di
Luciano Lucci
Durante
gli ultimi mesi di occupazione nazi-fascista, e subito dopo la fine della
guerra, fu il CLN (Comitato di Liberazione) che si assunse il compito di
governare la popolazione alfonsinese, prima aiutando coloro che erano
rimasti sotto le bombe e non avevano voluto abbandonare le loro case, poi
gli sfollati costretti ad andarsene quando i tedeschi rasero al suolo
l'intero vecchio centro, infine gettando le basi per avviare in tempi rapidi
la ricostruzione. Il luogo emblematico dove tutto questo ha avuto origine e
radici lo si può identificare con le due case dei Savioli, in via Puglie e
in via Guerrina: qui si riunivano, in clandestinità, il Comitato di
Liberazione Provinciale e
la Federazione Provinciale
del Partito Comunista Italiano. Abbiamo cercato più informazioni chiedendo
a Paolo Savioli (Pavlè d'Saviol), un vispo vecchietto ultra novantenne, di
raccontarci come la sua vita si intrecciò in quegli anni con persone
importanti del calibro di Bulow e Zaccagnini.
La
vita avventurosa di Pavlé d’Saviol
Pavlé
faceva parte della famiglia "di Saviùl", una famiglia che già
nei primi del '900 era composta da una ventina e più di persone. Come
mezzadri lavorarono alcuni poderi dei Massaroli, finché negli anni '30
acquistarono in proprio vari terreni da Luigiò d'Maré, dividendoli tra i
due fratelli. I Savioli furono una delle poche famiglie tra i contadini
alfonsinesi che non aderì al fascismo. Contattato dal cugino Minghinett di
Saviùl d'Pir, Paolo si iscrisse al Partito Comunista clandestino, a soli
quindici anni.
Disertore
e condannato a morte
Paolo
Savioli in carcere a Trieste di fronte alla sua cella:
21 agosto 1943. Due settimane dopo fuggirà dal carcere.
Nei primi mesi del 1940, con l'inizio della seconda
guerra mondiale, fu richiamato alle armi, come sergente nel "3°
Reggimento Artiglieria Alpina" affiancato alla Divisione "Iulia".
Proprio in tempo per essere avviato al fronte greco. Ma quando il suo
reggimento era pronto alla partenza dal porto di Brindisi per essere inviato
in Grecia, Pavlé di Saviùl decise di disertare ("I compagni del
partito mi avevano insegnato che non dovevo andare a combattere fuori
dall'Italia perché avrei potuto uccidere anche chi la pensava come
noi"). Riuscì a fuggire e a raggiungere a piedi Alfonsine. Qui
rimase nascosto per un po' a casa sua.
Ricercato
freneticamente dalla polizia, con l'aiuto del partito, decise di andare in
Jugoslavia, a combattere con i partigiani slavi. Raggiunse Zara, ma fu
catturato prima di entrare in contatto con i partigiani locali, poi
incarcerato e portato a Milano. Dopo aver subito durissimi interrogatori,
ormai ridotto a cinquanta chili, fu processato e condannato a morte dal
Tribunale Speciale di Guerra. Per merito del suo avvocato Genunzio Bentini,
ottenne di ridurre la pena a vent'otto anni di carcere. Era il 1940 e iniziò a scontare la pena nel carcere di Trieste. Quando nel 1944, dopo
la disfatta dell'esercito, arrivarono i tedeschi ad occupare Trieste e a
sostituire gli italiani nella gestione del carcere, ci furono scontri e
centinaia di prigionieri furono falciati dalle raffiche dei tedeschi. Nel
fuggi-fuggi generale Paolo riuscì ad evadere. Alternando tratti a piedi e
altri in treno, tra peripezie varie come quelle che si raccontano nei film
di guerra, tornò ad Alfonsine.
2016:
ecco come si presenta la 'Casa dei Savioli', via Puglie, dove
c'era la sede clandestina del CLN di Alfonsine
Qui scoprì una realtà nuova: la sua casa
era diventata la sede clandestina della Federazione Ravennate del Partito
Comunista ed era frequentata da personaggi importanti: Gaetano Verdelli era
il segretario e veniva da Bologna, poi c'era Bedeschi, il fratello di Pinàz.
