto, può diventare un animale, un attrezzo da lavoro, un gomitolo di lana, una fiammella, un mostro, oppure può trasformarsi in radici, tronchi, rami. Il Mazapegul fa i dispetti a quelli che lavorano, sa imitare la voce umana, si diverte a confondere i discorsi, eccetera, eccetera.

Naturalmente l’anima canta il bello, e non sempre nella misura del verso, ma con personali e reciproche armonie di forma, colore e sentimento. Quando questo avviene, è bello ascoltare e, malgrado l’autore, tutto s’accorda e torna a risuonare. Non resta allora che un tira e molla di corde, e anche chi scrive prende a girare come uno strumento sapientemente organizzato.

     

Gli ottimi scrittori scrivono poco perché hanno bisogno di molto tempo per ridurre in bellezza la loro abbondanza e la loro ricchezza.
Joseph Joubert

 

I fossi sono posti sacri, musica sapiente, il regno delle nubi e della nebbia. Qui vivono i trovatori, i trasparenti, gli angeli confusi. I fossi sono cattedrali, anellini nuziali, un imbuto aromatico pieno di tepori e di stelle, l’arcipelago dove le piccole creature selvatiche si divertono a moltiplicare i mondi. E’ nei fossi che i bambini si appostavano con le candele e le zucche, ed è nei fossi che si consumavano gli amori più audaci e le burle più feroci, ed è ancora nei fossi che finivano tutti quelli che andavano troppo forte. La rosa è bella, il grano riempie la pancia, la vite scalda il cervello, ma la malerba non serve proprio a niente, è soltanto vapore, polvere da sparo, un liquore tiepido e che fa sognare. Per uno spuntino alla Rimbaud, la malerba si accompagna perfettamente con quel pane che, per essere buono, deve cuocere sulla mano del fornaio.

     

    

 

Se Adone è lo spirito vegetale che muore e rinasce, Demetra e Persefone sono la crescita e la fruttificazione del chicco di grano. Il mito di Demetra e Persefone celebra la fine del nomadismo e la nascita dell’agricoltura, racconta il viaggio di un seme che lascia la terra per donare un corpo alla morte e un’anima al mondo. Il mito di Demetra e Persefone è anche la più straordinaria esperienza psichedelica che la nostra umanità abbia conosciuto. Tutto ebbe inizio quando Ades, fratello di Zeus e Poseidone, rapì sua nipote Core-La fanciulla, figlia di Demetra, mentre, in compagnia delle Oceanine, raccoglieva fiori nel giardino di Ecate. Ades portò Core nel suo regno e, con il nome di Persefone, essa divenne sua sposa. Per giorni e giorni, disperatamente, questo dice il prosieguo della storia, Demetra cercò la figlia scomparsa. Quando finalmente venne a sapere che Persefone, con il consenso di Zeus, era stata rapita da Ades, s’infuriò con il signore dell’Olimpo e decise di non vivere più con gli dèi, ma di andare tra gli uomini sulla terra. Qui vagò senza meta, prima di giungere, camuffata da mortale, ad Eleusi, dove venne cordialmente ospitata e impiegata come nutrice a palazzo. In seguito, dopo aver svelato la sua natura divina, Demetra fece erigere un tempio e diede istruzioni per il culto. Terminate le opere, sempre più decisa a sfidare l’olimpo, la dea cercò prima di negare la morte, offrendo a tutti l’eternità, poi tentò di farla diventare eterna, scatenando una terribile siccità che, per un anno intero, impedì ai semi di germogliare, lasciandoli sepolti nel sottosuolo. A questo punto, paventando il rischio di perdere le offerte degli umani, il gran consesso degli dèi chiese a Zeus di intervenire. E molto saggiamente il Cronide pose fine all’incresciosa vicenda. Ad Ades non rimase che ubbidire, non prima però di aver fatto mangiare a Persefone un chicco di melograno, unico frutto capace di farla rimanere regina degli inferi, pur trascorrendo la parte più dolce dell’anno in compagnia della madre. Prima di far ritorno all’Olimpo, Demetra rivelò i suoi misteri e insegnò agli uomini la coltivazione del grano. “Felice colui, tra gli uomini viventi sulla terra, che ha visto queste cose! Chi invece non è stato iniziato ai sacri misteri, chi non ha avuto questa sorte, giammai avrà simile destino, nemmeno dopo la morte, laggiù, nella squallida tenebra”. Così recita lo splendido inno Omerico. I misteri in questione sono quelli di Eleusi, molto probabilmente i più importanti dell’antichità, misteri che, per circa duemila anni (dal 1500 a.c. al IV secolo d.c.), furono celebrati in Grecia, nei dintorni di Atene, in onore di Demetra e di sua figlia Persefone.

 

O Dio, concedici il meglio delle benedizioni, una mente per pensare e un amore sorridente, maggiori ricchezze, un corpo sano, linguaggio amabile e giorni festosi.
Rg-veda

Quando nell’impasto dell’aria trema
all’improvviso accorato il cardellino,
la cattiveria pepa la sua piccola toga
e è bellissima nera la cuffietta.

