Alfonsine

| Alfonsine | Ricerche sull'anima di Alfonsine

Miti di Romagna

Lo scalogno di Romagna
 

di Loris Pattuelli

            

Lo scalogno di Romagna (allium ascalonicum) sembra un disegno di Vincent Van Gogh  e,  se non si offende nessuno, direi che mi ricorda anche la chitarra di Jimi Hendrix.

Un tempo sottaceto per braccianti ed oggi prelibatezza per grandi cuochi, lo scalogno è la cosa più romagnola che si possa trovare su questo pianeta.

“Allium” deriva da “all”,  parola celtica  che significa “bruciante”,  mentre il nome “ascalonicum” viene da “Ascalon”, un’antica città della Palestina.

Lo scalogno è arrivato in Romagna con i Celti e, visto che negli ultimi tremila anni nessuno è più riuscito a trovarlo allo stato selvatico, mi verrebbe quasi da dire che il suo corredo genetico è ancora quello del mitico Giardino dell’Eden.

A differenza dell’aglio, della cipolla e degli scalogni francesi o americani, questo rinomato membro della famiglia delle liliacee non produce infiorescenze e,  per arrivare sulle nostre tavole, ha bisogno che una qualche  mano amorevole ne selezioni ogni anno i bulbilli e li pianti poi in un terreno di medio impasto, tendenzialmente argilloso, asciutto, ben dotato di potassio e di sostanza organica, ben esposto e soprattutto ben drenato.

Lo scalogno (una volta si chiamava scalogna) è l’abitante più rappresentativo di quel pezzetto di mondo che sta tra le paludi, l’Appennino e il mare Adriatico, direi quasi  una divinità antidiluviana creata dai suoi stessi abitanti in un momento di esaltazione mistica e sensuale.

Lo scalogno di Romagna IGP (indicazione geografica protetta reg. le. n. 2325/97 del 24/XI/1977) deve essere prodotto esclusivamente da coltivazioni ubicate nell’ambito delle seguenti zone: in provincia di Ravenna, nei comuni di Brisighella, Casola Valsenio, Castelbolognese,  Faenza, Riolo Terme, Solarolo; in provincia di Forlì-Cesena, nei comuni di Modigliana e Tredozio; in provincia di Bologna, nei comuni di Borgo Tossignano, Casalfiumanese, Castel del Rio, Castel Guelfo, Dozza, Fontanelice, Imola, Mordano.

Lo scalogno viene di solito confezionato in forma di treccia del peso di circa un chilogrammo, ma la tradizione ne prevede anche di due chili, vere e proprie sciccherie della civiltà contadina. I più diffusi sono però i mazzetti da mezzo chilo, quelli con la retina e la scatola di cartone colorata.

Lo scalogno ha forma a fiaschetto, il fusto ritorto, le radici filiformi, la buccia coriacea del colore del sole, della terra, della nebbia e delle nuvole.

Gli spicchi dello scalogno sono una libera associazione di simili e, a differenza dell’aglio, non sono disposti a raccogliersi in un unico involucro.

Come dice Graziano Pozzetto in  LO SCALOGNO DI ROMAGNA (cibo per Venere in   579 ricette) PANOZZO EDITORE, il nostro caro bulbo “si presenta caratterialmente e tipicamente in spicchi multipli”.

Si poteva dire meglio? Penso proprio di no.

Secondo me, caro lettore, lo scalogno è quanto di più autenticamente romagnolo ci possa essere oggi in giro, ed è anche il nostro antenato più antico e bizzarro.

Meglio farsene una ragione: noi siamo effettivamente “spicchi multipli”, eccetera, eccetera, e non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.

| Alfonsine | Ricerche sull'anima di Alfonsine |