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Alfonsine

| Alfonsine | Ricerche sull'anima di Alfonsine |

Fu uno dei primi e principali eccidi di partigiani nella Bassa Romagna, 
ad opera di Brigate Nere e tedeschi

‘Zanchetta’  e 'Palazzone'

"Il 23 aprile 1944 è la data l’eccidio della ‘Zanchetta’ (2 partigiani e un prigioniero slavo disertore) e del Palazzone (8 partigiani) "

a cura di Luciano Lucci 

Accadde all'alba del 23 aprile 1944 intorno ad alcune case coloniche, usate all'epoca come basi partigiane, nella campagna tra Fusignano e Alfonsine. La zona era nota come fondo 'San Tommaso', o podere “Palazzone”, e “Podere Zanchetta”.

Le case coinvolte furono quella dove abitava la famiglia Lanconelli, poi la casa dove abitavano i Baratoni, il capofamiglia con la compagna Ave Fini e il figlio di due anni Alfredo, e infine “Casa Zalambani", allora detta anche 'Il Palazzone'

Quell'ambiente coltivato “a larga” compreso tra il Canale di Fusignano e lo Scolo Arginello appariva infatti un luogo sicuro ove far riparare i primi nuclei di partigiani che di notte attentavano alle colonne di automezzi tedeschi in transito sulla Statale 16 Adriatica.

Nonostante le difficoltà iniziali, nella primavera del 1944 le azioni partigiane aumentarono considerevolmente. Grande successo venne riscosso dalle giornate Gap, ideate dai partigiani anche «per collaudare la volontà popolare: in quel giorno tutti coloro che erano legati all’organizzazione […] dovevano passare all’azione». 

Nell’aprile del 1944 si registrò un inasprimento dello scontro da parte di tutti i contendenti. Le disposizioni partigiane parlavano di «sterminio» dei fascisti, ma già a fine mese si comprese la necessità di regolamentare gli attacchi a questi ultimi perché «ognuno che uccida si senta un giustiziere e non un assassino». Secondo tale prospettiva, i fascisti di grado minore, prima di essere assaliti, dovevano essere “giudicati” dal comitato provinciale di Liberazione o dai tribunali partigiani per atti quali lo spionaggio, l’accaparramento e per le violenze e i crimini commessi contro antifascisti e civili.

Durante alcune iniziative precedenti organizzate in quelle prime “giornate Gap” - momenti simultanei di sabotaggio promossi in ambito provinciale per intimidire gli occupanti tedeschi – i gappisti finirono per essere notati dai fascisti locali, che individuarono in quella zona tra Alfonsine e Fusignano le case di latitanza usate dai partigiani.  

Una persona dall’interno della Questura di Ravenna fece sapere, il sabato 22, che la mattina dopo ci sarebbe stato un rastrellamento da parte dei fascisti nella zona tra Fusignano e Alfonsine. Così i partigiani decisero, dopo una riunione segreta tenuta presso una famiglia di via Nuova, di trasferirsi in case più sicure, senza dire quali.

Revel (il responsabile di zona del CLN) mandò quindi la segnalazione che l’indomani ci sarebbe stato un rastrellamento nella “Zona de’ Palazôñ”. 

I partigiani Antonio Montanari, Aurelio Tarroni, Alfredo Ballotta, per maggior precauzione, avevano prelevato dei disertori russi (nove), già scappati dai tedeschi, e prima nascosti a "Casa Lanconelli", li avevano trasferiti in località Passetto, oltre la strada Reale, e sistemati in un rifugio.

Poi, gli stessi, erano tornati indietro, avevano riposto le armi in un posto sicuro ed erano andati a dormire nella stalla di "Casa Lanconelli", che consideravano fuori dalla zona pericolosa, dove si trovava anche un prigioniero slavo Repar Janez, di cui non sapevano, e altra gente sfollata.

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Oggi lì è rimasto il cippo ai caduti

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Casa Lanconelli

 

 

La mappa del percorso dal podere Palazzone al podere Zanchetta

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Il capo della provincia di Ravenna, il dottor Franco Bogazzi, dispose un’operazione di polizia nella zona compresa tra i comuni di Fusignano e Alfonsine. Ordinò che carabinieri, guardie repubblicane, alpini e soldati tedeschi, ai comandi del tenente colonnello Ansalone Ferdinando, comandante il gruppo dei carabinieri, e di un ufficiale tedesco, si recassero ad eseguire un rastrellamento in quella zona poiché vi era stata segnalata la presenza di partigiani, renitenti di leva e disertori. 

La delazione aveva anche delimitato la località: Palazzone e Zanchetta. 

Il questore Neri Arturo inviò anche un nucleo di agenti di pubblica sicurezza. Dopodiché, insieme al maresciallo Di Russo Stefano, si recò a Fusignano a bordo di una Fiat 1100.

Non vi presero parte gli agenti di pubblica sicurezza perché arrivarono in ritardo. Ad eseguirlo, sotto il comando dell’ufficiale tedesco dipendente dall’"ArmeeAbteilung von Zangen", furono dieci militari tedeschi, numerosi militi della GNR e alpini portati sul posto con autocorriere e autocarri. 

Ridolfi Giulio era l’autista di uno degli autocarri e come gli altri si recò presso i vari presidi della GNR per caricare alcuni militi. Questi furono tutti raccolti a Lugo e da qui avviati a Fusignano per eseguire il rastrellamento. 

Calderoni Giuseppe faceva parte di un gruppo di militi giovani, al comando di un caporale. Questa squadra non partecipò al rastrellamento ma si fermò alle prime case del paese mentre l’azione contro i partigiani fu condotta da tedeschi, militi anziani ed alpini. I giovani furono fatti avvicinare a rastrellamento finito. 

Ulisse Ballotta, era a circa 500 metri dalla casa dove era nascosto un gruppo di partigiani, tra i quali il fratello Alfredo, quando vide una colonna di macchine che trasportavano militari tedeschi e fascisti.  Si nascose in un fosso. 

(fonte http://www.straginazifasciste.it/)

Era ormai l'alba del 23 aprile: una corriera blu, di quelle da trasporto civili, seguita da due camion arrivò per la strada d’argine del canale di Fusignano.

La corriera e il primo camion, con i tedeschi e un cannoncino da campo, fecero un largo giro, il secondo s’infilò deciso per una carraia che portava alla Zanchetta, alle vicine case 'Baratoni' e 'Lanconelli', case agricole con stalla che restavano sotto il comune di Alfonsine, seppur al limite.  

Le brigate nere irruppero nella stalla di casa Lanconelli

 Alfredo Ballotta scappò ma fu ucciso nella campagna, Tarroni fu ferito a una spalla, tutti gli altri furono tratti come prigionieri e legati nel cortile. Tarroni, arrestato con alcuni documenti compromettenti indosso. Secondo la testimonianza di Antonio Montanari che era con lui e che si salvò miracolosamente, venne sottoposto a tortura: gli bruciano i piedi e lo calarono su e giù nel pozzo con una corda, volevano informazioni sul movimento partigiano. Passò il tempo ma inutilmente perché Tarroni non parlava, allora presero tutti gli uomini e partirono per il Palazzone, dove certamente la corriera e l’altro camion erano già arrivati. 

Montanari Antonio e i Lanconelli furono tradotti alle carceri di Lugo.

Al 'Palazzone' (casa Zalambani) i partigiani e coloni, assediati e minacciati dal fuoco appiccato ai fienili, si difesero con le poche armi leggere per diverse ore.

Casa "Baratoni", 
col pozzo e la grata dove fu torturato Aurelio Tarroni

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La casa dei Baratoni  
(foto Fanti del 1982)

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La casa dove abitava la famiglia Baratoni 
(fot. del 2000)

 

Da   un racconto di Sante Vecchi, e di Clemer Zalambani, figlia di Ettore 
pubblicata su "Il Palazzone" 1995 Grafiche Morandi di Fusignano.

"Non è ben chiaro quanta resistenza opposero i partigiani anche perché l'allarme dato dal garzone giunse praticamente assieme ai fascisti stessi. Due partigiani ' forzarono il cerchio dei fascisti: questi erano Severino Faccani e Giovanni Ferri che vennero colpiti dai fascisti e catturati vicino all'Arginello: furono sommariamente medicati e riportati alla casa. Altri due, Giuseppe Ballardini e Bruno Fiorentini cercarono di salvarsi andando in cantina, ma da un simile numero di aggressori (più di cento) non era possibile difendersi. Cercarono allora scampo dietro le botti. I fascisti che nel frattempo avevano preso possesso della casa. I due compagni dovettero uscire da quelle botti ("i butò) perché semi-soffocati dalle esalazioni dell'acido usato per fare il solfato di rame. Furono poi visti a causa delle scarpe che spuntavano da sotto le botti'. Furono quindi catturati e portati all'esterno della casa. 

Giovanni Faccani, aveva dormito la notte stessa nel fieno della cascina.  Quando fu incendiato, anche lui bruciò assieme ad esso: in un primo momento, dato che non si riusciva a trovare il corpo, si era pensato fosse riuscito a salvarsi. 

Giulio Argelli invece aveva dormito nella cascina e cercò di fuggire buttandosi da essa, ma fu colpito dalla mitragliatrice seduta stante. 

Francesco Martelli fu anch'egli preso e messo in fila assieme agli altri.

Ettore Zalambani invece, essendo il padrone della casa, fu portato a Ravenna per chiarimenti assieme alla moglie e al garzone Mario Torricelli. In un primo momento anche quest'ultimo era stato messo in fila con gli altri per essere fucilato, ma riuscì a salvarsi sostenendo che non c'entrava niente essendo solo il garzone. Fu così tolto dalla fila e caricato sul camion assieme a Zalambani e a sua moglie.

I fascisti che venivano con il camion dalla zona del podere detto "Zanchetta", erano stati anch'essi protagonisti di una vile azione, in seguito alla quale avevano fucilato e martoriato Alfredo Ballotta e Aurelio Tarroni. A Tarroni, prima di morire, vennero anche bruciati i piedi."
(ndr - c'è un'imprecisione nella testimonianza in quanto risulta che il Ballotta fu colpito a morte subito e che il Tarroni, dopo la tortura ancora vivo, se pur agonizzante sul camion, fu portato a Ravenna e qui fucilato)

 

Ettore Zalambani, il capofamiglia della cascina del Palazzone, mezzadro. 

Fu portato a Ravenna e fucilato. 

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UN DOCUMENTO datato 22/4/44 in cui si relaziona dello scontro al Palazzone iniziato il 22 notte e terminato alle 10 del mattino dopo.

(Istituto Storico della Resistenza di Ravenna

Fondo 28° Brigata Garibaldi
busta LXXXI
fasciscolo d foglio 3)

 

 

 

UN DOCUMENTO DELLA QUESTURA DI RAVENNA

(fonte http://www.straginazifasciste.it/)
Così la questura di Ravenna ricostruisce le dinamiche del  rastrellamento in una relazione stilata il medesimo giorno:


"Stamane in località Palazzone del comune di Fusignano è stata eseguita azione di polizia con il concorso di alcuni militari germanici per catturare gruppi di partigiani e comunisti della brigata Garibaldi che dopo le azioni di rastrellamento svoltesi nelle limitrofe province si erano infiltrati in questa. In seguito ad azione di fuoco tre partigiani sono stati uccisi in conflitto e due feriti e catturati unitamente ad altri due arresisi incolumi. Questi ultimi quattro insieme al colono che li aveva favoriti sono stati passati per le armi sul posto."
(ndr. il colono Zalambani fu portato a Ravenna con Tarroni e lo slavo Repar e lì presso il cimitero tutti e tre vennero fucilati).