Calunniano il posatoio e l’assicella,
calunnia la gabbia coi suoi cento aghi
e tutto il mondo è alla rovescia
e c’è una Salamanca boscosa 
per i saggi uccellini disobbedienti.
Osip Mandel’stam

traducendo dio

 

 le nuvole stanno pigre e larghe    nel   cielo come gatti distesi
  Robert Walser

 

Le cose esistono in se stesse.
Lassù sopra la luna

intravedo la lepre
in un vaso
che pesta il riso per le focacce.
Ne chiedo una.
“Di che forma?” dice la lepre.
“Una simile a un razzo”.
“Ecco –prendi!”.
Sopra, fuori,
ogni cosa passa
d’un colpo,
libero finalmente
ignaro
di dove sto andando.

Shinkichi Takahashi

 

Un lavoro di punta.
René Char

 

Lumaca lumachina, vieni qui sulla mia manina, non andare da quel birbone che ti mette sul carbone, il carbone brucerà, la lumaca canterà.


 

 

Il musicista è forse il più modesto degli animali, ma anche il più fiero. E’ lui che ha inventato l’arte sublime di sciupare la poesia.
Erik Satie

 

Questa è la storia di un suonatore che andò a suonare all’inferno, un posto dove non succede mai niente e che si trova proprio dietro l’uscio di casa.
Si parte con uno scambio di battute tra il protagonista e la madre:
“Fatemi da mangiare, presto, che devo andare a suonare!”, dice il ragazzo.
“Non sarai mica matto? Oggi è venerdì e il venerdì non si suona!”, risponde la madre.
“Io sono un suonatore e i suonatori suonano quando c’è da suonare”, continua il ragazzo.
“Andassi a suonare all’inferno!”, conclude la madre.
Giusto il tempo di tirarsi dietro l’uscio di casa, e il protagonista di questa storia sente una folata e la voce di uno che dice:
“Giovanotto, si va a suonare, eh?”.
Ed ecco la risposta:
“Io sono un suonatore e suonare è quel che i suonatori fanno.
La voce poi aggiunge:
“Stasera il posto è lontano, ma se vuole accomodarsi sui miei piedi, ci mettiamo un attimo ad arrivare”.
Il suonatore accetta, e adesso siamo in una sala rossa, rotonda e piena di gente; e mentre il nostro amico sta per attaccare la canzone del Barabano, arriva un morto che così lo saluta:
“Sei morto anche tu, suonatore? Ma lo sai dove ti trovi? Siamo all’inferno!”.
Il ragazzo non capisce:
“All’inferno? Ma sei sicuro?  E adesso come faccio a tornare indietro?”.
Il morto trova la soluzione:
“Li vedi quei tre mucchi laggiù? Sono tre sacchi pieni di soldi; quando il diavolo ti chiede quale vuoi, tu non scegliere i due grandi ai lati, ma quello piccolo in mezzo; se no, resti qui per sempre”.
La storia finisce con il suonatore che racconta alla madre la sua avventura in quel posto dove non succede mai niente.

 

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Poesie di uno che percepisce e osserva, di uno che volge la sua attenzione a quanto appare, lo interroga e gli parla: esse sono dialogo. Entro lo spazio di questo dialogo si costituisce il soggetto cui è rivolto il discorso, esso si rende presente, si raggruma intorno all’io che gli rivolge la parola e lo nomina. Ma, in questa presenza, ciò che attraverso la nominazione e l’interlocuzione è diventato praticamente un tu introduce la propria alterità ed estraneità.

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Fenomeno sublunare, terrestre e creaturale. Linguaggio attualizzato, sonoro e sordo a un tempo.

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E cerco anche, perché mi ritrovo dove ho cominciato, il luogo della mia origine.  Con dito impreciso lo cerco sulla carta geografica. Questo luogo è introvabile, non esiste; ma io so dove dovrebbe essere, e qualcosa trovo. Trovo quello che unisce, quello che può avviare il poema all’incontro. Trovo qualcosa che è immateriale, eppure è terrestre, planetario, qualcosa di circolare che ritorna a se stesso attraverso entrambi i poli. 

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Sempre e soltanto un io che parla dal particolare angolo d’incidenza della propria vita e ricerca una delimitazione, un orientamento. 

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Size:  9,6 kB                                                                                                                                   Paul Celan

 

   

