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Alfonsine

| Ricerche sull'anima di Alfonsine |

 

Nelle due case dei fratelli Savioli 
si realizzò l’unità degli antifascisti

A ca’ di Saviùl

I racconti di Pavlé d’Saviol (Paolo Savioli classe 1915)

di Luciano Lucci  

Durante gli ultimi mesi di occupazione nazi-fascista, e subito dopo la fine della guerra, fu il CLN (Comitato di Liberazione) che si assunse il compito di governare la popolazione alfonsinese, prima aiutando coloro che erano rimasti sotto le bombe e non avevano voluto abbandonare le loro case, poi gli sfollati costretti ad andarsene quando i tedeschi rasero al suolo l'intero vecchio centro, infine gettando le basi per avviare in tempi rapidi la ricostruzione. Il luogo emblematico dove tutto questo ha avuto origine e radici lo si può identificare con le due case dei Savioli, in via Puglie e in via Guerrina: qui si riunivano, in clandestinità, il Comitato di Liberazione Provinciale e la Federazione Provinciale del Partito Comunista Italiano. Abbiamo cercato più informazioni chiedendo a Paolo Savioli (Pavlè d'Saviol), un vispo vecchietto ultra novantenne, di raccontarci come la sua vita si intrecciò in quegli anni con persone importanti del calibro di Bulow e Zaccagnini.

 La vita avventurosa di Pavlé d’Saviol  

Pavlé faceva parte della famiglia "di Saviùl", una famiglia che già nei primi del '900 era composta da una ventina e più di persone. Come mezzadri lavorarono alcuni poderi dei Massaroli, finché negli anni '30 acquistarono in proprio vari terreni da Luigiò d'Maré, dividendoli tra i due fratelli. I Savioli furono una delle poche famiglie tra i contadini alfonsinesi che non aderì al fascismo. Contattato dal cugino Minghinett di Saviùl d'Pir, Paolo si iscrisse al Partito Comunista clandestino, a soli quindici anni.

 Disertore e condannato a morte  

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Paolo Savioli in carcere a Trieste di fronte alla sua cella:
21 agosto 1943. Due settimane dopo fuggirà dal carcere.

Nei primi mesi del 1940, con l'inizio della seconda guerra mondiale, fu richiamato alle armi, come sergente nel "3° Reggimento Artiglieria Alpina" affiancato alla Divisione "Iulia". Proprio in tempo per essere avviato al fronte greco. Ma quando il suo reggimento era pronto alla partenza dal porto di Brindisi per essere inviato in Grecia, Pavlé di Saviùl decise di disertare ("I compagni del partito mi avevano insegnato che non dovevo andare a combattere fuori dall'Italia perché avrei potuto uccidere anche chi la pensava come noi"). Riuscì a fuggire e a raggiungere a piedi Alfonsine. Qui rimase nascosto per un po' a casa sua. Ricercato freneticamente dalla polizia, con l'aiuto del partito, decise di andare in Jugoslavia, a combattere con i partigiani slavi. Raggiunse Zara, ma fu catturato prima di entrare in contatto con i partigiani locali, poi incarcerato e portato a Milano. Dopo aver subito durissimi interrogatori, ormai ridotto a cinquanta chili, fu processato e condannato a morte dal Tribunale Speciale di Guerra. Per merito del suo avvocato Genunzio Bentini, ottenne di ridurre la pena a vent'otto anni di carcere. Era il 1940 e iniziò a scontare la pena nel carcere di Trieste. Quando nel 1944, dopo la disfatta dell'esercito, arrivarono i tedeschi ad occupare Trieste e a sostituire gli italiani nella gestione del carcere, ci furono scontri e centinaia di prigionieri furono falciati dalle raffiche dei tedeschi. Nel fuggi-fuggi generale Paolo riuscì ad evadere. Alternando tratti a piedi e altri in treno, tra peripezie varie come quelle che si raccontano nei film di guerra, tornò ad Alfonsine. 