 "Contemporaneamente veniva eseguita un’altra azione in località Fiumazzo del comune di Alfonsine dove venivano ucciso in un conflitto un comunista ed altro ferito, non ché [sic] catturato certo Repar Giovanni (ndr. Janez) nato a Stugenez (Lubiana) fuggito da un campo di concentramento della provincia di Arezzo, senza alcuna perdita da parte delle forze operanti. Tanto il ferito che lo slavo Repar venivano passati per le armi"

 

UN DOCUMENTO CHE TESTIMONIA DI UNA DELAZIONE

 

Una lettera anonima, scritta a mano, è spedita, “in un giorno senza data”, al «signor segretario del fascio di Alfonsine»:

 «Vengo a vertirlo [sic] che un certo Balotta che sta dietro al corso Garibaldi vicino al Teatro del corso: quello a la lista dei fascisti che devono uccidere, e [sic] lui che spicca le bolette [sic] di morte quel vigliacco tutti i suoi fratelli sono vigliacchi comunisti anche il padre e la madre brutta razza. Le dirò anche due giovani comunisti, che sono quelli che vanno lontano ad uccidere i fascisti, che stanno di casa sul crocivia via Borse e Stropata, dove fa angolo la via per andare a Lugo, lì ce ne sono due si chiama per sopra nome Squarzena e quell’altro è suo Cognato [sic]; 

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mi raccomando di accifarli presto, e fare Caput tutti e tre il Balotta sparatigli [sic] quando affissa [sic] i manifesti al muro, è quel biondo, che è sempre i[sic] piazza, il suo mestiere è quello di afissare i manifesti al muro, le darò più avanti disciarimenti [sic] sopra ad altri comunisti, povero Dradi  e povero Vassura, vendicateli fino che siete in tempo. La saluto tanto. Evviva il fascio Repubblicano». 

(ndr. si riferisce a Dradi Fedele  accusato come spia per i fatti del Palazzone ucciso a mitragliate davanti a casa, estate ‘44) e Vassura Sante fu ucciso tra via Valeria e Fiumazzo, nell'autunno ’44, mentre tornava dal suo piccolo podere,  (aveva qualche ettaro di terra al Taglio). Era fascista e si dice coinvolto come spia per i fatti del Palazzone)

Archivio Ist.St.Resistenza Provincia di Ravenna

PNF 
Repubblica Sociale Italiana 
Documenti lettera anonima

Un documento che testimonia della condanna di sante vassura decretata  dal distaccamento gap di alfonsine e di un'esecuzione attuata da un gruppo gap del settore n° 1

IL BILANCIO TOTALE DELLA TRAGEDIA

Alla 'Zanchetta':

Uno rimase colpito a morte da una raffica mentre fuggiva tra i campi

1- Alfredo Ballotta 
di anni 37, nato il 9/10/1907

 

In tre furono fatti prigionieri 
(due furono giustiziati)

1- Aurelio Tarroni, di anni 36 nato il 10/3/1907, ferito, fatto prigioniero e torturato, poi portato a Ravenna e qui ucciso con un colpo di pistola alla testa presso le mura esterne del cimitero, insieme a Janez Repar e Ettore Zalambani

2- Janez Repar, nato a Lubiana, portato a Ravenna e qui ucciso con un colpo di pistola alla testa presso le mura esterne del cimitero, insieme a Aurelio Tarroni e Ettore Zalambani.

3- Baratoni era nella sua casa con la famiglia la compagna Ave Fini e il figlioletto di due anni Alfredo e Antonio Montanari,  detto  e' Gag, sposato con Emaldi Santa "La Sintina" , era con Ballotta e Tarroni, nella casa dei Lanconelli. Portati poi entrambi a Lugo si salvarono la vita: il Montanari giustificando la sua presenza in quella casa con il fatto che, lavorando nell'azienda e avendo fatto tardi la sera precedente, aveva preferito rimanervi a dormire,
mentre Baratoni fu 'risparmiato' su intervento del segretario repubblichino di Fusignano, che lo conosceva.

Al 'Palazzone'

In due rimasero subito uccisi nell'irruzione a casa Zalambani

 

1- Argelli Giulio
di 20 anni, nato il 13/08/1923 a Fusignano, bracciante, risulta partigiano volontario nella 28ª Brigata Garibaldi dal 15/11/1943 al 01/03/1944.

 

2- Giovanni Faccani, fratello di Severino Faccani, di anni 30, che aveva dormito la notte stessa dentro il pagliaio, che fu incendiato dai nazi-fascisti e lì morì. 

 

In tre furono fatti prigionieri e portati prima a Lugo poi a Ravenna per chiarimenti 
(uno fu giustiziato)

1- Ettore Zalambani 
fu giustiziato con un colpo di pistola alla testa presso le mura esterne del cimitero a Ravenna, insieme a Janez Repar e ad Aurelio Tarroni.

2- La moglie di Ettore Zalambani, 
se la cavò con 15 giorni di prigionia

3- Mario Torricelli,  
il garzone che pur essendo stato messo in fila al Palazzone per essere fucilato con gli altri cinque, riuscì a salvarsi sostenendo che non c'entrava niente essendo solo il garzone, e così anche trasferito a Ravenna se la cavò con 15 giorni di prigionia

 

In cinque furono messi al muro e fucilati

 

 

1 - Severino Faccani,  di 32 anni, nato il 02/11/1907 a Fusignano, autista, risulta partigiano volontario nella 28ª Brigata Garibaldi dal 10/09/1943 al 23/04/1944. 

2 - Giovanni Ferri, 
di 53 anni, nato il 30/04/1891 a Fusignano, bracciante, risulta partigiano volontario nella 28ª Brigata Garibaldi dal 02/11/1943 al 23/04/1944.

3 - Giuseppe Ballardini 
di 20 anni, 10 maggio 1924 a Fusignano, mugnaio, risulta partigiano volontario nella 28ª Brigata Garibaldi dal 02/11/1943 al 23/04/1944

4 - Bruno Fiorentini,
di 19 anni, nato l'11/07/1923 ad Alfonsine, risulta partigiano volontario nella 28ª Brigata Garibaldi dal 01/10/1943 al 23/04/1944.

5 - Francesco Martelli,
di 21 anni, nato il 28/08/1922 a Fusignano, operaio, risulta partigiano volontario nella 28ª Brigata Garibaldi dal 17/11/1943 al 23/04/1944.

Dopo l'eccidio, che in tutto costò 11 vittime fra i resistenti, le due fattorie coinvolte furono saccheggiate di ogni bene e date alle fiamme dai fascisti, insieme alle stalle ed a tutte le vigne del campo, gli animali della stalla venduti, e la famiglia Zalambani messa in miseria. 
La strage impressionò considerevolmente non solo la popolazione ma anche l’organizzazione partigiana. Bulow non riusciva a spiegarsi come fosse potuto accadere. Tutti erano infatti stati avvertiti del rastrellamento. 

La spia

Iniziarono immediatamente le ricerche per individuare la spia che aveva fatto la delazione. 

Il 7 ottobre 1944:
 

(cliccare o toccare sull'immagine per averla ingrandita)

 
«dopo sette mesi di indagini si è venuti ufficialmente a conoscenza che il Marconi Francesco det urtlanaz abitante in Palazzone (Fusignano) è complice del crimine avvenuto il 23/04/44 nel Palazzone a carico di nostri sette gappisti.  

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Fondo 28° Brigata Garibaldi busta XXXVIII fascicolo l Foglio 5


I gappisti di Fusignano si recano alla casa della nota spia, la conducono sul luogo ove è avvenuto il crimine. I membri del tribunale del distaccamento Gap S. Babini hanno processato il Marconi dopo aver interrogato a lungo il suddetto ed aver strappato a questo informazioni importantissime tramite il tribunale condanna il Marconi alla pena capitale. La sentenza di morte è stata immediatamente eseguita".

La persona indicata come delatore sembra sia stata una pedina usata, magari a sua insaputa, in tutto quel contesto, anche se  certamente aveva conoscenza del luogo e della gente che vi abitava.  Non c'è la documentazione in base alla quale sarebbe stato considerato colpevole. Passata la guerra, dopo diversi anni i figli del Marconi hanno tenuto a informare l'Istituto Storico della Resistenza che il loro padre era un dandy, che "frequentava" mogli di vari gerarchi fascisti, e che potrebbe inavvertitamente essersi lasciato sfuggire, senza rendersene conto, qualche informazione sui partigiani del Palazzone.
L'aspetto più interessante che scaturisce da tutto questo è che c'è una documentazione scritta di una 'condanna a morte' fatta da un tribunale partigiano. Solo per il caso di Vassura Sante di Alfonsine si è trovata un'analoga documentazione. Non per altri analoghi casi. 

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(cliccare o toccare sull'immagine per averla ingrandita)

Fondo 28° Brigata Garibaldi busta XXXVIII fascicolo l Foglio 5

 

Il "Palazzone" e la "Zanchetta": 

due zone segnate da una tragica vocazione alla scomparsa.

 

Foto aerea zona Podere "Il Palazzone", anni '30-40

1- Qui c'era il vecchio Palazzone, casa di caccia su tre piani appartenuta ai Marchesi Calcagnini, poi acquisita, con tutte le terre e le valli contigue dal parroco di Bizzuno, Don Andrea Filippi (1735), e poi della famiglia Giugni. Diede il nome a tutto il podere circostante detto così "il podere Palazzone". 

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Particolare di una mappa del 1735 dove si vede disegnato il 'Palazzone', e il nome "Sig. D: Andrea Filippi

Oggi (2017) esiste solo un piccolo capannone, residuo di un ex-cascinale.

2 - Attualmente (2017) Centro Aziendale Cooperativa "S. Anna", denominato anche lui comunemente "Il Palazzone". Nella foto anni '30-40 era sede dei proprietari del podere "Pratolungo, cioè della famiglia Vicchi, poi della Coop Braccianti di Fusignano, poi venduta da questa ai coniugi Duranti-Longanesi. Fu riacquistata nel 1945 dalla nuova CAB di Fusignano

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3 - In questo punto della mappa c'era Casa Zalambani 
     (Ettore Zalambani era il mezzadro che lavorava il podere nel 1944). 

Qui avvenne l'eccidio di 7 partigiani.

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Nella zona detta 'Zanchetta' 
c'erano "Ca' Baratoni" e 
"Ca' Lanconelli"

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La casa 'd'Baratò' col pozzo e la grata dove fu torturato Aurelio Tarroni oggi anno 2022, non c'è più

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Casa Baratoni,  zona Zanchetta anno 2010

Casa Baratoni anno 2015

 

Casa Lanconelli, zona podere 'Zanchetta'

 

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Ma la memoria resiste

 

 

 

 

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Aprile 2017. La signora nella foto è la figlia di Lanconelli, davanti alla casa Lanconelli. All'epoca dei fatti aveva 2 anni.

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Gli imputati processati

e le varie condanne, assoluzioni e amnistie nei vari gradi di giudizio

(fonte: Camicie nere di Ravenna e Romagna tra oblio e castigo) e http://www.straginazifasciste.it/

Andreotti Walter
di Plinio e di Bolognese Ersilia, nato nel 1924 a Migliarino, (Latitante)

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui il  rastrellamento a Palazzone, e l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone, ritenuto colpevole di tutti i reati venne condannato a 30 anni di reclusione, e alla confisca di un quarto dei beni. Secondo la dichiarazione di uno dei partecipanti, il Pirazzoli Guido, l'Andreotti sparò con soddisfazione alla testa dei moribondi e degli uccisi, e prese parte agli incendi e alle rapine (conferme dal teste Cattani Carlo).

Bondoli Bruno
di Secondo e di Benaglia Giulia, nato a Ravenna nel 1925, detenuto dal 23 maggio del 1945

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini come il rastrellamento nella Pineta di Cervia (uccisi due partigiani), a quello di Rocca S, Casciano, dove avrebbe ucciso un vecchio non identificato, ad uno in Bologna (come da lui confessato al camerata Foschi Giuseppe), poi il  rastrellamento a Palazzone, e l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone, accusato di aver fatto parte del plotone di esecuzione, composto da militi fascisti e da tedeschi e comandati da un ufficiale germanico. ritenuto colpevole solo di collaborazione, fu condannato a 20 anni, la confisca di un quarto dei beni dei condannati. 
Declaratoria 17.7.46 reato estinto per amnistia

Benedetti Attilio, capitano faentino della milizia.
di Giuseppe e di Manzini Giulia, nato a Modena nel 1907 residente a Faenza, (Latitante)

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui il  rastrellamento a Palazzone, e l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone, chiamato in causa dal Pirazzoli Guido, il quale testimoniò che dava ordini e disposizioni, ritenuto colpevole solo di collaborazione fu condannato a 15 anni, la confisca di un quarto dei beni dei condannati. In data 29.4.47 la Corte di Cassazione annulla senza rinvio per non avere l’imputato commesso il fatto. Ordina la scarcerazione se non detenuto per altra causa.