Aveva conosciuto giorni migliori, nonostante la sua miseria e la sua infermità.
A quindici anni una vettura gli aveva schiacciato tutte e due le gambe sulla strada maestra di Varville. Da allora mendicava trascinandosi lungo le strade, nei cortili delle fattorie, dondolandosi sulle stampelle che gli avevano sollevato le spalle sin quasi alle orecchie. Il suo capo pareva sprofondato tra due montagne. 
Trovatello scoperto in un fosso dal curato di Billettes, la vigilia del giorno dei Morti, era stato battezzato da lui col nome di Nicola Ognissanti. Allevato per carità, privo di qualsiasi istruzione, divenuto storpio per aver bevuto qualche bicchierino di acquavite datogli per gioco dal fornaio del paese, e da allora, vagabondo, non sapeva far altro che stendere la mano. 
Un tempo la baronessa di Avary gli aveva concesso un piccolo giaciglio, in una specie di nicchia vicina al pollaio, nella fattoria annessa al castello; nei giorni di fame nera era sicuro di trovare sempre in cucina un tozzo di pane e un bicchierino di sidro. Spesso riceveva anche qualche soldo che la baronessa gli lanciava dalla scalinata o dalla finestra della sua camera. Adesso era morta. 
Nei villaggi non gli davano più nulla: lo conoscevano troppo; erano stufi di lui dopo quarant’anni che lo vedevano andare da una casupola all’altra con il corpo cencioso e deforme su due trampoli di legno. Però non se ne voleva andare, perché sulla terra non conosceva altro che quell’angolo di mondo, quei tre o quattro cascinali dove aveva trascinato la sua miserevole esistenza. Aveva posto confini alla sua mendicità, e non li avrebbe mai varcati.
Ignorava se il mondo si stendesse oltre quegli alberi che scorgeva in distanza e chiudevano il suo orizzonte. Non se lo chiedeva nemmeno. E quando i contadini, stanchi di vederselo sempre tra i piedi, gli gridavano:
- Perché non vai a seccare la gente degli altri villaggi, invece di ronzare sempre da queste parti?
Lui non rispondeva e si allontanava, preso da una vaga paura dell’ignoto, la paura del povero che teme confusamente mille cose, le facce nuove, le ingiurie, gli sguardi sospettosi delle persone che non lo conoscevano, i gendarmi che girano sempre in coppia e d’istinto lo portavano a nascondersi nelle siepi o dietro i mucchi di breccia. 
Quando li vedeva da lontano, luccicanti sotto il sole, trovava di colpo una strana agilità, un’agilità da mostro, per rifugiarsi in un nascondiglio. Capitombolava giù dalle stampelle, si lasciava cadere come uno straccio, si rannicchiava, rimpiccioliva, diventava invisibile, si acciambellava alla maniera delle lepri, mentre confondeva i suoi stracci scuri con la terra. 
Eppure non aveva mai avuto a che fare con loro. Quella paura lui la teneva nel sangue, quasi fosse un dono dei genitori che non aveva mai conosciuto. 

Era senza un rifugio, un tetto, una capanna, un riparo. D’estate dormiva dappertutto, e d’inverno si infilava con rara abilità nei fienili o nelle stalle. Se la svignava sempre prima che si accorgessero della sua presenza. Conosceva i buchi dai quali penetrare negli edifici e, siccome il maneggiare le stampelle gli aveva rafforzato le braccia in modo sorprendente, si arrampicava con la sola forza delle mani fino ai granai, dove a volte rimaneva quattro o cinque giorni senza muoversi, se nei suoi giri aveva raccattato cibo a sufficienza. 
Viveva in mezzo agli uomini come una bestia selvatica, senza conoscere nessuno, senza amare nessuno, suscitando nei contadini solo una specie di disprezzo indifferente e di ostilità rassegnata. Lo avevano soprannominato “Campana”, perché, dondolandosi tra l’una e l’altra stampella, a guisa di battaglio, richiamava alla mente proprio l’immagine di una campana. 
Non mangiava da due giorni. Nessuno gli dava più niente. Ormai non ne volevano più sapere di lui.  Le contadine, di sulle soglie, appena lo vedevano giungere, gli gridavano:
 
- Vuoi andartene, tanghero? Sono appena tre giorni che ti ho dato un pezzo di pane!
E lui piroettava sulle stampelle, e se ne andava alla casa accanto, dove veniva accolto allo stesso modo. 
Da una porta all’altra le donne dicevano: 
- Non si può mica nutrire quel fannullone tutto l’anno, che diamine!
Il fannullone aveva tuttavia bisogno di mangiare tutti i giorni.
Aveva già percorso Saint-Hilaire, Varville e Billettes, senza raccogliere un centesimo o una crosticina di pane. La sua sola speranza era Tournolles, ma doveva fare due leghe sulla strada maestra, e non riusciva più ad andare avanti dalla stanchezza, con lo stomaco vuoto come le tasche. Si pose tuttavia in cammino.

Era dicembre, sui campi soffiava un vento freddo, fischiava tra i rami spogli e le nuvole galoppavano nel cielo basso e tetro, affrettandosi verso non si sa dove. Lo storpio procedeva lentamente, spostando le stampelle una dopo l’altra con uno sforzo terribile, appoggiando il peso sulla gamba storta che gli rimaneva, fasciata all’estremità da un cencio sudicio. 

