Il
Federale Tosi: “Tu sei fascista?”
“No”
Un’altra mattina, essendo a casa da scuola (forse in occasione di
un’altra festività fascista), stavo nel bar assieme a mio fratello
maggiore. Era d’inverno e i pochi clienti del mattino, quasi tutti erano
giovani disoccupati, si scaldavano attorno alla stufa. D’un tratto dalla
Casa del Fascio, all’angolo opposto della piazza, spuntò un gruppo di
persone in camicia nera; al centro di questo gruppo c’era un personaggio
in divisa da ufficiale della milizia, capimmo subito che era il Federale,
un certo signor Tosi. Avanzavano verso il nostro bar. Mino capì per
primo, dall’atteggiamento deciso del gruppo, che stavano venendo a farci
visita. Avvertì subito i clienti dicendo: “Ragazzi stanno arrivando i
fascisti di Alfonsine con il Federale!” Entrarono.
Il
Federale iniziò ad interrogare tutti, uno per volta, facendo sempre la
stessa domanda: “Tu sei fascista?”
Nessuno rispose di esserlo. Poi si rivolse, molto irritato, a Mino, che si
trovava dietro il banco: “Tu sei fascista?” Gli
rispose che non lo era nemmeno lui.
Il
Federale, sempre più nervoso, sfogava la sua rabbia parlando ad alta
voce. A un tratto sulla porta si presentò mia madre che veniva dalla
cucina e, rivolgendosi direttamente al Federale, disse ad alta voce: “Se
ha qualcosa da dire, lo dica a me, perché sono io la titolare del bar,
mio figlio non c'entra.” A quel punto la sorpresa del Federale e dei
fascisti fu così grande che rimasero muti e, aprendo la porta per uscire,
non seppero dire altro che: “Buongiorno.”
Forse
l’atteggiamento deciso di mia madre e le sue parole pronunciate con
forza e coraggio, insoliti per una donna di quel tempo, convinsero i
fascisti a rinunciare alla lite. Del resto quelle erano visite che si
facevano solamente al “Cafè d’Cai”.
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Andrea
Minguzzi: l’eroe volontario di Spagna
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Una
sera, quando da poco la Spagna da monarchia si era trasformata in
Repubblica mediante libere elezioni, stavamo ascoltando, di nascosto, le
notizie trasmesse da radio Mosca sulla guerra civile in Spagna.
Apprendemmo così che un volontario della brigata internazionale
repubblicana comandata da Randolfo Pacciardi si era comportato da eroe,
perché da solo, col suo fucile mitragliatore, aveva rotto
l’accerchiamento, riuscendo a far passare il suo battaglione e a
mettersi in salvo; ma era rimasto sul terreno accanto al suo fucile,
ferito così gravemente da sembrare morto. Lo speaker aggiunse il nome del
volontario: era Andrea Minguzzi, di Alfonsine. Ne fummo orgogliosi.
Ricordo che avemmo anche l’occasione di ascoltare, per la prima volta,
una registrazione di David Oistrakh, che si esibiva col suo violino,
all’età di dodici anni, nell’Andante del concerto di Lalo: la
Sinfonia Spagnola.
La
guerra civile, scoppiata in quel paese, fu causata dal generale ribelle
Franco che, tornando dalle colonie con le sue truppe, iniziò la guerra
contro la nuova repubblica aiutato dall’Italia fascista e della Germania
nazista, attraverso invio di armi e volontari che andavano a ingrossare
le fila dei falangisti di Franco.
Qualche anno dopo, a pochi giorni dalla caduta di Mussolini da Capo di
Stato, destituito dal re Vittorio Emanuele Terzo, tornarono a casa diversi
antifascisti, riparati in Francia, nel lungo periodo del fascismo, e tra
quelli c’era anche lui, Andrea Minguzzi.
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Giocando con tre bambini ebrei
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Una sera, all’epoca delle leggi razziali, fatte e volute da Mussolini
nel ’38, ricordo che stavo giocavo col mio caro amico Natalino, (Natale
Tarroni detto Nadalì d’la Biastména) nella saletta vuota attigua al
suo ristorante, che faceva anche servizio da albergo.