Gatti Edilio
Gatti Edilio, di Mario e di Costantini Solidea, nato a Brindisi nel 1924, residente a Ravenna, latitante, deceduto.

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui il  rastrellamento a Palazzone, e l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone, latitante, la corte ordina sospensione del processo per gli opportuni accertamenti in ordine al suo decesso, annunciato dal Pubblico Ministero. Non risulta nell'album dei caduti della Repubblica Sociale, quindi non sarebbe stato ucciso.

Nanni Guido
di Domenico e di Paci Santa, nato a Ravenna nel 1925, detenuto dal 22 giugno 1945

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui il  rastrellamento a Palazzone, e l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone, negò la presenza all'evento. A suo favore parlò Stefania Nanni (consanguinea), che costruì l'alibi di Guido, incolpando della partecipazione al rastrellamento il fratello Gaetano, successivamente ucciso. Guido Nanni risulterà estraneo ai fatti, e assolto per non aver commesso il fatto 

Nanni Gaetano
(ucciso)

è  citato nella sentenza del 14/05/1946, dove fu accusato dalla Stefania Nanni che scagionando suo fratello Guido Nanni, incolpava lui della presenza al Palazzone.
Era comunque già stato ucciso (da chi?)

Pirazzoli Guido
di Umberto e fu Bezzi Castellini Iole, nato a Ravenna nel 1927, detenuto dal 23 maggio 1945

 Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui il  rastrellamento a Palazzone, e l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone, accusato di aver fatto parte del plotone di esecuzione, composto da militi fascisti e da tedeschi e comandati da un ufficiale germanico, ammisee la partecipazione, ma tenuto conto dell'età minorile (all'epoca dei fatti aveva 17 anni), e delle attenuanti generiche fu condannato a 8 anni, la confisca di un quarto dei beni dei condannati. 
Nel 1962 da Bologna arriverà  anche la riabilitazione,  con sentenza 18.5.62 della corte d’appello di Bologna. 

Ricci Silvio
fu Fedele e fu Cassani Giacoma, nato a Fusignano nel 1894, detenuto dall'8 giungo 1945.

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui il  rastrellamento a Palazzone, e l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone, negò la presenza all'evento. Fu condannato a 20 anni, la confisca di un quarto dei beni. Declaratoria 17.7.46 reato estinto per amnistia

Bartolomeolli Ezio
fu Gioacchino e fu Tommasi Beatrice, di Fusignano, classe 1899. (Latitante)

Accusato (in contumacia) di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui il  rastrellamento a Palazzone, e l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone, ritenuto colpevole solo di collaborazione fu condannato a 15 anni, la confisca di un quarto dei beni dei condannati. 
Il 17.7.46 ottenne la declaratoria per amnistia

Calderoni Giuseppe
classe 1924 di Ravenna

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui l'aver partecipato al  rastrellamento a Palazzone,  e l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone. Giudicato colpevole, viene condannato a 18 anni di reclusione con sentenza del 10/07/45 n. 7. 
Si era arruolato volontario da poco più di un mese, dopo essere fuggito dalla caserma di Vercelli. “Per non andare in Germania” disse. Rimase in Italia, a Mezzano, Bassano del Grappa, S. Venanzio di Galliera (sotto i tedeschi), a Savigno di Bologna, a Modena e di nuovo a Bassano e a Trento fino al maggio 1945. Luoghi dove non mancarono pesanti rastrellamenti condotti dai nazisti. Calderoni dovette rispondere solo di quello del Palazzone. Disse che era rimasto defilato, al margine. Nulla egli aveva fatto o visto, tranne a strage avvenuta. 
Il 2/07/1946 ottenne la declaratoria di amnistia.

Ridolfi Giulio

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui l'aver partecipato al rastrellamento a Palazzone  e l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone. Giudicato colpevole, venne condannato a 8 anni di reclusione con sentenza del 18/10/45 n. 129. 
Con sentenza 27.8.46, la Corte di Cassazione dichiara estinto
il reato, per amnistia ed annulla senza rinvio la sentenza.

Cavallazzi Angelo
di Francesco e di Capra Maria, nato a Lugo nel 1924. 

 

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui l'aver partecipato al rastrellamento a Palazzone. Di professione meccanico, nella GNR dal maggio del 1944, implicato nel rastrellamento del Palazzone e in uno a Lavezzola, con morti ammazzati in entrambi i casi. Non poté negare la partecipazione ai fatti e si nascose dietro la giustificazione: semplice assistente autista e come tale di guardia ai camion, mentre i camerati scorrazzavano nelle campagne. 
La Corte gli concesse qualche attenuante e lo condannò ad anni 7 e sei mesi, con sentenza del 27/11/45 n. 163. 
Il 9/07/1946 amnistia scontata e puntuale. 
Rapidissima invece la riabilitazione dalle conseguenze giuridiche della condanna da parte della Corte di Appello di Bologna, avvenuta già nel 1952. Normalmente le riabilitazioni arriveranno negli anni ‘60.  

Capineri Severino
(Latitante)

accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui l'aver partecipato al rastrellamento a Palazzone. Giudicato colpevole, viene condannato a 24 anni di reclusione con sentenza del 4/12/1945 n. 170. Con sentenza 8.12.1946 la Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condona 1/3 della pena, condanna alle spese ed al pagamento di £. 2000 alla cassa delle ammende. Con declaratoria 12.7.48 la Corte d’assise di Bologna condona altro terzo di pena pel reato 9.2.48. Con declaratoria C. d’appello 27.2.50 ulteriormente condonato un anno di reclusione pel decreto

Vistoli Antonio
detto Piretta, di Luigi e di Ghinassi Maria, nato nel gennaio del 1905 a S. Agata, domiciliato a Lugo, via Mentana 52.

(latitante)

Nonostante la giovane età, era riuscito a mettersi in mostra fin dalle origini dello squadrismo, meritandosi tutte le onorificenze concesse dal regime diplomi di Squadrista, Marcia su Roma, Sciarpa Littoria. Ciò incise anche sul luogo di lavoro, il Consorzio Agrario di Lugo, che lo vide passare da semplice manovale a custode, ad impiegato. Non pago, il Vistoli continuò ad umiliare e a bastonare i “nemici”, con gesta da vantare in osteria compiute a Fusignano, Cotignola, Ravenna, Faenza, Massalombarda. Le vittime dovevano tacere e non osavano recarsi dai Carabinieri, impediti ad avviare eventuali procedure d’ufficio da compiacenti certificati medici (compiacenti a favore degli aggressori), che attestavano sempre lesioni guaribili in meno di 10 giorni. Fu quella una stagione felice per il Vistoli, garantita dall’impunità, in apparenza rinnovabile dopo l’8 settembre 1943.Faceva parte della Brigata Nera di Lugo e fu accusato di molti crimini accaduti in zona, tra cui l’eccidio di Voltana e dei Baffé, l’uccisione della famiglia Bartolotti, la soppressione dei Dalle Vacche e il saccheggio della loro abitazione, la violenza contro Venturini Clelio, le delazioni in danno di Molinari Silvio, il rastrellamento del Palazzone, l’uccisione di Isola Alfiero. 
Partecipazioni di non facile dimostrazione, poiché, a differenza del passato, il Vistoli non amò raccontare le sue azioni né ai camerati, né ai superiori, trattenuto dal dubbio sulla vittoria finale o forse da obblighi di famiglia o dal timore, un domani, di perdere il posto. Arrivò al punto da minacciare i testi che avevano riferito al Guerra (Segretario politico del Fascio di Lugo) quanto visto. Si parla addirittura della soppressione al nord di un commilitone troppo chiacchierone, divenuto rivale per questo e forse per altri motivi sconosciuti. Era accaduto che la sera del 16 marzo 1944 fosse fatto salire su un’auto con calci e pugni Isola Alfiero, colpevole di avere distribuito dei volantini. Il milite Timoncini Aurelio lo aveva fermato e sull’automobile in attesa c’era il Vistoli. Il teste Lucchesi Giuseppe aveva notato la scena, pur non riconoscendo la persona sequestrata, uccisa subito dopo presso il cimitero di Lugo, e l’aveva raccontata al Guerra. Fu rimproverato di ciò dall’imputato, che, volendo stornare da sé l’accusa più grave, gli disse di essere sceso dal predellino dell’automobile poco dopo, prima del cimitero. Nel gioco strano dei tempi, i Carabinieri avevano indagato ed erano arrivati al Lucchesi, convocandolo. Scattarono le minacce e il Vistoli allora decise di condurre il teste da un Maresciallo tedesco al fine di farlo interrogare prima che egli comparisse di fronte al Sottufficiale dell’Arma. A sorpresa, il tedesco, fregandosene del servo italiano, disse: “Dirà quel che ha visto”. Seguirono altri inviti al silenzio e pedinamenti. Quanto sopra, sarà riferito alla Corte di Ravenna. Sulla stessa lunghezza la testimonianza di Isola Vasco, che aveva indagato sulla morte del consanguineo. Decisiva infine la confessione della solita Valenti Sandrina (questa volta creduta), che completò il quadro dell’agguato aggiungendo i nomi del milite Briganti, di un certo Ronchi e di Dal Pozzo. Episodio in parte simile fu quello relativo all’uccisione di Dalle Vacche Leo ed Ettore, in data 19 maggio 1944, a Massalombarda. I famigliari raccontarono di avere saputo da Patuelli Giulio, fascista, poi ucciso, che a comandare la squadra assassina c’erano Renier Mario e il Vistoli stesso, nemico giurato del Patuelli, fino a proporne l’eliminazione. Meno convincenti per la Corte le imputazioni su altri fatti, come l’eccidio dei Bartolotti, poiché i famigliari delle vittime aggiunsero il nome del Vistoli solo in tempi successivi. “Poca serietà” dell’accusa. Prima di ritirarsi, la Corte ascoltò un altro repubblichino, Antonellini Demetrio, che propose una storia inquietante, appresa a Castelletto di Brenzone, sul Lago di Garda. Il Vistoli avrebbe ucciso un altro testimone dell’omicidio Isola, un certo Vapore. Ma un milite con tale nome era stato “assassinato” il 18 settembre 1944. Dove? Da chi? Si direbbe da parte da partigiani. Le carte non chiariscono. Ci dicono invece che il Vapore sarebbe stato confuso con Baldrati Mario, detto Volpe. 

Da ricordare infine che la Valenti inserì il Vistoli anche tra i partecipanti alla strage del Palazzone. 

Con sentenza dell'11/02/1947 fu giudicato colpevole del delitto di collaborazionismo politico ed in particolare di omicidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi di Isola Alfiero, Dalle Vacche Ettore e Dalle Vacche Leo, ma non dei fatti di Palazzone. La corte lo condannò alla pena dell’ergastolo con le conseguenze di legge ivi compreso il pagamento delle spese processuali. Nessuna attenuante, dato l’animo malvagio e subdolo. Ergastolo. Pena severa, ma presentata in modo subdolo, poiché il Presidente Avezzana, con malizia, volle inserire in sentenza una frase pericolosa ed equivoca, secondo la quale il verdetto era frutto delle testimonianze dibattimentali e dell’ “eco dell’opinione pubblica”. Inevitabile pertanto il comportamento della Cassazione, che nel maggio del 1949 accogliendo il ricorso prodotto nell’interesse del condannato dal difensore annullerà la suddetta sentenza, rinviando il fascicolo alla Corte di Assise di Macerata.

Ronchi Antonio
fu Ugo e di Mingazzini Teresa, era nato a Riolo Bagni nel 1905 e risiedeva a Lugo in via Baracca 31.