Ogni tanto si sedeva sul fosso per riposare qualche minuto. La fame gettava una angoscia disperata nel suo animo torbido e appesantito. 
Non aveva che un’idea: ”mangiare”; ma non sapeva come. 
Per tre ore penò lungo la strada; poi, quando vide gli alberi del paese, accelerò i movimenti.
Il primo contadino che incontrò, e al quale chiese l’elemosina, gli rispose:
- Sei ancora qui, scroccone! Non riusciremo dunque mai a sbarazzarci di te?
Campana si allontanò, avvilito. Lo respinsero a tutte le porte, senza dargli nulla; ma lui, paziente e ostinato, continuò il suo giro. 
Non raccolse neanche un soldo.
Si spinse allora sino alle fattorie, trascinandosi sulla terra molle di pioggia, così estenuato che non poteva più alzare le stampelle. Fu scacciato da tutti. Era uno di quei giorni freddi e tristi in cui i cuori si stringono, gli spiriti si irritano, l’anima s’abbuia, la mano non si tende né per dare né per soccorrere. 
Quando ebbe visitato tutte le case che conosceva, andò a buttarsi sul ciglio di un fosso, lungo l’aia di mastro Chiquet. Si sganciò, come dicevano per indicare il modo in cui si lasciava cadere tra le alte stampelle facendole scivolare sotto le braccia. E rimase a lungo immobile, tormentato dalla fame, ma troppo abbrutito per capire la sua insondabile miseria. 
Aspettava non si sa che cosa, con quella vaga attesa che rimane sempre dentro di noi. Aspettava all’angolo di quell’aia, nel vento gelido, l’aiuto misterioso che si spera sempre venga dal cielo o dagli uomini, senza chiederci come, né perché, né da chi potrebbe giungere. Passò un branco di galline, cercando da mangiare nella terra che tutti nutre. Tutto il tempo prese a bazzicare, a razzolare, a beccare un granello o un insetto invisibile. 
Campana le guardava senza pensare a niente; poi gli venne, più nel ventre che nella mente, la sensazione più che l’idea che una di quelle bestiole sarebbe stata buona da mangiare alla griglia. 
Il sospetto che stava per commettere un furto non lo sfiorò nemmeno. Prese un ciottolo a portata di mano e, siccome era abile, lo scagliò, uccidendo sul colpo il volatile più vicino a lui. La bestiola cadde su di un fianco agitando le ali. Le altre fuggirono, dondolando sulle loro zampette, e Campana, rimontando sulle stampelle, si diresse a raccogliere la preda con movimenti simili a quelli delle galline.
Mentre stava arrivando vicino al corpicino nero con la testa macchiata di sangue, ricevette in piena schiena uno spintone che lo fece ruzzolare dieci passi più avanti. E mastro Chiquet, esasperato, gli si avventò sopra, lo tempestò di pugni e calci come un forsennato, infierendo sempre più contro di lui, che era infermo e incapace di difendersi. 
I coloni della fattoria accorsero e si unirono a mastro Chiquet nelle percosse. Quando furono stanchi di percuoterlo, lo sollevarono e lo rinchiusero nella legnaia; poi fecero chiamare i gendarmi. Campana, mezzo morto, insanguinato, affamato, rimase steso per terra. Giunse la sera, poi la notte e poi l’aurora. Non aveva ancora mangiato nulla. 
Verso mezzogiorno comparvero i gendarmi e aprirono con cautela la porta aspettandosi resistenza, perché mastro Chiquet aveva fatto credere di essere stato aggredito dal mendicante e di essersi difeso a fatica.
 
Il brigadiere gridò:
- Su, in piedi! 
Ma Campana non poteva più muoversi, tentò di sollevarsi sulle stampelle, senza riuscirvi, e i due gendarmi, credendo ad un’astuzia, ad una cattiva volontà del malfattore, lo afferrarono e lo misero di forza sulle stampelle. 
Campana fu preso da quel terrore istintivo per le cinture gialle dei due gendarmi che l’aveva sempre angustiato, quel terrore da cui è colta la selvaggina dinnanzi al cacciatore, il topo dinnanzi al gatto. Per uno sforzo sovrumano, riuscì a rimanere ritto.
- Cammina! - ordinò il brigadiere.
Egli si mosse. Tutti i contadini della fattoria lo guardarono partire. Le donne gli mostravano i pugni; gli uomini sghignazzavano, lo insultavano. Finalmente lo avevano preso! Finalmente se n’erano sbarazzati!
Si allontanò tra i suoi due custodi. Trovò la disperata energia di trascinarsi ancora sino a sera, abbrutito, non sapendo più neanche che cosa gli sarebbe successo, troppo smarrito per capire qualcosa. 
La gente,per strada si fermava a guardarlo, e i contadini mormoravano:
- Sarà un ladro! 
Giunse sul far della notte al capoluogo del circondario. Non si era mai spinto fino a lì. Non capiva quello che stava accadendo, né immaginava quel che sarebbe accaduto. Tutte quelle cose orribili, impreviste, quelle facce e quelle case nuove lo costernavano. 
Non pronunciò una parola, non avendo niente da dire, perché non capiva più niente. D’altro canto erano tanti anni che non parlava più con nessuno, aveva quasi perso l’uso della lingua; e i suoi pensieri erano troppo confusi per tradursi in parole. 
Lo rinchiusero nella prigione del paese. I gendarmi non pensarono che poteva aver bisogno di mangiare, e lo lasciarono lì fino al giorno dopo.
Ma di prima mattina, quando vennero per interrogarlo, lo trovarono morto per terra.
Che sorpresa!
Guy de Maupassant

La poésie ne rythmera plus l’action; elle sera en avant.
Arthur Rimbaud

 


Onorano la poesia coloro che le ricordano che, a riposo, può parlare di tutto, persino di “disgrazie e primizie”; inebriarsi di tutto, persino degli odori di maggiolino, commensale di un proverbio.
René Char 

 