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2016: ecco come si presenta la 'Casa dei Savioli', via Puglie, dove c'era la sede clandestina del CLN di Alfonsine

Qui scoprì una realtà nuova: la sua casa era diventata la sede clandestina della Federazione Ravennate del Partito Comunista ed era frequentata da personaggi importanti: Gaetano Verdelli era il segretario e veniva da Bologna, poi c'era Bedeschi, il fratello di Pinàz. Anche Giuseppe Dozza, che sarà primo sindaco di Bologna del dopoguerra, partecipò ad alcune riunioni. Qui si riuniva anche il CLN provinciale con Arrigo Boldrini (Bulow), Ennio Cervellati, Pellegrino Montanari, e Benigno Zaccagnini. Così entrò subito a far parte dei G.A.P. alfonsinesi, ed ebbe modo di fare amicizia con tutti questi personaggi e in particolare con Boldrini e Zaccagnini, di due anni più vecchio di lui, che rappresentava i democristiani nel CNL provinciale, e che fu ospite in tutto il periodo di clandestinità proprio nel rifugio delle case dei Savioli.

 Un duro scontro con Zaccagnini

 Pavlè ebbe uno scontro violento con Zaccagnini,  che rischiò di incrinare l'unità del CLN. Pavlé e Benigno erano amici pur essendo di idee politiche opposte, e passavano insieme diverse notti nei rifugi a discutere e a darsi contro l'un l'altro. Ma un giorno successe un episodio spiacevole: erano stati arrestati in paese dai tedeschi tre alfonsinesi: Bruno d'Stevan (Pagani), Don Liverani, l'arciprete, e Tullio d'Saviol, uno dei cugini di Paolo. Li avevano messi al muro nel piazzale della vecchia chiesa, vicino al negozio di barbiere di Brasulina. C'era tra i fascisti repubblichini anche il tristemente noto e famigerato Sciantén: li volevano fucilare per un discorso che Don Liverani aveva tenuto in piazza contro i repubblichini. La sorella di Zaccagnini arrivò al mattino a casa Savioli e ne parlò con Benigno, il quale chiese di organizzare i partigiani gappisti e di andare a liberare i tre prigionieri. A Paolo scappò una delle sue battute taglienti (di cui si dispiacque in seguito): "State calmi... non preoccupatevi - disse ironico - perché al momento della fucilazione, fucileranno gli altri due, ma non Don Liverani: Sciantén gli dirà qualcosa nell'orecchio e si salverà..." La sorella di Zaccagnini gli si rivolse contro con una dose di improperi e insulti, "Vedi dove siamo... vedi dove sei venuto?..." rivolta al fratello, il quale apparve adirato e inveì contro Pavlé. Fuori dalle staffe, Pavlé estrasse la pistola, ma fu subito fermato da suo fratello che gliela fece cadere. Zaccagnini se ne andò infuriato e trovò asilo in un'altra casa di contadini, di fianco al Naviglio, da Bascianò. In seguito su pressione di tutto lo staff maggiore del partito (Verdelli, Agide Samaritani, Bulow... "Abbiamo bisogno di Zaccagnini,  che dobbiamo stare insieme"...) a Pavlé fu ordinato di andare a chiedere scusa a Zaccagnini, e così fece. Dopo un certo tira e molla, Zaccagnini si decise a tornare a casa Savioli. Nel dopoguerra Pavlé e Zaccagnini rimasero amici tanto che lui lo andò a trovare in ospedale, quando Benigno ebbe un incidente con la sua "topolino", e là c'era anche la sorella. Pavlé partecipò al cordoglio della famiglia Zaccagnini, in occasione della sua morte, ricevuto dalla famiglia come un amico intimo.

Nel novembre del 1944 partecipò alla battaglia delle Valli con la Colonna Wladimiro. Racconta che un giorno fu chiamato dal comandante di una compagnia di partigiani di Russi che avevano catturato un alfonsinese che si era dichiarato fascista. Quel comandante era Luciano Pezzi detto Stano, quello che divenne un famoso ciclista. Quando vide il personaggio che avevano catturato lo riconobbe come un povero scemotto di paese che di nome faceva Baccarini “Lasciatelo andare, questo non può far male a nessuno”. In quei giorni Pavlé fu ferito a un braccio durante uno scontro con i tedeschi. Una parte del distaccamento fu costretto a ripiegare verso Alfonsine e un’altra parte riuscì ad arrivare a Ravenna, che era appena stata liberata. Pavlé si fece curare in ospedale poi  tornò nella sua casa e vi rimase come partigiano clandestino fino alla fine della guerra.