(latitante)

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui l'aver partecipato al rastrellamento a Palazzone (per il quale non fu condannato) 

Da giovanissimo (nel 1922) si era iscritto al Partito Fascista ed era riuscito ad ottenere onorificenze per le azioni di squadrismo. Se a sedici anni si era fatto le ossa a menare i rossi, a poco più di 20 anni si era specializzato in crimini contro i neri d’Africa. Dovette esagerare, visto che nel 1930 fu rimpatriato da Asmara per motivi di pubblica sicurezza. Ritornato in patria, fu premiato con una professione di prestigio, agente del R.A.C.I. (Regia Automobile Club Italiana). Gli anni erano passati, ma ciò non gli impedì di provocare lesioni a qualche compaesano durante il 1943. Forse prima del 25 luglio o forse dopo l’8 settembre, se si considera che le vittime preferirono non presentare querela, consentendo così ai Carabinieri di ritenere le lesioni “lievissime”, quasi carezze. Con la Repubblica di Salò gli sembrò che il passato lontano e glorioso ritornasse. S’iscrisse subito al partito e si mise in divisa, quella della Brigata Nera (dopo una parentesi nella GNR), divenendo Capo Squadra. Fu accusato della cattura di Orsini Aristide ed altri, dell’uccisione di Isola Alfiero, della cattura di Ricci Giuseppe e Ferrieri Aldo, del rastrellamento di Voltana (cinque morti), di quello del Palazzone di Fusignano, dell’eccidio della famiglia Bartolotti, nonché di altri fatti di violenza. Una figura secondaria, a detta della Corte. Ma era pur sempre un caposquadra della Brigata Nera, obbligato o libero di muoversi nel territorio con licenza di uccidere o di commettere altri misfatti. La citatissima Valenti Sandrina (insuperabile per memoria) raccontò di avere appreso dall’amante Ricciputi, in quel di Bussolengo ( Verona), la dinamica dell’omicidio di Isola. Il 12 marzo 1944 due militi, Vitali Antonio, detto Piretta, e il Ronchi, indicarono a Dal Pozzo la figura di Isola che si trovava al Caffè Motoclub di Lugo. I tre lo attesero fuori, dove gli chiesero i documenti. Poi lo colpirono al capo, fino a stordirlo. Subito lo caricarono su un’automobile e lo condussero per un vicolo del cimitero. Sparò Briganti di Forlì, per ordine del Piretta e di Ronchi. Indizio o prova? Credibile o no la Valenti? I soliti dilemmi, in questo caso catalogati come “vago indizio”. La stessa teste incolpò l’imputato latitante anche per l’eccidio Bartolotti e per quello di Voltana, versione in parte difforme dalle dichiarazioni della vedova di Bartolotti Olindo, Tarlazzi Armanda, che aveva indicato il Nostro tra i partecipanti solo al saccheggio e all’incendio, Un’altra donna, la fidanzata di Luciano Orsini, Renza Gallignani, riferì la scena della cattura degli Orsini, avvenuta il 22 agosto 1944. Erano sette i brigatisti neri su un autocarro che si fermò davanti alla casa del fidanzato. Tra loro il caposquadra Ronchi, che chiese del padre Aristide e, non trovatolo, aggiunse: “Se non c’è il vecchio, prendiamo il giovane”. Il che stava a dimostrare che l’accusato non eseguiva soltanto un ordine, ma aveva possibilità di agire a suo arbitrio.

A conferma. Giulio Savorani vide l’autocarro in piazza a Lugo. Sopra, tutti gli Orsini e il caposquadra Ronchi. Ad analoghi risultati era pervenuto Antonio Pasotti, che a nome del Comitato di Liberazione di Lugo aveva svolto un’indagine sul fatto. 

Giudicato colpevole, venne condannato con sentenza del 26/02/1947 n. 206. La Corte, nonostante i dubbi sparsi per l’intera sentenza, si convinse della colpevolezza dell’imputato, con l’esclusione del rastrellamento del Palazzone. Niente amnistia, dati gli omicidi premeditati e lo scopo di lucro. Pena equa l’ergastolo, ridotto a 20 anni per le attenuanti generiche. 

Con sentenza in data 5.6.48 la Cassazione annulla senza rinvio la sentenza dichiarando inesistente il concorso di Ronchi in fatti di omicidio e il fine di lucro nel reato di collaborazionismo politico a lui ascritto e conseguentemente estinto il reato stesso per amnistia. Revoca il mandato di cattura emesso a carico del Ronchi. Scandaloso? Non del tutto, se si pensa che nelle prime righe della sentenza era possibile leggere frasi minate: la difficoltà dell’acquisizione delle prove non può essere di “ostacolo” all’affermazione di colpevolezza, cui si perviene per la pressione dell’opinione pubblica sui giudizi di “questo Collegio”! Nessuno scandalo quindi, anche se più logico ed equo sarebbe parso l’annullamento della sentenza e la richiesta di un nuovo processo. 

P.S. A Sasso-Gargnano (prov. Brescia), in data 13 maggio 1945, era stato ucciso un Ronchi Antonio, squadrista e brigatista nero. Identici pure luogo e data di nascita.

Pasini Vitaliano
 
nato a Imola da ragazza madre Vitaliano Dora, classe 1926, residente a Ravenna in via Matteotti 47, componente della Brigata Nera di Lugo, detenuto dal 31 gennaio 1946

A leggere i capi d’imputazione c’è da rabbrividire: ci sono tutti i misfatti più tragici del territorio lughese e dintorni,  tra cui di aver partecipato al rastrellamento a Palazzone.
Dall’uccisione della famiglia Bartolotti al rastrellamento di Voltana, dall’eccidio dei Baffé al rastrellamento del Palazzone, dalla cattura degli Orsini all’uccisione di Carlo Landi, ecc. Altri reati gli furono contestati in sede di dibattimento. Il che fa pensare ad un protagonista, un sicario sempre a fianco dei capi. Ma così non era.

 In molti casi nessuno lo vide, in altri ebbe un ruolo assolutamente marginale. In dibattimento sorse persino il dubbio di un clamoroso equivoco, poiché al Vitaliano non si potevano attribuire delitti avvenuti prima che egli si arruolasse nella Brigata Nera, in data 6 settembre 1944. Principio logico, che forse avrebbe richiesto ulteriori indagini, visto che a 17 anni risultava iscritto al PFR. Una domanda su tutte: dove aveva egli trascorso l’estate del 1944? 

L’imputato, da parte sua, riconobbe solo due colpe. Avere accompagnato (25-10-44) i tedeschi alle case di Tasselli Luigi, Berdondini Renzo e Ballardini Luigi; avere invitato Fantinelli Norge (il 20 ottobre) a recarsi nella sede della Guardia Nazionale. Aggiunse che il 15 settembre 1944, allorché si verificò la strage di Ca’ di Lugo, egli si era recato a Bologna, con Italo Geminiani, per prelevare prodotti di monopolio. Partenza alle 6 del mattino, ritorno alle 4 del pomeriggio. Ad accusarlo la supertestimone Valenti Sandrina, vera protagonista in tante pagine. La Corte, sempre combattuta di fronte ai suoi ricordi, questa volta decise di dubitare di una memoria tanto portentosa. E con ciò caddero anche le accuse per il Palazzone e per Voltana. Quanto alla cattura degli Orsini, in data 22 agosto, cioè prima dell’arruolamento nella B.N., emerse soltanto che il Pasini li aveva trasportati a Ravenna, su ordine del Ferruzzi. Poca cosa. Eccidio Baffé. Nessun testimone oculare aveva fatto il suo nome

La Corte, in assenza di fonti, giustamente si meravigliò di tale accusa. Meno apprezzabile invece il rilievo filologico sull’affare Ca’ di Lugo, cassato solo perché la località era stata indicata diversamente: Ca’ di Longo. La Corte non doveva essere in forma quel giorno, tant’è che nella ricostruzione d’alcuni episodi, già acquisiti nella loro dinamica (Baffé- estorsione in Banca), ne modificò nettamente il rilievo penale. Per cui, l’eccidio sarebbe stato opera esclusiva dei tedeschi e la rapina in Banca tutta addebitabile ad Andreani, dimenticando le recenti sentenze contro Renier e Ferruzzi. Per inciso, l’impiegata di Banca, Tazzari Giovanna, dichiarò di avere riconosciuto l’imputato. Il processo si concluse con una testimonianza drammatica, che molto impressionò la Corte, quella di Montanari Ada, che ricordò le paure, le speranze e la disperazione provate. Arresto di due figli (Floriano d’anni 23 e Giovanni di 17), la diffida del terzo, il minore, Alfio. Le promesse del Ferruzzi. Il ritrovamento dei cadaveri nel Senio. E il ruolo del Pasini? Li portò in carcere, dove fra l’altro non furono neppure registrati, per ordine tedesco (testimonianza del guardiano). Contro di lui le parole di Dal Monte Bruna, che, al momento degli arresti, sentì Pasini esclamare: “Questo è niente, quello che gli faremo…”. 

La Corte, convinta dell’esistenza di una correlazione tra alcuni sequestri e i successivi omicidi, pervenne ad un verdetto di responsabilità. 

Fu giudicato colpevole di collaborazionismo politico e di concorso nell’omicidio dei fratelli Montanari, con sentenza dell'11/03/194721 anni di carcere, ridotti a 9 e 4 mesi, date le attenuanti, con le attenuanti della minima importanza del concorso, del la giovane età e dell’avere agito in ottemperanza ad ordini superiori.

Nel febbraio del 1948, la Cassazione annullerà tale sentenza ed ordinerà “l’escarcerazione”, se non detenuto per altra causa. 

Bartoletti Innocente
fu Domenico e fu Antonellini Luisa, nato nel lontano 1893 a Fusignano.

Piccolo e dal naso storto, cui si aggiungeva “personaggio insignificante”. Questi i connotati per indicare un altro di Fusignano, anch’egli presente al Palazzone.

Fu arrestato di ritorno dal nord, l’11 luglio 1945, con due imputazioni: 
1) partecipazione al rastrellamento del Palazzone 
2) responsabilità diretta nella deportazione in Germania di un compaesano, Aldo Ballardini, da lui accusato di adesione al movimento partigiano. 

Quasi certamente di condizioni miserevoli, si era iscritto al Fascio solo nel 1926. Dopo l’8 settembre volle invece essere tra i primi di Fusignano ad aderire al Partito Fascista Repubblicano e ad arruolarsi nella GNR. Contro il Bartoletti, due i testi, e uno indiretto. Aldo Fiorentini dichiarò di averlo visto al Palazzone armato di mitra, in compagnia d’altri due militi, davanti alla casa Zalambani, nella zona d’operazioni congiunte tra fascisti e tedeschi. Una testimonianza quasi inutile, se è vero che il rastrellamento era avvenuto in grande stile, con la partecipazione di quasi tutti gli uomini in arme di Ravenna. Sarebbe stato stolto escludere i locali, gli unici esperti dei luoghi. Per il secondo episodio, testimoniò una donna, la moglie del deportato, Elda Minardi. La donna, per riavere il marito, si era rivolta in alto (ad un personaggio non citato), che si premurò di contattare il Maresciallo tedesco. In risposta: “Se dipendesse da me, sarebbe possibile, ma un fascista piccolo e dal naso storto ha detto: Sta bene dentro”. Forse il Bartoletti era l’unico con quelle caratteristiche, ma il valore probante di un colloquio riferito non pare convincente. Anche la Corte ebbe lo stesso dubbio, pensando che il tedesco forse aveva voluto mostrarsi generoso a spese degli altri. Ma, d’altronde, perché non incolpare genericamente i repubblichini, senza offrire indicazioni così precise contro un individuo noto? Problema comunque secondario ai fini della pena, poiché la pena minima prevista per il collaborazionismo scaturiva senza equivoci dall’altra imputazione. Pertanto,  la Corte (18-10-45) sentenziò “Sta bene dentro”. Giudicato colpevole, venne condannato 10 anni, ridotti a 5 anni, sei mesi e venti giorni di reclusione con sentenza del 18/10/1945 n. 127. Dopo un anno di carcere, ottenne la declaratoria di amnistia il 9/07/1946. 

Gasperoni Giovanni
fu Giovanni e di Longanesi Trinità, nato a Fusignano nel 1914.