Ci sono alberi che ti fanno girare in tondo e alberi che ti fanno sentire a casa. Terra, aria, acqua e fuoco si ritrovano in un bel palazzo. Posso farti da guida, portarti avanti e indietro come una stella del rock’n’roll? Qui puoi trovare quello che ti serve, quello che la benevolenza ha preparato per te. Vuoi un lombrico, una nuvola, un calendario, uno strepito, una bussola? Il cortile è grande, e a tre passi dall’ingresso c’è un giuggiolo. A me sembra un amuleto per uccelli, lo sbuffo di un’astronave marziana. Sono stati i romani a portarlo qui, i romani e le strategie oblique dei nostri pronipoti. Originario della Siria, 6-7 metri d’altezza, aspetto contorto, rami irregolari e spinosi (ogni nodo presenta una coppia di piccole spine), questo fratello freddoloso è in realtà l’ombelico della casa e sicuramente anche la nostra più bella foto di famiglia. “Volta, rivolta e torna a rivoltare”, cantavano gli Scariolanti. “Con tutti gli esseri e con tutte le cose noi saremo fratelli”, dicevano i Pellerossa.  Vedi anche tu una vela al posto dei remi, un leone al posto del cammello, un pianeta al posto della pineta? Noi romagnoli siamo imparentati con il cachi, e questo è un pensiero che va al di là dei colori, dei sapori e degli odori. Credo sia devozione. Hai presente l’ave verum corpus di Mozart o, per meglio dire, la pallina del flipper? Bene, anche mezza risposta potrebbe essere la prova provata che il sei sta al nove esattamente come il nove sta al sei, e che la sfrontatezza di questo paese è in realtà il continente che abbiamo sempre sognato. Tornando al nostro alberello, temo che i suoi frutti siano esagerati almeno quanto il resto di questa tiritera. Qualcuno ha mai visto un romagnolo mangiarli? Io no di certo. Sempre troppo bello da guardare e troppo buono da indossare, il cachi è una reliquia da tenere sotto una campana di vetro. Nel ferrarese e dalle parti di Urbino si è fatto conoscere come candito, noi preferiamo usarlo invece come albero di Natale. Non è una differenza da poco e forse neanche il pretesto per un respiro più grande. Niente di meglio di un fico esiste oggi sulla faccia di Gaia, niente di più glorioso e gentile sta girando nel vento. Nella Grecia antica questa pianta era legata a Dioniso, nell’India della Trimurti era invece l’asse del mondo, l’albero cosmico che unisce il cielo alla terra. Si dice fico, ma a me viene in mente l’azzurro del cielo, la sensualità dei campi, l’odore dei fulmini e della carta stampata. Quello che sta nel cortile del palazzo non è molto convertibile, fruttifica quando pare a lui, e credo si senta in debito soltanto con la primavera. Pesca, mosca, lisca e fiasca; pesca la lasca e mettila in tasca. La canzone continua con un bambino che prende un clarinetto in DO e suona tutte le note. Se c’è una pianta che non conosce l’ombra, questa è di certo il pioppo. Hai presente le prugne secche, le castagne, le mele, le carrube e l’uva passa? Noi romagnoli diciamo pioppo (per essere più precisi, “piopa”, al femminile), ma dovremmo aggiungere anche “Segavecia”, la bella strega da tagliare e da bruciare alla fine dell’inverno. Quello del pioppo è un reame grande abbastanza per la beccata di un passero, ma ancora troppo piccolo per il gioco della ricreazione. Saresti imbarazzato se adesso strappassi un po’ di bianco e un po’ di nero dalle sue foglie? Niente sopra di noi e niente sotto di noi, soltanto un cielo a righe da portare in tasca. Fine dell’intervallo e inizio delle indulgenze. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei e sette. Amore è una parola di cinque lettere, proprio come morte, vita ne ha invece quattro, tre meno di libertà, sette meno di compassione. Ci sono alberi che ti fanno girare in tondo e alberi che ti fanno sentire a casa, l’albero dei saluti è piantato tra due acque, il cerchio che racchiude e la circonferenza che tutto scioglie. Vogliamo prendere qualche misura, circoscrivere la sua sfera, garantire ancora il transito delle stagioni?  
 

 

  

La flagellazione di Piero della Francesca (Tempera su tavola di 59 x 81,5 cm) si divide in due aree rettangolari. A sinistra c’è la scena che titola il quadro, mentre a destra un uomo è affiancato da due signori che lo ignorano completamente.

Le due scene sono temporalmente disgiunte. Quella della flagellazione è ben riconoscibile, ma appare in secondo piano sulla parte sinistra del quadro. I tre uomini in primo piano sulla destra girano invece le spalle al Cristo e ai suoi carnefici.

A sinistra c’è un uomo seduto, è vestito come un imperatore orientale, tiene le mani in grembo e il suo sguardo sembra sconsolato. Davanti a lui si svolge la flagellazione. Il Cristo è legato ad una colonna sormontata da una statua che rappresenta il sole. L’addetto alla flagellazione ha una tunica nera. Degli altri due personaggi, uno tiene Gesù per un braccio, mentre l’altro indossa un turbante e osserva dando le spalle a chi guarda il quadro.

In bella vista sulla destra ci sono tre personaggi: il primo è un uomo barbuto vestito come gli orientali, il secondo è un giovane scalzo con una tunica rossa, il terzo è un signore con un abito elegante in broccato.