Anche Giuseppe Dozza, che sarà primo sindaco di Bologna del dopoguerra,
partecipò ad alcune riunioni. Qui si riuniva anche il CLN provinciale con
Arrigo Boldrini (Bulow), Ennio Cervellati, Pellegrino Montanari, e Benigno
Zaccagnini. Così entrò subito a far parte dei G.A.P. alfonsinesi, ed ebbe
modo di fare amicizia con tutti questi personaggi e in particolare con
Boldrini e Zaccagnini, di due anni più vecchio di lui, che rappresentava i
democristiani nel CNL provinciale, e che fu ospite in tutto il periodo di
clandestinità proprio nel rifugio delle case dei Savioli.
Un
duro scontro con Zaccagnini
Pavlè ebbe uno scontro violento con Zaccagnini,
che rischiò di incrinare l'unità del CLN. Pavlé e Benigno erano
amici pur essendo di idee politiche opposte, e passavano insieme diverse
notti nei rifugi a discutere e a darsi contro l'un l'altro. Ma un giorno
successe un episodio spiacevole: erano stati arrestati in paese dai tedeschi
tre alfonsinesi: Bruno d'Stevan (Pagani), Don Liverani, l'arciprete, e
Tullio d'Saviol, uno dei cugini di Paolo. Li avevano messi al muro nel
piazzale della vecchia chiesa, vicino al negozio di barbiere di Brasulina.
C'era tra i fascisti repubblichini anche il tristemente noto e famigerato
Sciantén: li volevano fucilare per un discorso che Don Liverani aveva
tenuto in piazza contro i repubblichini. La sorella di Zaccagnini arrivò al
mattino a casa Savioli e ne parlò con Benigno, il quale chiese di
organizzare i partigiani gappisti e di andare a liberare i tre prigionieri.
A Paolo scappò una delle sue battute taglienti (di cui si dispiacque in
seguito): "State calmi... non preoccupatevi - disse ironico - perché al momento
della fucilazione, fucileranno gli altri due, ma non Don Liverani: Sciantén
gli dirà qualcosa nell'orecchio e si salverà..." La sorella di
Zaccagnini gli si rivolse contro con una dose di improperi e insulti, "Vedi
dove siamo... vedi dove sei venuto?..." rivolta al fratello, il
quale apparve adirato e inveì contro Pavlé. Fuori dalle staffe, Pavlé
estrasse la pistola, ma fu subito fermato da suo fratello che gliela fece
cadere. Zaccagnini se ne andò infuriato e trovò asilo in un'altra casa di
contadini, di fianco al Naviglio, da Bascianò. In seguito su pressione di
tutto lo staff maggiore del partito (Verdelli, Agide Samaritani, Bulow...
"Abbiamo bisogno di Zaccagnini,
che dobbiamo stare insieme"...) a Pavlé fu ordinato di
andare a chiedere scusa a Zaccagnini, e così fece. Dopo un certo tira e
molla, Zaccagnini si decise a tornare a casa Savioli. Nel dopoguerra Pavlé
e Zaccagnini rimasero amici tanto che lui lo andò a trovare in ospedale,
quando Benigno ebbe un incidente con la sua "topolino", e là
c'era anche la sorella. Pavlé partecipò al cordoglio della famiglia
Zaccagnini, in occasione della sua morte, ricevuto dalla famiglia come un
amico intimo.
Nel
novembre del 1944 partecipò alla battaglia delle Valli con la Colonna
Wladimiro. Racconta che un giorno fu chiamato dal comandante di una
compagnia di partigiani di Russi che avevano catturato un alfonsinese che si
era dichiarato fascista. Quel comandante era Luciano Pezzi detto Stano, quello che divenne un famoso ciclista. Quando vide il
personaggio che avevano catturato lo riconobbe come un povero scemotto di
paese che di nome faceva Baccarini “Lasciatelo andare, questo non può
far male a nessuno”. In quei giorni Pavlé fu ferito a un braccio durante
uno scontro con i tedeschi. Una parte del distaccamento fu costretto a
ripiegare verso Alfonsine e un’altra parte riuscì ad arrivare a Ravenna,
che era appena stata liberata. Pavlé si fece curare in ospedale poi
tornò nella sua casa e vi rimase come partigiano clandestino fino alla fine
della guerra.