Accusato di reato di collaborazionismo per aver partecipato al rastrellamento a Palazzone. Era sposato e la sua consorte aveva avuto più volte occasione di lamentarsi per il terribile vizio del gioco, amaramente confermato anche in sede processuale da una condanna. Le bische, che durante la guerra erano sopravvissute a fatica, erano sparite del tutto, o quasi, con la Repubblica Sociale. Di qui, l’inattività completa del nostro uomo, che viveva con le rendite delle campagne. Un agricoltore, un fortunato in mezzo alle migliaia di braccianti e ai molti fittavoli e mezzadri. Pertanto, mosso anche dall’istinto di classe e per nulla impressionato dai proclami socialistoidi di Mussolini, nell’aprile del 1944 decise di scommettere sulla vittoria dell’Asse. La posta era ardita, ma il Gasperoni era abituato a rischiare e a perdere. 

S’iscrisse al PFR e subito dopo fu visto a spasso per le sue contrade con la divisa della GNR. Le avventure non si fecero attendere. Nello stesso mese, il 23, si verificarono i fatti del Palazzone, con otto fucilati. Lui era presente, come esperto dei luoghi, a sorpresa, secondo le sue dichiarazioni. Non cercò neppure di nascondere ai compaesani la sua partecipazione e, da spavaldo come molti padroni, commise l’errore di informare Giovanna Mari che i suoi due figli erano stati uccisi. Ma forse capì l’azzardo commesso e dal quel giorno operò lontano dal paese, a S. Pietro in Vincoli, a Ravenna e infine a Brescia. 

A guerra finita, avrebbe potuto restare in giro per l’Italia, non mancandogli le disponibilità economiche, ma dopo un mese di purgatorio volle giocare la scommessa di ritornare a casa, a rischio della vita, forse per verificare i danni provocati al suo patrimonio dagli ultimi giorni di guerra. Un gesto da spericolato, nato da sicura sottovalutazione delle sue responsabilità per i fatti del Palazzone e dal ricordo di ben più cruenti disfide, vissute altrove. La ruota gli girò a sfavore e fu arrestato in giugno dai Carabinieri del posto. Al processo il Gasperoni cercò di minimizzare, “comandato dai tedeschi”, ma la Corte non lo ritenne credibile, tanto più che dopo Fusignano, nonostante avesse famiglia, aveva scelto di restare con la GNR, in Romagna e in Lombardia. Con sentenza del 20/09/1945 fu condannato ad anni 12, senza attenuanti per quella vecchia questione del gioco d’azzardo. 

Ma la partita non era finita a Ravenna. Nell’aprile del 1946, infatti, la Cassazione annullerà la sentenza, per mancanza di motivazioni, e spedirà gli incartamenti a Bologna per un nuovo dibattimento. Dopo due mesi arriverà il Decreto d’amnistia e per Gasperoni la libertà.

Sangiorgi Elviro Lino
di Battista e di Bedeschi Erminia, nato a Lugo nel 1916,  residente in via Cento 25.

(Latitante)

 Elviro, residente in via Cento 25 a Lugo, proveniva dalle organizzazioni giovanili del regime (Avanguardista, GUF?) ed era poi passato al Partito Nazionale Fascista. Propagandista, infine, del Fascio repubblicano. In istruttoria Elviro viene definito “violento e feroce”; era a Cà di Lugo alla casa colonica dei Bartolotti, il 15 settembre 1944. Scelse il più giovane della famiglia per farlo parlare, il diciottenne Silvio. Voleva sapere da lui i nomi e i nascondigli dei partigiani e gli piantò dei chiodi nelle mani. Giunse poi l’impiccagione per Silvio, per il padre Adolfo e per un fratello maggiore. L’altro fratello cercò la fuga, ma fu raggiunto e freddato con un colpo di pistola alla nuca. Anche suo fratello Luigi Sangiorgi fu della partita, a spingere i Bartolotti sul camion per portarli sul luogo dell’esecuzione. Per non essere da meno del fratello, chiese del sapone per lubrificare la corda che doveva servire per l’impiccagione (teste Pompeo Lippi). 

Elviro fu accusato anche dell’uccisione di Carlo Landi, del rastrellamento del Palazzone di Fusignano, dell’eccidio di cinque persone a Voltana, della cattura di Ricci Giuseppe e Natali Valentino, dell’estorsione in danno di Corrado Capra, della cattura di Norge Fantinelli. La nota Valenti Sandrina testimoniò su Fusignano. Norge sul suo fermo, 20 ottobre 1944, e successiva deportazione in Germania. Capra, sospettato di aiutare i partigiani, ricostruì l’estorsione di lire diecimila e il sequestro del camioncino. Il Brigadiere di Pubblica Sicurezza Natali Valentino ricordò le minacce a mano armata ad opera di Elviro perché egli, nell’esercizio delle sue funzioni, procedeva ad indagini sulle minacce del fascista Pasini Vitaliano contro Tampieri Sauro. Tasselli Luigi lo inserì nell’omicidio Landi e il repubblichino Ravaioli Alfredo nell’eccidio di Voltana. Questa ultima testimonianza, resa alle autorità di PS di Lugo, non fu ritenuta valida, perché prodotta in copia. 

Per la Corte (17-7-46) indubitabile il reato di collaborazionismo politico (art.58 del Codice Militare di Guerra) e inevitabile la condanna, senza i benefici del condono previsto dal Decreto di amnistia, per la latitanza dell’imputato. Condannato ad anni 20 di reclusione e tre anni di libertà vigilata. Confisca della metà dei beni. 

Con provvedimento in data 2.1.54 il Tribunale di Ravenna dichiarò interamente condonata la pena di anni 20 di reclusione inflitta a Sangiorgi Elviro Lino inflitta con la su estesa sentenza e ordinò la revoca del mandato di cattura emesso in esecuzione della citata condanna. Con declaratoria 6.10.59 a favore di Sangiorgi Elviro Lino, il Tribunale di Ravenna, veduto il decreto del PR 11.7.59 n.460 art. 1 lett. a dichiara estinto il reato per amnistia. Latitanza fino a 40 anni di età.

Sangiorgi Luigi
di Battista e di Bedeschi Erminia, nato a Lugo nel 1906,  residente in via Cento 25.

(Latitante)

 

Luigi Sangiorgi fu accusato perché era a Cà di Lugo il 15 settembre 1944 alla casa colonica dei Bartolotti, dove collaborò all'esecuzione di Bartolotti padre e tre figli, insieme a suo fratello Lino Elviro. Spinse i Bartolotti sul camion per portarli sul luogo dell’esecuzione. Per non essere da meno del fratello, chiese del sapone per lubrificare la corda che doveva servire per l’impiccagione (teste Pompeo Lippi).  Fu accusato anche della cattura di Orsini Aristide e Nello, poi uccisi, dell’eccidio Baffé e Foletti in Massalombarda, del rastrellamento del Palazzone e dell’uccisione di Mario Baldrati. Quest’ultimo era un fascista che ad un certo punto si dimise. Un traditore per i repubblichini, e fu fatto fuori. A puntare il dito contro Luigi una certa Erminia Capucci, ma le sue parole non risultarono del tutto convincenti: solo sospetti. Calzanti, invece, e convergenti, le testimonianze sugli altri crimini. Elena Ricci fu precisa nel motivare il rancore dei Sangiorgi contro gli Orsini (“vi farò finire male”) e certa di avere visto il Luigi sul camion che li trasportava. 
Ravaioli Alfredo e Aurelio, repubblichini, accusarono Luigi dei misfatti più gravi, salvo poi ritrattare. Con versioni simili, però, a quanto riferito da tale Filippi e dalla Valenti Sandrina (la donna del Ricciputi). 
Sangiorgi Luigi fu coinvolto anche nell'esecuzione di Carlo Landi, un ventenne partigiano di Lugo, catturato nell’ottobre del 1944, tipografo. Fu preso e condotto alla Rocca, sede delle Brigate Nere. Torturato. Il 26 ottobre fu accompagnato fuori, all’aperto. Tra quelli che lo condussero verso la rampa della Rocca c'era il Sangiorgi Luigi (testimonianza al processo fatta dal camerata Serafino Saviotti che dirà: “Vidi scendere dalla Casa del fascio il Landi Carlo tenuto ai lati sotto braccio da Reggi Giulio e Sangiorgi Luigi che lo condussero verso la rampa della Rocca; io pure li seguii e poco dopo vidi il Landi cadere sotto colpi di mitraglia. Credo che l’uccisione sia stata commessa dal Reggi Giulio perché era il solo in quel luogo armato di mitra”.

La Corte (30 luglio 1946) ravvisò nei comportamenti di Luigi Sangiorgi il reato più grave, quello di collaborazione militare, punito, alla luce del Codice di Guerra, con la fucilazione. Dati i buoni precedenti, la pena fu ridotta a 30 anni di carcere, cinque di libertà vigilata e totale confisca dei beni. Incoerentemente, rispetto ai criteri seguiti con il fratello Elviro, la latitanza non impedì a Luigi di beneficiare del condono di un terzo della pena. Quindi: 20 anni di carcere per entrambi i latitanti. 

Una sentenza della Cassazione del 9-6-52 rigetta l’istanza di revisione del processo. Una Declaratoria del 23- 1-54 riduce la pena di due anni
Infine, nel 1959, provvedimento di estinzione del reato, latitante fino a 53.

Saviotti Serafino
di Ido e di Pironi Luigia, nato a Fusignano, classe 1910, detenuto

 Come milite della Guardia Nazionale Repubblicana aveva operato nei presidi di Faenza e di Solarolo, come componente della Brigata Nera, dall’agosto del 1944, aveva condiviso quasi tutti i crimini commessi dalle squadre di Lugo, agli ordini del Segretario politico Ferruzzi e del Centurione Ferretti. 

Lunghissimo il capo d’imputazione
Si va dalle catture alle sevizie, dagli omicidi singoli alle stragi, dalle istigazioni ad uccidere ai rastrellamenti (compreso quello del Palazzone), dai saccheggi alle estorsioni di denaro, ecc. 
Vasto più del solito il campo d’azione, da Ravenna a Fusignano, da Voltana a Massalombarda. 
Fu senza soste il suo attivismo e coprì l’intero periodo della Repubblica di Salò. A leggere le carte della Questura si ritrovano nomi di località e di personaggi già incontrarti accanto ad altri del tutto nuovi: Palazzone, Voltana, Baffé, Bartolotti, Bosco Baronio, Orsini. 
Tralasciamo per un momento i fatti più gravi, per fermare l’attenzione su un aspetto di solito trascurato e cioè sul come i repubblichini si procuravano il denaro. Si sa che i militi ricevevano lo stipendio, che i brigatisti neri percepivano di più di quelli delle GNR, che nei saccheggi spesso arrotondavano, che prima di lasciare la Romagna svuotarono le Banche. Episodicamente, invece, si è parlato dei cosiddetti contributi volontari da parte di finanziatori. Questa operazione aveva più finalità: ricattare gli ex fascisti, minacciare i benestanti, punire i sostenitori occulti dei patrioti, rovinare economicamente famiglie e imprese. Varie anche le forme. Si comunicavano i bisogni della patria, della città e dei sinistrati e si diceva di contribuire versando, non in Municipio come sarebbe stato giusto, ma presso la sede del partito. La comunicazione quasi mai avveniva per iscritto o tramite le poste. Si preferiva che a bussare alle porte fossero uomini in divisa, minacciosi e in armi. Chi non aveva liquido a disposizione avrebbe potuto provvedere l’indomani presentandosi al Fascio. Talora si arrestava, in attesa dell’obolo spontaneo. Ecco alcuni episodi. Olindo Baldrati, arrestato e rilasciato in cambio di lire 200.000; Mario Verni, costretto a consegnare un camioncino e lire 300mila; Corrado Capra, un camion e lire 10mila; Carlo Ricci, lire 100mila in cambio della libertà. Il Saviotti a volte visitava a casa, a volte consigliava, a volte riscuoteva in sede, a volte faceva sconti. 