La luce proviene da sinistra e da destra e illumina anche la parte di soffitto posta sopra la testa del Cristo. Un bagliore chiaro e diffuso sembra bloccare le due scene. Il quadro racconta i dolori del mondo, e poi anche il presente, il passato e il futuro dell’umanità. Da notare che le figure che stanno in fondo a destra sono soltanto un doppio, una replica di quelle che si possono vedere in primo piano sulla sinistra.

La vicenda rappresentata sullo sfondo è in realtà un atto unico che può essere collocato da qualsiasi parte e in qualsiasi tempo. La flagellazione avviene nella più completa indifferenza dei tre uomini che, pur condividendo il medesimo spazio reale dove si compie il fatto, sembra non si accorgano nemmeno di quel che sta succedendo a pochi passi da loro.

 

 

 

Un coeur simple è il primo dei trois contes, e poi è anche lo scritto più bello di Flaubert. Secondo Italo Calvino, “Il termine conte (invece di récit o nouvelle) sottolinea il richiamo alla narrativa orale, al meraviglioso e all’ingenuo, alla fiaba”. 
Credo che in principio questo racconto fosse una canzonetta, una tiritera che voltava e rivoltava nella testa di Flaubert, una cantilena che lo stordiva, lo svegliava, lo confondeva, lo portava a fare un giro al largo. Lo era in principio, e ogni tanto lo è anche adesso. Non saprei spiegare altrimenti la fortuna di un testo impossibile da tradurre e che mai nessuno è riuscito a ricreare.
 
Un coeur simple”, dice ancora Calvino, “è un racconto tutto di cose che si vedono, di frasi semplici e leggere in cui avviene sempre qualcosa: la luna sui prati di Normandia che illumina buoi sdraiati, due donne e due bambini che passano, un toro che esce dalla nebbia e carica a muso basso. Felicité che gli getta della terra negli occhi per permettere agli altri di saltare una siepe; oppure il porto di Honfleur con le gru che sollevano i cavalli per depositarli nei battelli, il nipote mozzo che Felicité riesce a vedere per un istante e che subito scompare nascosto da una vela; e sopratutto la piccola camera di Felicité gremita d’oggetti, ricordi della sua vita e della vita dei padroni, dove un’acquasantiera in noce di cocco fiancheggia un cubo di sapone azzurro, il tutto dominato dal famoso pappagallo impagliato, quasi un emblema di ciò che la vita non ha dato alla povera domestica. E’ attraverso gli stessi occhi di Felicité che noi vediamo tutte queste cose; la trasparenza delle frasi del racconto è il solo mezzo possibile per rappresentare la purezza e la nobiltà naturale nell’accettare il male il bene della vita”. 

Sento adesso il bisogno di voltare e rivoltare questo lavoro, di scorciarlo come una ruota di bicicletta. Gustave Flaubert ricreava canzoni, suonava l’arpa eolia e l’organetto di barberia. E poi prendeva appunti sul suo taccuino. Credo che la storia di Felicité sia un pretesto per riportare la natura in famiglia, forse anche una scusa per completare “l’epopea del filo d’erba”.

Il cerchio chiude la sua circonferenza con un altro scarabocchio di Calvino: “Sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nelle dimensioni d’un epigramma. Nei tempi sempre più congestionati che ci attendono, il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero”.
 

Piccola ala       Jimi Hendrix       Little wing  

passa tra le nuvole well she’s walking through the clouds
con un circo in testa with a circus mind that’s running wild
    
favole e zebre  butterflies and zebras
e lune e farfalle    and moonbeams and fairy tales
   
a questo pensa that’s all she ever thinks about
mentre gira nel vento riding with the wind
   
se sono triste when i’m sad
lei mi viene a cercare she comes to me
   
poi mi sorride with a thousand smiles
e mi porta lontano  she gives to me free
   
va tutto bene  it’s alright
adesso dice she says it’s alright
   
vola piccola ala take anything you want from me
vola via fly on little wing

 

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 volta rivolta e torna a rivoltare  
  

 

Anche se già ai tempi dell’antica Grecia si usavano blocchi di pietra per consentire l’appoggio dei piedi, i blocchi di partenza sono un’invenzione recente: furono introdotti in atletica nel 1927 da George Bresnahan e William Tuttle, rispettivamente assistente di Educazione fisica e docente di fisiologia all’Università dello Iowa.

George Simpson, il 9 giugno 1929, fu il primo atleta a farne uso duranti i campionati NCAA; solo 10 anni dopo la commissione tecnica della IAAF autorizzò l’uso dei blocchi, dando via ad una vera rivoluzione delle tecniche di scatto e partenza nelle gare di atletica leggera. Prima di allora gli atleti sistemavano i piedi in due buchette da loro stessi scavate nella terra battuta o partivano in piedi.  


La poesia non sopporta nessun firmatario. Una volta prodotta, l’opera vive un’esistenza propria e nessun autore dovrebbe attribuirsi quello che ha scritto. Non credo ci siano rapporti diretti, e ancor meno di possesso, tra il poema e il poeta. Lo scritto può portare il suo nome, ma resta essenzialmente senza nome. Prima dell’opera lo scrittore non esiste ancora, dopo non esiste più. 
  