Un
carro armato tedesco nascosto
Una delle tante leggende metropolitane vuole che
Pavlé d'Saviol avesse nascosto armi e un intero carro armato nei terreni
del suo podere al tempo della fine della guerra. Nell'immediato dopoguerra
la vecchia abitazione di Pavlé,
ormai cadente, era stata demolita, mentre a poca distanza
fu costruita quella nuova. Abbattuta anche una vecchia cantina, dove
si faceva il vino, le vasche sottostanti furono riempite con macerie e terra
per ampliare il podere. Alcuni dei figli del contadino confinante con i
Savioli, andavano per i campi in cerca di ferro e materiale bellico da
vendere. Il padre di questi bambini per burlarsi di loro un giorno disse:
"Andate da i Saviùl. Loro sì
che ne hanno di armi... e in più hanno un carro armato intero nascosto
sotto terra, nella cantina dove c'era la vecchia casa. Pavlé tutte le
mattine entra nella botola e va ad oliare tutto quel ben di Dio!"
La chiacchiera iniziò a girare in paese, e fu così che Pavlé non si
tolse più da dosso la reputazione di sovversivo comunista che aveva sepolto
nelle vasche un intero carro armato con mitragliatrici, proiettili e tutto
un armamentario utile in caso di rivoluzione. Passando di bocca in bocca nei
racconti da bar, le storie che si sentivano erano sempre più colorite, ma
gli costarono anche una brutta esperienza. Nel 1961, durante lavori di
aratura, i resti di quattro famose persone alfonsinesi, fatte scomparire
nell'immediato dopoguerra erano stati ritrovati vicino alla Canalina,
ciascuna con un colpo in testa. I carabinieri furono attivati alla ricerca
dei colpevoli. Le indagini cercavano di appurare quali armi avessero sparato
e chi poteva averle rimaste, per fare un confronto balistico con i
proiettili trovati. Chi più di Pavlé poteva essere indagato? Iniziarono le
perquisizioni e la ricerca delle due vasche da vino sotterrate. Pavlé
stesso - tranquillo come non mai - si sforzava di dare indicazioni dove
avrebbero potuto scavare. Dopo giornate di faticosi lavori finalmente furono
trovate le vasche che risultarono piene solo di macerie della cantina
demolita. L’ipotesi che il carro armato e altre armi fossero sepolte sotto
la casa nuova accarezzò per un attimo gli inquirenti. Ma di fronte alla
prospettiva di demolire la casa e di ricostruirla a spese dello stato, e
magari di non trovare nulla, le ricerche furono sospese. Poiché qualcosa si
doveva pur trovare, sequestrarono a Pavlé una pistola tedesca da guerra
(non denunciata). Rinviato a giudizio per possesso di arma da guerra, fu
costretto a subire il processo che si tenne a Venezia: fu assolto perché
quella pistola, così com'era, non fu riconosciuta idonea a sparare.
“Ma
il carro armato c’era o no sotto la casa? - abbiamo chiesto a Pavlé.
“Mo’ dai,... l’era una ciacra"
Comunisti
alfonsinesi a scuola di Partito (dopoguerra, fine anni '40). Pavlé in prima
fila.
cliccare o toccare sulla foto per averne un
ingrandimento
Nella
foto Paolo Savioli apre il corteo di un “X Aprile-Festa della
Liberazione” dei primi anni ’50, in Corso Garibaldi.
Da
sinistra un carabiniere, poi le due guardie municipali ‘Tugnì’-(Antonio
Tarroni) e ‘e Profes’-(Luigi Pattuelli), al centro il primo
portabandiera è Gabéna-(Antonio Contarini), all’epoca segretario
comunale, l’altro con la bandiera non è stato riconosciuto, quindi
Pavlé-(Paolo Savioli) e ‘Frusto’-(Giancarlo Pezzi). |
|