Tra gli altri addebiti: avere obbligato un vice brigadiere (Natali Valentino) a consegnare una pistola sequestrata a Pasini Vitaliano; avere catturato e seviziato Costa Agenore, Drei Giulio e Ravaglia Emilio; avere catturato Tesselli Luigi, Berdondini Renzo, Ballardini Luigi, Facciani Domenico; avere partecipato all’uccisione di Landi Carlo, alla cattura dei fratelli Travaglini; avere istigato un fascista ad uccidere Geminiani Emilio; avere partecipato alla cattura e alle violenze in danno di Laghi Mario, Fantinelli Norge e Lippi Pompeo, alla cattura e all’uccisione di Montanari Giovanni, Dalmonte Giovanni, Berdondini Enzo ed altri; come sopra nei confronti di Mario Baldrati. Tra i reati minori anche l’ asportazione a forza di un’automobile di proprietà di Grillandini Enrico e la cattura di Tonino Golfari. Al processo testimoniarono mogli, fidanzate, figli, padri, amici, camerati. Tutti precisi e concordi nell’evidenziare la ferocia e la costanza del Saviotti. Elena Ricci, cui l’imputato aveva arrestato figlio, padre e nipote, ebbe questa risposta: “In Jugoslavia ho ucciso gente di ogni colore”. Il Saviotti, al dibattimento, ammise la cattura degli Orsini e dei Travaglini, le retate in Lugo di renitenti e l’invito al Verni di presentarsi alla sede del Fascio. Nient’altro. 

La Corte (30 luglio 1946) ritenne il Saviotti passibile della pena di morte, ma, viste le attenuanti generiche, lo condannò ad 30 anni (di cui un terzo condonato), cinque anni di libertà vigilata e la confisca dei beni. 

Nel 1950 La Corte di Appello di Bologna condonò un anno

Nel 1954 il Tribunale di Ravenna abbonò altri due anni. 

Nel 1960 la riabilitazione da parte della Corte di Appello di Bologna. Sembrerebbe quindi, salvo errori od omissioni, che il Saviotti abbia pagato con il carcere più di tutti. Circa 15 anni.

Santucci Ercole
fu Luigi e di Dradi Colomba, nato nel 1891 a Forlì, ivi residente, arrestato il 6 giugno 1945.

Accusato di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di crimini tra cui l'aver diretto il rastrellamento di Palazzone.

Era Colonnello della GNF. Come ufficiale non aveva superiori in grado quando dirigeva il presidio di Massalombarda. Come Comandante della 71a Legione GNR non prendeva ordini da nessuno durante la permanenza a Faenza.

Come ufficiale superiore spettava a lui incontrare di tanto in tanto i Comandanti tedeschi e i capi delle Brigate Nere, per concordare il da farsi nella lotta contro le bande partigiane, in pianura e su per le montagne tosco-romagnole. I luoghi dei rastrellamenti sono noti, Conselice, S. Cassiano, il Palazzone di Fusignano, e note sono le tragiche conseguenze. 

Meno conosciuta la Val di Fusa (?), dove il Santucci avrebbe comandato un Battaglione della GNR e dove i partigiani subirono la perdita di 200 uomini fra morti e feriti. Operazioni militari che di per sé comportavano il reato di collaborazionismo con il tedesco invasore. Ma il Santucci era accusato anche di fatti specifici di carattere poliziesco e criminale, compiuti dai suoi uomini e da lui in persona, nonché di avere autorizzato tutte le nefandezze delle Brigate Nere agli ordini del Raffaeli Raffaele. Autorizzato o tollerato o subìto? Il Colonnello, come responsabile dell’ordine pubblico e delle investigazioni di polizia, era imputato anche di avere posto una taglia sul comunista Nino Cimatti, ucciso il 2 novembre del 1943 nei pressi della Pineta di Ravenna, di avere premiato con lire 25mila gli uccisori di Violani Pietro, di avere partecipato all’uccisione di Leonilde Montanari, al tentativo di omicidio nella persona di Domenico Monti e all’eccidio di Chiarini e Dalle Vacche (in Massalombarda), nonché ad altri fatti di violenza in provincia di Ravenna.

Il processo fu un susseguirsi di sorprese

Stando alla relazione finale, ad accusare il Santucci erano stati “esclusivamente” due militi della GNR, Valerio Lombardi e Giovanni Marzocchi. Ma il primo aveva ritrattato in istruttoria e il secondo non si presentò al dibattimento, poiché, mosso unicamente da rancore personale, non avrebbe avuto nulla da dire. Strano che nessun partigiano, salvatosi dai rastrellamenti, si sia fatto vivo e che nessuna prova cartacea risultasse acquisita agli atti. Strano, ma in parte spiegabile, se è vero che al Santucci era giunta a suo tempo la richiesta di passare tra le fila partigiane, proposta respinta, potendo egli rendere migliori servigi in divisa di ufficiale superiore della Guardia Nazionale. La cosa andrebbe approfondita alla luce della documentazione e dei rapporti delle Brigate partigiane ed anche dalle relazioni su di lui dei Comandi regionali e nazionali della Guardia stessa. 

Era un fascista moderato o un collaboratore del movimento di liberazione? Alternativa di non poco conto, alla luce di quanto stabilito dal Decreto Legge del 22-4-45, articolo 1, che stabiliva la responsabilità oggettiva di collaborazionismo in coloro che avevano ricoperto importanti ruoli militari e politici. Altra sorpresa. I testi, elencati con puntiglio, non distinti tra fascisti e patrioti, giurarono sui sentimenti antitedeschi del Santucci, sulla sua moderazione, sugli interventi per ridurre rappresaglie e saccheggi, per la liberazione di prigionieri, per sottrarre i cittadini alle persecuzioni e alle deportazioni in Germania. Questi i loro cognomi: Turicchia, Sciottola, Gabi, Brussi, Lesi, Borghesi, Scardovi, Baldini, Marinelli, Marangoni, Benassi, Cassani, Testi, Dal Monte, Preti, Sinigallia, Rava, Lanzoni, Congia, Bordoni, Molinari, Cicognani, Zappi e Magnacavacca. Mancano i nomi e ciò rende difficile stabilire la loro collocazione durante il conflitto. Difficile ma non impossibile. Alcuni li abbiamo già incontrati sul banco degli accusati. 

Al Palazzone sarebbe arrivato dopo la strage, per impedire altro sangue. In Val di Fusa a comandare il Battaglione romagnolo sarebbe stato il maggiore Del Greco. Inoltre, il Santucci risultò infaticabile nell’opera di soccorso alla popolazione a seguito dei bombardamenti, sia a Massalombarda, sia a Faenza, sia a Verona, dove era ripiegato. 

Tutto ciò consentì alla Corte di concludere che le accuse erano senza fondamento e che, viceversa, il Santucci andava additato per la “rettitudine ed onestà” e per la moderazione dimostrata, fino al punto da essere malvisto dal famigerato Raffaeli. Peccato che agli atti manchi la tesi del PM, che nelle conclusioni della sua arringa mantenne l’iniziale accusa. Con queste premesse, per una sentenza favorevole, restava pur sempre lo scoglio della responsabilità oggettiva, ma essa poteva considerarsi una presunzione relativa, richiamata dalla giurisprudenza e smentita dai fatti. 

Assoluzione con formula piena, in data 25 settembre 1946 con sentenza n. 138.per non aver commesso il fatto. Merito dello Spizuoco o sentenza unanime? Autorevoli raccomandazioni? Un bel filone di ricerca, che tenga conto anche degli echi politici e giornalistici. 

Il Santucci, dopo un anno di carcere, uscì da trionfatore. Di sicuro avrebbe potuto vanificare ogni ulteriore indagine della Commissione per l’epurazione e, volendo, rientrare nei ranghi militari, accompagnato, perché no, da benemerenze resistenziali. Questo solo si può aggiungere. I Podestà, ossia i Commissari prefettizi, il Questore, i componenti dei Tribunali Straordinari, i Generali dei Tribunali Militari, il Comandante della Guardia Nazionale, tutti adulti, passarono quasi indenni dal giudizio della Corte di Ravenna, meno benevola con i giovanissimi subalterni, più o meno costretti ad ubbidire. 

Reggi Libero
di Giulio Augusto e di Rossi Ersilia, nato e residente a Lugo, classe 1923

(Latitante o morto?)

1) Fu accusato di essere conduttore del camion che arrivò nell’aia dei Bartolotti, per procedere agli incendi, ai saccheggi e alla cattura dei maschi di casa. 

2) Altri testi accusarono il Reggi dell’eccidio del Palazzone e del saccheggio della casa di Ricci Bartolini, da cui i brigatisti avevano asportato, fra l’altro, 200 bottiglie di vino e di liquori. 
Parlarono contro Alessandro Marangoni, Angelo Cavallazzi ed un altro Ravaioli, Aurelio. 
3) Provata, infine, l’accusa di avere concorso alla cattura del dottore Giulio Drei, noto antifascista, e di avere concorso alle sevizie su di lui, dopo il consueto saccheggio dell’abitazione. 

Restò indimostrato, invece, l’impianto accusatorio relativo all’eccidio di Voltana. Stante i fatti, Reggi Libero, di Giulio Augusto e di Rossi Ersilia, nato e residente a Lugo, classe 1923, contumace, fu condannato, senza potere beneficiare dell’amnistia, non ammissibile a fronte del saccheggio, né del condono, non previsto in caso di latitanza (criterio però non sempre seguito dalla Corte). 

Condanna a 15 anni di reclusione e alla confisca di un terzo dei beni (8-10-46). Bisognerà attendere il 12 gennaio 1954 per trovare un nuovo provvedimento su di lui: pena interamente condonata
Latitante o morto il Reggi? Un omonimo compare tra i caduti della RSI, “prelevato dal carcere ed ucciso a Lugo il 6 luglio del 1945”. 
Secondo questa sito di destra (ma che non cita i documenti)
"... il 7 marzo del 1949 furono denunciati a piede libero, per via sempre di quella legge che impediva l’arresto di ex-partigiani, gli agenti ausiliari di Lugo, [ndr. ho omesso i tre nominativi] accusati di duplice omicidio, occultamento di cadavere e di falsità in atto pubblico. Insomma, avevano massacrato di botte due lughesi, Libero Raggi (o Reggi?) e Bruno Faccani, arruolatisi nella Brigata Nera alla fine della guerra. Li avevano massacrati il 7 (o il 6?) luglio del ’45."

Ferretti Guglielmo
fu Giordano e di Rizzoni Caterina, classe 1900, nativo di Portomaggiore ed ivi residente

Nominato Commissario Prefettizio a Bagnacavallo, in carica dal 26 ottobre 1943 al giugno 1944, un periodo relativamente calmo nella lotta antipartigiana, e dimostrò tanto attivismo da non essere dimenticato neppure a guerra finita. 

Uomo d’ufficio, con una particolare vocazione per le finanze, tentò in tutti i modi, nonostante le avversità belliche, di riempire le casse dell’amministrazione (per qualcuno anche le proprie). Chiedeva ed imponeva soldi a tanti, senza le relative deliberazioni. E per raggiungere meglio lo scopo chiese ed ottenne il Comando del locale presidio della GNR: Sindaco e Carabiniere ad un tempo. Era difficile sfuggirgli. Queste le sue tecniche. Visitare gli uomini danarosi, specie se con trascorsi fascisti e un presente dubbioso, e offrire loro la tessera del Partito Fascista Repubblicano. Se rifiutavano era meglio, dato che li obbligava a versare cifre consistenti o li associava per qualche tempo alla prigione, onde essere libero di visitare le loro dimore o negozi. 

Non soddisfatto, il Ferretti se la prese anche con chi non aveva un passato mussoliniano, con estorsioni e con saccheggi, sicuramente arbitrari ma con qualche parvenza di legalità, di giorno e di notte. Talora faceva l’inventario di parte del maltolto, in assenza del proprietario, e rilasciava qualche ricevuta. Insomma, era un fuorilegge a metà. Una volta, arrivò persino a rendere ufficiali i prelievi, imponendo ai coloni una tassa di lire 60 per ettaro ed indicandone lo scopo, la ristrutturazione della Biblioteca Comunale. Entrata lire 350.000. La cultura al primo posto! Peccato, che poi si sia parlato d’appropriazione del denaro incassato. Accusa in parte falsa, poiché il responsabile primo del Comune e della caserma distribuiva in più direzioni, all’Ufficio Esattoria, alla GNR, ai suoi militi, ai fascisti locali con donne partecipanti all’asporto di merce, ai preti. Comunque fosse, non era proprio elegante vedere un Sindaco entrare nelle case armato di mitra ed uscirne soddisfatto. 