      

qui è sepolto un fulmine

 

Quando gareggiavo alla Columbia, ho corso un paio di gare davvero bellissime. Durante la seconda, sapevo che avrei vinto anche se non avevo nessuna buona ragione per crederlo, dato che, quando mi passarono il testimone, il corridore che guidava la gara era trenta iarde davanti a me. Ma io lo sapevo che avrei vinto, ed è stata la mia “esperienza culmine”. Nessuno poteva battermi quel giorno. Essere in piena forma e averne perfetta coscienza. Credo di non essere mai stato così capace nel mio lavoro come quando corsi quelle due gare: fu l’esperienza di essere al mio meglio e di fare un ottimo lavoro.
Joseph Campbell

 

   

Il a toujours avec lui son crayon d’or, son petit cahier.



AUM” è una sillaba che alle nostre orecchie rappresenta quel suono dell’energia dell’universo di cui tutte le cose sono manifestazioni. Parti in fondo alla bocca con “ahh”, poi, con “uu” ti riempi la bocca e con “mm” la chiudi. Se la pronunci in modo adeguato, tutti i suoni delle vocali vengono inclusi nella pronuncia AUM. Le consonanti vengono considerate come semplici interruzioni del suono delle vocali. Così tutte le parole sono frammenti di AUM, proprio come tutte le immagini sono frammenti della Forma delle Forme. AUM è un suono simbolico che ti mette in contatto con quell’essere risonante che è l’universo.  
 

Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.
Italo Calvino

Il mondo non è più, bisogna che ti sostenga.
Paul Celan

Consumato tutto il carbone; vuoto il secchio; inutile la pala; la stufa che respira aria gelida; la stanza gonfia di gelo; davanti alla finestra, gli alberi rigidi nella brina; il cielo, uno scudo d’argento contro chi cerca da lui un aiuto. Devo procurarmi del carbone; non posso certo morire congelato; dietro di me la stufa impietosa, impietoso il cielo davanti a me; perciò devo andare al trotto in mezzo a loro, e nel frattempo, cercare aiuto dal carbonaio. Questi però è ormai indurito contro le mie solite preghiere; devo dimostrargli con chiarezza che non ho più neppure la più piccola particella di carbone, e che dunque lui rappresenta per me il sole nel firmamento. Devo arrivare come il mendicante intenzionato a morire sulla soglia rantolando di fame, e al quale perciò la cuoca si decide a lasciare i fondi dell’ultimo caffè; similmente il carbonaio, pur schiumante di rabbia, ma sotto il raggio del comandamento "Non uccidere!", dovrà scaraventarmi nel  secchio un’intera badilata.
Già il mio decollo sarà decisivo; e dunque mi metto a cavalcare sul secchio. Da cavaliere del secchio, la mano in alto sull’impugnatura, che è la briglia più semplice, scendo con difficoltà le curve della scala; quando però sono giù, il mio secchio allora sale splendido, splendido; i cammelli sdraiati bassi per terra, quando il bastone del padrone li incita, non si sollevano con maggiore eleganza. Trottando a velocità adeguata percorro le strade congelate; spesso mi sollevo fino all’altezza del primo piano; non scendo mai fino alle porte d’ingresso. E a straordinaria altezza mi libro sulle arcate della cantina del carbonaio, dove questi sta rannicchiato laggiù al suo tavolino scrivendo; per lasciar defluire l’eccessivo calore ha aperto la porta.

"Carbonaio!" grido con voce arsa e arrochita dal freddo, avvolto dalle nuvole di vapore del mio respiro, "per favore carbonaio, dammi un po’ di carbone. Il mio secchio ormai è tanto vuoto che ci posso cavalcare sopra. Sii buono. Appena posso te lo pago." 

Il carbonaio mette la mano all’orecchio. "Ho sentito bene?" chiede da sopra la spalla a sua moglie, che lavora a maglia vicino alla stufa, "ho sentito bene? Ci sono clienti." 
"Io non sento proprio niente", dice la donna, respirando tranquilla sopra i ferri, piacevolmente riscaldata sulla schiena. 
"Oh sì", grido io, "sono un cliente, un vecchio cliente, un cliente fedele, solamente, per il momento impossibilitato a pagare".

 Moglie", dice il carbonaio, "è così, c’è proprio qualcuno; non posso ingannarmi fino a questo punto; dev’essere un vecchio, un vecchissimo cliente se sa toccarmi così profondamente il cuore”.  
"Che ti prende, marito?" chiede la donna, e riposandosi un attimo preme sul petto il suo lavoro a maglia, "non c’è proprio nessuno; il vicolo è vuoto; tutti i nostri clienti sono stati riforniti; potremmo anche chiudere il negozio per giorni interi e riposarci."
"Ma io sono qui, seduto sul secchio" grido, e lacrime insensibili di freddo mi velano lo sguardo, "per favore, guardate in su; mi troverete subito; vi prego, datemi una palata di carbone; e se me ne darete due, mi farete felice oltre misura. In fondo, tutti gli altri clienti sono riforniti. Ah, se lo sentissi già risuonare nel secchio!"