Un carro armato tedesco  nascosto

 Una delle tante leggende metropolitane vuole che Pavlé d'Saviol avesse nascosto armi e un intero carro armato nei terreni del suo podere al tempo della fine della guerra. Nell'immediato dopoguerra la vecchia  abitazione di Pavlé, ormai cadente, era stata demolita, mentre a poca distanza  fu costruita quella nuova. Abbattuta anche una vecchia cantina, dove si faceva il vino, le vasche sottostanti furono riempite con macerie e terra per ampliare il podere. Alcuni dei figli del contadino confinante con i Savioli, andavano per i campi in cerca di ferro e materiale bellico da vendere. Il padre di questi bambini per burlarsi di loro un giorno disse: "Andate da i Saviùl. Loro sì che ne hanno di armi... e in più hanno un carro armato intero nascosto sotto terra, nella cantina dove c'era la vecchia casa. Pavlé tutte le mattine entra nella botola e va ad oliare tutto quel ben di Dio!"  La chiacchiera iniziò a girare in paese, e fu così che Pavlé non si tolse più da dosso la reputazione di sovversivo comunista che aveva sepolto nelle vasche un intero carro armato con mitragliatrici, proiettili e tutto un armamentario utile in caso di rivoluzione. Passando di bocca in bocca nei racconti da bar, le storie che si sentivano erano sempre più colorite, ma gli costarono anche una brutta esperienza. Nel 1961, durante lavori di aratura, i resti di quattro famose persone alfonsinesi, fatte scomparire nell'immediato dopoguerra erano stati ritrovati vicino alla Canalina, ciascuna con un colpo in testa. I carabinieri furono attivati alla ricerca dei colpevoli. Le indagini cercavano di appurare quali armi avessero sparato e chi poteva averle rimaste, per fare un confronto balistico con i proiettili trovati. Chi più di Pavlé poteva essere indagato? Iniziarono le perquisizioni e la ricerca delle due vasche da vino sotterrate. Pavlé stesso - tranquillo come non mai - si sforzava di dare indicazioni dove avrebbero potuto scavare. Dopo giornate di faticosi lavori finalmente furono trovate le vasche che risultarono piene solo di macerie della cantina demolita. L’ipotesi che il carro armato e altre armi fossero sepolte sotto la casa nuova accarezzò per un attimo gli inquirenti. Ma di fronte alla prospettiva di demolire la casa e di ricostruirla a spese dello stato, e magari di non trovare nulla, le ricerche furono sospese. Poiché qualcosa si doveva pur trovare, sequestrarono a Pavlé una pistola tedesca da guerra (non denunciata). Rinviato a giudizio per possesso di arma da guerra, fu costretto a subire il processo che si tenne a Venezia: fu assolto perché quella pistola, così com'era, non fu riconosciuta idonea a sparare.

 “Ma il carro armato c’era o no sotto la casa? - abbiamo chiesto a Pavlé. “Mo’ dai,... l’era una ciacra"

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Comunisti alfonsinesi a scuola di Partito (dopoguerra, fine anni '40). Pavlé in prima fila.

 

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Nella foto Paolo Savioli apre il corteo di un “X Aprile-Festa della Liberazione” dei primi anni ’50, in Corso Garibaldi.

Da sinistra un carabiniere, poi le due guardie municipali ‘Tugnì’-(Antonio Tarroni) e ‘e Profes’-(Luigi Pattuelli), al centro il primo portabandiera è Gabéna-(Antonio Contarini), all’epoca segretario comunale, l’altro con la bandiera non è stato riconosciuto, quindi Pavlé-(Paolo Savioli) e ‘Frusto’-(Giancarlo Pezzi).

 

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