Nessun dubbio venne al Capo Provincia, Bogazzi, sicuramente subissato da lettere più o meno anonime. Perplessità vennero invece al Ferretti stesso, che, trasferitosi il 10 giugno 1944 in una vicina e più importante località, Lugo, trattenne per sé solo la carica di Comandante del presidio, ma senza dimenticare gli sperimentati metodi. Altre estorsioni, in ufficio e fuori. Talora si fingeva partigiano e, se l’altro abboccava, pretendeva cifre esorbitanti, in cambio di mancata carcerazione o di deportazione in Germania. A Lugo aveva più tempo libero, per cui cominciò a dare la caccia ai partigiani, spesso in collaborazione con i repubblichini di Faenza e di altri comuni. Se non trovava la persona ricercata, si accontentava di un famigliare. 

Ebbe un bel daffare la Questura di Ravenna, ad arresto avvenuto (13 gennaio 1946), a stendere gli infiniti capi d’accusa. Guai anche per la Corte, riunitasi il 20 ottobre del 1946, subissata da richieste d’altre testimonianze. Per fortuna, altri si erano rassegnati al danno subito. Vediamo alcune imputazioni, con nomi e cognomi delle vittime, ma non sempre con indicazioni precise della località di provenienza: 
1) preso come ostaggio il Col. Luigi Peruzzi, 
2) arresto di Luigi Mazzotti e saccheggio della di lui casa (a Bagnacavallo, danno lire 500.000), 
3) cattura del comunista Alberto Pirazzini, poi ucciso, 
4) ricerche del rag. Tullio Martini e arresto della moglie (a Bagnacavallo), 
5) saccheggio del negozio di due commercianti ebrei, Vittorio ed Umberto Vita, 
6) ricerca di Antonio Belloni e cattura del fratello Francesco, con estorsione di lire 40mila, 
7) cattura di Domenico Savorelli perché ascoltava le comunicazioni inglesi e sequestro dell’apparecchio radiofonico, 
8) appropriazione di lire 100mila versate dai cittadini (di Bagnacavallo?), 
9) estorsione di lire 25mila ad Achille Belloni, 
10) cattura di Angelo Poggi, 
11) estorsione di lire 100mila ai coloni lughesi, 
12) saccheggio casa Bartolotti, 
13) partecipazione ai fatti del Palazzone
14) come sopra, per Voltana, 
15) diretto un rastrellamento a Faenza, 
16) estorsione ai danni di Roberto Botti, lire 30.000, 
17) come sopra, lire 5mila a Tommaso Ravagli, 
18) violenze a Alfredo Porisini, 
18) sequestro del fucile da caccia a Gino Guerrini ( Villanova sul Lamone), 
19) come sopra, a Guido Lorenzi, 
20) cattura e soppressione di Domenico Bisca. 

L’imputato negò tutto, tranne il prelievo di denaro agli industriali e agli agricoltori, che, però, non aveva tenuto per sé. Poi sfilarono i testi. Mazzotti raccontò la sua storia. Non voleva iscriversi al partito e il Ferretti disse: “Farò in modo che tu resti molto tempo in prigione, così via tutto, anche la casa”.

Testimoni contro: I fratelli Vita aggiunsero che fu fatto sì l’inventario, ma a metà del saccheggio, dopo che il Ferretti stesso, in compagnia di una donna, aveva prelevato più volte, servendosi di valigie, ogni ben di Dio. Belloni testimoniò sulla beffa del finto partigiano, costata lire 40mila in cambio della vita. Tale Silvio Staffa confermò la partecipazione al rastrellamento di Conselice, dove fu ucciso Brini. 
Il Ridolfi, un camerata, quando il 15 settembre 1944 furono trucidati i Bartolotti,ricordò che il Capitano Ferretti mandò i militi a svuotare la casa degli assassinati.

Da ultimo, parlarono i testimoni a favore. Giuseppe Melandri (di Bagnacavallo) assicurò che in quel periodo erano entrati in Municipio più soldi del solito e due sacerdoti, don Giulio Ridolfi e don Rambelli, di avere ricevuto aiuti da destinare all’assistenza. 

A parte i reati più gravi, era evidente per la Corte che gli ordini di prelievo erano illegittimi e che il primo scopo, pure cadenzato da qualche lodevole azione, consisteva nel lucro personale e dei camerati. Pertanto, essendo il lucro ostativo alla concessione dell’amnistia, il Ferretti era meritevole d’anni 18 di reclusione. Quindi, viste le attenuanti, la pena fu ridotta a 15 e, concedendo il condono di un terzo, previsto dalla legge d’amnistia, si ridussero altri 5 anni. Pena da scontare, anni 10, con l’aggiunta del sequestro del 50% dei beni. 
La Cassazione, maggio 1947, trasferirà il fascicolo a Modena, per un nuovo processo. (?)

Sciottola Gaetano Ruggero
di Cosimo e Leone Angela, nato a Ravenna alla fine del 1925

Contro di lui pendevano tre capi di imputazione. 
1) Aver partecipato al rastrellamento del Palazzone (ironia della sorte, va ribadito, diretto dal Col. Anzalone, con tedeschi, militi della GNR, Carabinieri, Alpini e Agenti di PS). Partecipazione non generica, poiché, viste le deposizioni di due camerati, Pirazzoli Guerrino e Cattani Carlo, Sciottola sarebbe stato tra i componenti del plotone di esecuzione che fucilò 8 partigiani catturati,
2) Avere sparato, per uccidere, contro Salti Luigi il 31 gennaio del 1944, in via Girolamo Rossi. Una ronda fascista entra in osteria, chiede i documenti e perquisisce. Il Salti cerca di svicolare. Partono dei colpi che lo raggiungono. Ferite da pistola calibro 12, lo stesso in dotazione a Sciottola (quali le pistole degli altri militi?). 
3) Concorso nell'omicidio di Romolo Ricci che era stato ucciso il 3 maggio del 1944 nel Borgo S. Rocco. Al rapporto della Questura su questo assassinio aveva contribuito anche il Colonnello dei Carabinieri Anzalone (colui che aveva diretto il rastrellamento italo-tedesco del Palazzone di Fusignano!!).  

Sciottola fu condannato a 30 anni di reclusione e a quattro di libertà vigilata con sentenza del 18/06/1946 n. 101. 
Con sentenza 13.9.48 la Corte d’Appello di Bologna ha dichiarato condonati nei confronti dello Sciottola, anni 10 per il decreto 22.6.46 n.4 ed altri anni 10 in data 9.2.48 n.32, determinando la pena residua ad anni 10
Estratto conforme per uso di liberazione condizionale. 
Poi con declaratoria 27.2.50 della Corte d’Appello a favore dello Sciottola, fu dichiarato ulteriormente condonato un anno di reclusione della pena inflitta allo Sciottola. Concessa liberazione condizionale e sottoposto a libertà vigilata con decreto del giudice di sorveglianza di Ravenna del 6.4.51 fino al 29.8.52. Con decreto del Tribunale di Ravenna in data 28.11.52 fu dichiarata estinta la pena inflitta allo Sciottola e revocata la misura di sicurezza della libertà vigilata e le altre misure di sicurezza personali ordinate in sentenza. 

Della Cava Giovanni
di Angelo e fu Barbara Callegati, nato e residente a Lugo, classe 1912

Fu imputato dei seguenti fatti. 
1) Rastrellamento del Palazzone 
2) Eccidio della famiglia Baffé e Foletti di Massalombarda, 
3) Eccidio della famiglia Bartolotti, 
4) Uccisione di Carlo Landi, 
5) Estorsione di lire 200.000 in danno dei fratelli Baldrati di Lugo. 
Egli riconobbe solo la presenza al Palazzone, impegnato ad allontanare le donne di Fusignano che reclamavano i loro mariti, e di avere ricevuto dal Comando lire 21.000 (soldi Baldrati) per sfollare al nord. 
Testimoni contro: la nota Sandrina Valenti (ex amante del Ricciputi Angelo), sempre precisa anche quando non godeva della simpatia dei Giudici, lo collocò tra i rastrellatori del Palazzone; Leopoldo Baldrati: “Fu lui” ad ordinargli di presentarsi al Partito (conoscendo lo scopo); Anna Capucci ricordava i complimenti del Ferruzzi al Della Cava per l’abilità nello scoprire il rifugio dei Baffè e Foletti; Mario Caravita, mentre si trovava dal maniscalco a circa 500 metri dalla casa del Bartolotti, vide passare una “Topolino” con tre brigatisti armati di mitra, tra cui il Della Cava, dopo 15 minuti udì degli spari e dopo un’ora seppe dell’impiccagione sopra il Ponte di Ca’ di Lugo; Luigi Tanelli e Lando Valenti raccontarono che il Lando era stato ucciso dal Reggi alla presenza dell’imputato.
Non fu dimostrato che il Della Cava avesse materialmente ucciso nelle “macabre” operazioni.
Con sentenza del 23/04/1946 il tribunale lo giudica colpevole dei reati ascrittigli e perciò condannò il Della Cava a 20 anni di reclusione, alle spese processuali e alle altre conseguenze di legge. Ordinò la confisca della metà dei beni del condannato.

Giacometti Clemente
di Luigi e di Domenica Giansteni, nato a Lugo nel 1920, apparentemente detenuto.

Fu imputato dei seguenti fatti: 
1) Rastrellamento del Palazzone;
2) Cattura e uccisione di Orsini Aristide e Luciano; 
3) Cattura e uccisione Gaudenzi, Zirardini e Lolli (in Ravenna); 
4) Rastrellamento a Voltana (con molte uccisioni)
5) Rapina alla Banca d’Italia di Lugo (lire un milione e seicentomila)
6) Estorsione in danno di Pietro Stefanini (lire 200 mila)
7) Uccisione di Carlo Landi (26-10-44)
8) Eccidio famiglia Bartolotti
9) Cattura di Giovanni Montanari (anni 17, barbiere) successivamente ucciso
10) Uccisione di Isola Alfiero (anni 30, tipografo)
11) Violenze alla famiglia di Reggi Ilo e sequestro di una radio.
12) Arbitrario sequestro di gomme per auto ai fratelli Minardi. 
Il Giacometti, a differenza del Della Cava, ammise qualcosa di più: il rastrellamento di Voltana, l’arresto degli Orsini e di altri tre e una perquisizione in danno di Minardi. Testimoni contro: Guerrino Pirazzoli lo indicò tra i partecipanti al Palazzone; Gallignani Renzo, Ricci Emma e Ravaioli Alfredo dissero che negli omicidi degli Orsini non era stato modesto il suo ruolo. Un certo Guido dichiarò che il Giacometti stesso gli aveva confessato la sua partecipazione alla strage Bartolotti; Lippi Pompeo lo vide diritto sul camion che ritornava dal rastrellamento di Lugo; i derubati, vivi, non ebbero dubbi. I famigliari dei trucidati non esclusero che egli fosse stato tra gli aguzzini. 
Per le altre imputazioni ciò che emerse non era molto convincente. 
La Corte (23 aprile 1946, Presidente il Vicchi) fu più pesante con il Giacometti, “violento e sanguinario”, collaboratore, correo in molti crimini, esecutore materiale in alcuni omicidi. Fu condannato ad anni 30, alle spese processuali e alle altre conseguenze di legge, con la confisca della metà dei beni del condannato. ll fascicolo termina qui.

Come andò a finire il capo della provincia di Ravenna, 

il dottor Franco Bogazzi

fu Federico e di Vannucci Adelaide, nato l’8 marzo 1908 a Carrara, residente a Verona, medico chirurgo,

che dispose l’operazione di polizia del Palazzone e Zanchetta

 

Queste erano le imputazioni della Questura di Ravenna, ma il processo si svolse a Verona. Perché? 