"Vengo", dice il carbonaio e con le sue gambe corte vorrebbe già salire le scale della cantina, ma la moglie gli è già vicina, lo ferma prendendogli il braccio e dice: "Resta qui. Se non la finisci con questa idea, salirò io stessa. Ricordati che tosse hai avuto stanotte. Per un affare, e per di più immaginario, dimentichi moglie e figli e metti in pericolo i tuoi polmoni. Vado io." "Allora però digli tutti i tipi di carbone che abbiamo in magazzino; io da sotto ti dirò i prezzi." "Va bene", dice la moglie, e sale nel vicolo. Naturalmente mi vede subito. 

"Signora carbonaia", grido, "i miei saluti più devoti; solo una palata di carbone; subito qui nel secchio; me la porto a casa da solo; una palata del peggiore. Naturalmente la pago a prezzo intero, non subito però, non subito." Che suono di campane, nelle due parole "non subito", e come disorienta il loro mescolarsi con le campane serali che proprio ora cominciano a suonare dal vicino campanile. 
"Allora, cosa vuole?" grida il carbonaio. "Niente", gli risponde la moglie, "non c’è nessuno; non vedo nessuno, non sento nessuno; solo hanno suonato le sei e noi chiudiamo il negozio. Il freddo è terribile; c’è da prevedere che domani avremo molto lavoro." 
Non vede niente e non sente niente; però scioglie il grembiule e agitandolo cerca di soffiarmi via. Purtroppo ci riesce. Il mio secchio ha tutti i vantaggi di qualsiasi buon animale da cavalcare; ma non ha capacità di resistenza; è troppo leggero; basta il grembiule di una donna per cacciarlo a gambe levate.
"Cattiva!" le grido dietro, mentre lei, voltandosi verso il negozio, agita la mano in aria un po’ sprezzante, un po’ soddisfatta di se stessa, "cattiva! Ti ho chiesto una palata di carbone del peggiore e tu non me l’hai data." E dicendo così salgo nelle regioni delle montagne di ghiaccio e mi perdo per non tornare mai più.
Franz Kafka
 


Partecipare volontariamente e gioiosamente ai dolori del mondo non significa solo fare esperienza del dolore in prima persona, ma anche partecipare con compassione ai dolori degli altri. La compassione equivale al risveglio del cuore dalla bestialità dell’egoismo all’interesse per l’umanità. “Compassione” significa letteralmente “patire con”.  

  universo

 
Dice Ken Kesey: “E’ facile cominciare a indicare i problemi quando i problemi sono sotto gli occhi di tutti. Chiunque sa trovare cacca di cane in un parco. Ma sai trovare un giglio che cresce da questa merda? Quello è il vero obiettivo: trovare una strada attraverso la merda di cane, farla sbocciare”. Ma noi sappiamo già che c’è e non abbiamo proprio bisogno che qualcuno ce lo dica. Tutte le ideologie, le religioni, le politiche, vogliono convincerti del loro mondo. La sensibilità psichedelica vuole convincerti del tuo mondo, della possibilità di dar vita a infiniti mondi singolari. Qual’è lo stile di vita psichedelico?  L’ha detto Tom  Robbins: “Stanchi di aspettare che il mondo migliori, vivere come se quel  giorno fosse già qui”.

Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuti come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito.
Italo Calvino

 

 Apparaitre le moins possible, non pas pour exalter mes livres, mais pour éviter la présence d’un auteur qui prétendrait à une existence propre.
Maurice Blanchot

 

Quello che non ti aspetti, dove non ti aspetti.

 

Non occorre che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettare nemmeno, sii assoluto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per farsi smascherare, non può fare altrimenti. Dinanzi a te si rotolerà estatico.
Franz Kafka  
 


 

Sento la mandorla nel guscio, l’acqua nella terra, il fuoco nel ciottolo.
Joseph Joubert

 

 

Perché ha scritto questo?

Non ho potuto fare diversamente.

Perché questa necessità di scrivere non produce mai nulla che non appaia superfluo, vano e sempre di troppo?

Anche la necessità era già di troppo: nell’obbligo di “non posso fare diversamente” c’è il sentimento, ancor più impellente, che quest’obbligo non ha in sé la propria giustificazione.
Maurice Blanchot  

             

 

se non fosse per te
io non troverei la porta

non troverei neanche la finestra

sarei solo e triste
se non fosse per te

se non fosse per te
io non avrei mai sonno

aspetterei la luce del giorno

e niente più cambierebbe
se non fosse per te

 se non fosse per te
il cielo cadrebbe sulla terra

la nuvola non darebbe pioggia

e io non potrei farci niente
se non fosse per te

 se non fosse per te
e tu lo sai che è vero

io non sarei proprio nessuno

sarei perduto senza il tuo amore
se non fosse per te

 se non fosse per te
la primavera tornerebbe inverno

io non sentirei cantare il grillo

e non sarebbe più vero niente
se non fosse per te

Bob Dylan

 

 

 

 

Un mendicante che prepara una supplica diversa per ogni passante.

 

 Sto di casa nel verso, che va e va.
Paul Celan

 

Sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nelle dimensioni d’un epigramma. Nei tempi sempre più congestionati che ci attendono, il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero.
Italo Calvino

 

 Mantenere la natura in famiglia. Fare, come diceva Flaubert, “l’epopea del filo d’erba”.  

 


Loris Pattuelli

 

 

 

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