1) stretta collaborazione con comandi tedeschi, 
2) attiva opera di propaganda, 
3) azioni di rastrellamento e di persecuzione, 
4) responsabilità nella fucilazione di tre persone, Livio Rossi, Romolo Cani e Armando Marangoni, avvenute l’11 febbraio 1944, 
5) organizzazione del rastrellamento del “Palazzone” e conseguente uccisione di otto patrioti
6) cattura del Generale di Corpo d’Armata, Raul Chiariotti. 

Verona era stata la città simbolo del secondo fascismo. Lì si era svolto il raduno per battezzare la nascita del neonato movimento, il Partito Fascista Repubblicano. In questa area si erano concentrati non solo i capi assoluti del regime, ma anche, chiamati o convenuti spontaneamente, burocrati, ufficiali dei vari corpi, dirigenti delle province liberate dagli alleati, fascisti delle numerose strutture soppresse, ex profittatori, collaborazionisti, spie, fuggiaschi generici in cerca di sicurezza e di quiete. Intenso e costante fu il flusso immigratorio, prima e dopo liberazione di Roma e della Toscana. Esso non s’interruppe mai, neppure sotto i bombardamenti della città stessa. Un fenomeno però abbastanza ordinato, in genere programmato dalle autorità locali, su cui pesava il compito di ospitare migliaia di militi e dei loro famigliari. Tra questi, dall’estate del 1944, anche i fascisti romagnoli. 

A riceverli, una vecchia conoscenza, Franco Bogazzi. Il Bogazzi, toscano di Carrara, veniva dal vecchio partito fascista, come componente del Consiglio nazionale. Nell’aprile del 1944 era il Capo Provincia di Ravenna, nominato il 25 ottobre 1943, in sostituzione del Prefetto Rapisarda Salvatore, collocato a disposizione a due mesi dalla nomina (conferitagli dal Governo Badoglio). Fu poi promosso con analogo incarico nella sede più prestigiosa di Verona, dove rimarrà fino alla liberazione. Sempre al suo fianco il vice Questore Arturo Neri, da lui chiamato da Genova, ed Emilio Valcurone, responsabile stampa del fascismo ravennate e poi di quello veronese, già processato in stato di latitanza nella prima udienza della Corte Straordinaria di Ravenna. Un camerata, un complice ed un amico il Valcurone, forse fuggito sulle Alpi in compagnia del Bogazzi stesso. 

Bogazzi aveva Lasciato Ravenna, nel maggio del 1944, dopo otto mesi di permanenza, sostituito da Emilio Grazioli, e raggiunse Verona, ove trascorse gli ultimi 11 mesi di guerra, occupando il posto di Pietro Cosmin, dirottato alla prefettura di Venezia. Più fortunato o più furbo dei colleghi e del suo superiore diretto, 
Bogazzi il 24 aprile del 1945, dopo avere svuotato le casse dello Stato, svaligiando in sequenza Banca d'Italia, Banco di Roma e Banca Nazionale del Lavoro, e in auto e sotto protezione tedesca guadagnò le montagne del Trentino e dell’Alto Adige, rendendosi irreperibile per mesi e anni.
 

Per sé il Bogazzi si era preso oltre cinque milioni, dimenticando gli spiccioli nel cassetto, forse nell’affanno della fuga. Sua anche la firma che ordinava, nelle stesse ore, la consegna immediata di 25 milioni al Colonnello Galliano Bruschelli, Comandante Militare provinciale e della GNR. Incasso arbitrario e non giustificato da compensi dovuti, ma reso possibile da un reparto armato della GNR. 

Fin dall’agosto del 1945 contro Bogazzi si era attivata la Questura di Ravenna. 

Trascorsero mesi senza che da Verona giungesse documentazione alcuna, relativa ad eventuali crimini perpetrati colà. 

Solo nel marzo del 1946 si mise in moto la locale Prefettura di Verona, con un rapporto sulle attività del Bogazzi, cui fece seguito una pronta richiesta di celebrare il processo sulle rive dell’Adige, ove si era conclusa l’attività criminosa del Capo Provincia. 
Secondo diritto, giusto e naturale, se a Verona si fossero verificati fatti di particolare gravità. Ma così non era. 
Contro Bogazzi a Verona: nessun fatto di sangue, nessun rastrellamento, nessun arresto e fucilazione di partigiani, nessuna collaborazione coi tedeschi, nessun invio di italiani in Germania, nessuna deportazione di ebrei, ecc. Incredibile.

Improvvisamente la città chiave del regime veniva presentata come una meta turistica di sfollati, vissuta per 11 mesi sotto la saggia tutela del Prefetto, che, sventuratamente, alla vigilia della liberazione (il 24 aprile) era stato colto da un raptus, con il prelievo forzato del denaro della Tesoreria, svaligiando la Banca d’Italia, il Banco di Roma e la Banca Nazionale del Lavoro. Somme consistenti, in parte destinate all’alimentazione della popolazione o soccorso dei danneggiati dalle offese aeree. 

 Comunque con un simile capo di imputazione, la competenza a giudicare sarebbe toccata a Ravenna, ma ciò non accadde. Cedimento dopo contenzioso? Non è chiaro. Emerge invece che la Corte d’Assise di Verona, non paga di avere ottenuto il caso, attenderà altri 12 mesi prima di celebrare il processo contro il latitante Bogazzi, mettendolo in calendario per il 15 marzo del 1947, termine ultimo per le Corti d’Assise, straordinarie o speciali. Casuale? 

Vediamo i fatti. 

A Faenza, l’8 febbraio 1944 era stato ucciso un allievo della Scuola Ufficiali, Ariosto Macola. Due giorni dopo, nella notte tra il 10 e l’11 febbraio, si era riunito il locale Tribunale Speciale, che rapidamente aveva concluso i lavori con tre condanne a morte (Rossi, Cani e Marangoni) e due alla reclusione, Edgardo Bezzi ad anni 30 e Mario Casadei ad anni 24, tutti imputati di sovvertimento dell’ordine pubblico e di concorso diretto od indiretto nell’omicidio del Macola. Poche ore dopo, le esecuzioni. 
Quali le colpe del Bogazzi?
 
1) Il 10 febbraio, il Capo di Gabinetto della Prefettura, il dottor Passananti, si era precipitato nell’ufficio del superiore, il Bogazzi, per mostrargli un telegramma urgentissimo inviato dal Ministro dell’Interno, il Buffarini Guidi. In esso si ordinava l’immediata sospensione dei Tribunali Speciali locali e il trasferimento delle competenze a quello regionale. Naturale, quindi, la conseguente richiesta del funzionario di intervenire per via telegrafica, onde bloccare ogni procedimento in corso. Ma con “affettata indifferenza” così rispose il Capo Provincia: “Ebbene, questo telegramma potrebbe anche essere arrivato domani”. Infine, solo per le insistenze del Passananti si procedette per le normali vie postali. Un ritardo che costò la vita a tre giovani. Pigrizia o corresponsabilità cosciente? 
Non ci sono dubbi. Basta riflettere su quel “domani”, unicamente spiegabile con la conoscenza di quanto stava per succedere nella notte a Faenza. 
Ma la Corte di Verona (Presidente il dottor Giuseppe Girotto) fu di diverso avviso. Insufficienza di prove. Motivazione: l’indomani, il Bogazzi, quando aveva saputo delle fucilazioni, si era dimostrato “sorpreso e preoccupato per l’accaduto”, come recitava la testimonianza del suo più stretto collaboratore, il citato Valcurone, mai indicato in sentenza per le sue specifiche funzioni. Del resto, se il Bogazzi veniva accreditato come uomo “non fazioso”, perché dubitare del suo collaboratore, già direttore de “La Santa Milizia”, già condannato a Ravenna per fanatismo, odio ed esaltazione delle repressioni. 

2) La vicenda del Palazzone di Fusignano (23 aprile 1944). Decine di processi celebrati a Ravenna avevano già chiarito tutto, dinamica e responsabilità italo- tedesche. Ma la Corte di Verona, capovolgendo ogni certezza, dichiarò che “non era il caso di soffermarsi molto sul cosiddetto rastrellamento di Fusignano”, giacché era dimostrato (da chi?) la prevalente responsabilità dei nazisti, cui i nostri avevano offerto qualche reparto “per la bisogna”. Notare il linguaggio. Fonte di tali assurde tesi fu il Ten. Col. Santucci, che testimoniò di essere stato spedito sul posto dal Bogazzi per controllare che i tedeschi non esagerassero. Pertanto: nessun concorso nell’omicidio degli otto partigiani, non ravvisandosi vincolo di causalità fisica o psichica nell’accaduto. 

3) Il Gen. Chiariotti, in un giorno imprecisato del gennaio 1944, era stata arrestato a Palazzolo di Toscana dai fascisti di Casola Valsenio, al comando di Lino Dall’Osso, e condotto al Carcere di Firenze, con l’accusa di generico antifascismo. Prosciolto, egli si era dato alla macchia, ma i fascisti faentini si erano vendicati, colpendo i suoi beni e i parenti. Poca cosa.

4) Restavano le imputazioni veronesi: sottrazione di denaro destinato a scopi assistenziali. Nessuna attenuante e giustificazione, poiché il motivo non era politico, bensì di lucro personale. 

Per concludere. Ad avviso della Corte (Girotto, Calvelli, Mazzon, Biancotto, Bernardinelli, Speri Tito e Menegazzi), prima di sentenziare, era opportuno ricostruire la personalità e i comportamenti quotidiani del Bogazzi. 
Uomo rispettoso, rigido nell’adempimento dei doveri, corretto, senza servilismo. Meno benevolo il giudizio del camerata Pini (Sottosegretario Ministro Interno di Salò), che così si era espresso nei suoi confronti: “aspetto pesante, atteggiamenti svagati, espressione dell’uomo sicuro di sé”. 

Lontanissimo da quanto percepito dai ravennati. A vantaggio del Bogazzi giocavano anche le onorificenze fasciste guadagnate in Spagna, due medaglie d’argento e due Croci di guerra, dovute “all’eroico e generoso comportamento” quale ufficiale medico in servizio accanto alle Camicie Nere. Sta scritto proprio così

5) Restava il collaborazionismo politico-militare con l’invasore tedesco, indubitabile data la carica rivestita. Un reato non soggetto ad amnistia per coloro che avevano rivestito “elevate funzioni di direzione civile e politica o militare”. Il caso del Bogazzi. Nessun problema per la Corte scaligera, poiché sotto la “repubblica sociale” i “prefetti” o “capi provincia” (scritti tutti in minuscolo) non contavano nulla e l’elevata funzione era solo teorica! Poco mancò che anche la latitanza fosse ritenute teorica. 

Pertanto, Franco Bogazzi, fu Federico e di Vannucci Adelaide, nato l’8 marzo 1908 a Carrara, residente a Verona, medico chirurgo, ex Capo Provincia di Verona (saltata Ravenna) incensurato, latitante, fu assolto per le imputazioni più gravi ed amnistiato per il reato di collaborazionismo

Fu condannato invece ad otto anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per peculato continuato. Nessun condono, come previsto dalla legge, per il reo in contumacia

Nella stessa giornata (il 15 marzo 1947), i difensori, Sancassani di Verona e Pezzotta di Bergamo, presentavano ricorso in Cassazione. Rapido fu il dibattimento di Roma, in data 21 novembre 1947. Parlarono a favore del Bogazzi, “reduce della guerra di Spagna”, il relatore Majorano, il difensore Ungaro, il Sostituto Procuratore Berardi. 
La Corte, presieduta da De Ficchy, non ebbe nulla da aggiungere. Eliminò la formula dubitativa per il concorso in omicidio e tolse il dolo nel reato di peculato. Infine, concesse ampiamente l’amnistia e il condono, poiché l’imputato nel frattempo si era fatto arrestare. Quindi, il Bogazzi sia immediatamente escarcerato. Resta un solo dubbio, se il dispositivo sia stato comunicato a Verona in giornata, per via telegrafica o telefonica, o con calma, per vie postali.
 Il reduce morirà a Pietra Ligure (Savona) nel dicembre del 1981 

 

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