Dalla
scala che portava nelle stanze da letto, scesero tre bambini, più piccoli
di noi, con i loro genitori. Ci mettemmo a giocare tutti insieme, mentre i
loro familiari si appartarono con Pino, Giuseppe Faccani, lo zio di
Natalino, un signore che conoscevo bene: era molto robusto e girava con le
stampelle perché aveva le gambe paralizzate a causa di un infortunio sul
lavoro capitatogli mentre era emigrato negli Stati Uniti, subito dopo la
prima guerra mondiale. Si sedettero attorno ad un tavolo, parlando sotto
voce. Ogni tanto riuscivo a capire qualche parola: compresi che erano di
Fiume, dove erano proprietari di un grande negozio chiamato "I mille
articoli".
Capii
che erano ebrei e che desideravano arrivare al più presto in Svizzera.
Sembravano molto preoccupati. Finito di giocare tornai a casa.
La
sera a cena chiesi a mio padre chi fossero gli ebrei. Mi rispose che erano
persone di una religione diversa dalla nostra, ma che non per questo
dovevano essere considerati diversi da noi; continuò affermando che i
fascisti, in quel periodo, li perseguitavano al punto di costringerli ad
abbandonare l’Italia, facendo così perdere loro il lavoro e la casa.
Mi
chiese per quale motivo gli rivolgevo quella domanda ed io gli raccontai
che nel pomeriggio, insieme a Natalino, avevo conosciuto tre bambini
ebrei, mentre i loro genitori parlavano con Pino. Mio padre immaginò che
Pino si fosse prestato a nascondere la famiglia ebrea. Sapemmo, qualche
settimana dopo, che erano riusciti a raggiungere sani e salvi la Svizzera,
nazione libera e democratica.
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Dal
’39 al ’40, muore mio padre e inizia la guerra
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La scomparsa di mio padre, avvenuta nel 1939, oltre a procurarmi un
grande dolore, provocò in me una grossa trasformazione: da bambino qual
ero mi trovai improvvisamente a dover assumere delle responsabilità più
grandi di me, dovute alla situazione familiare in cui mi trovavo: non
potevo contare sui miei fratelli, perché a quel tempo erano entrambi
militari, lontano da casa, e la precoce obesità di mia madre le impediva
di darmi un valido aiuto nel lavoro del bar. Ogni tanto l’uno o
l’altro dei miei fratelli veniva a casa, per una breve licenza, così in
quei giorni potevo riprendere i contatti con gli amici, che avevo lasciato
per cause indipendenti dalla mia volontà.
Nel
’40 ebbe inizio la seconda guerra mondiale.
Ad
Alfonsine, nei primi mesi, non si sentivano ancora disagi o pericoli,
salvo quando arrivava la notizia della morte di un nostro conoscente o
amico dai vari fronti aperti ogni giorno in Europa e in Africa dal
nazi-fascismo (Asse Roma-Berlino).
Purtroppo
però i disagi e i pericoli non tardarono molto ad arrivare: lo Stato
dovette applicare il razionamento dei generi alimentari; non si trovava più
il caffè, e lo si faceva con dei surrogati anche per la clientela del
bar; lo zucchero era razionato, gli alcolici non si trovavano più.
C’erano solo il vino, il vermut e la birra. I liquori autarchici fatti
con le bustine non li beveva nessuno. Inoltre c’era aranciata e
pasticceria secca.
In
quel periodo ad Alfonsine, trattandosi di una zona agricola molto ricca,
s’incontravano spesso forestieri che venivano dalle vicine città
emiliane e toscane in cerca di qualsiasi genere alimentare (farina,
fagioli, insaccati).
Si facevano accompagnare a casa dei contadini dagli autisti di piazza, per
acquistare di tutto. Evidentemente queste cose nelle loro città non si
trovavano già più, e così iniziò il mercato nero, la vendita
clandestina dei generi alimentari.
Ciò consentiva, a chi aveva soldi disponibili, di rimediare alla scarsità
e all’insufficienza dovuti al razionamento imposto a causa della guerra.
Ma i più non potevano affrontare le spese clandestine per il cibo perché
i prezzi erano aumentati di dieci, venti e anche trenta volte il costo
normale, e così dovevano vivere nelle ristrettezze.
...
Di mattina frequentavo l’Istituto Tecnico Inferiore la cui
sede era nel Palazzo del Popolo...
Venne
l’inverno del ’40.
Di mattina frequentavo l’Istituto Tecnico Inferiore la cui sede era nel
Palazzo del Popolo, subito dopo il ponte della piazza; di pomeriggio
facevo il servizio nel bar e la sera, dopo cena, lo riprendevo fino alla
chiusura, che avveniva circa a mezzanotte.
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La
divisa da "avanguardista"
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Nel periodo in
cui frequentavo l’Istituto, era obbligatorio, il sabato, andare a scuola
in divisa fascista: quella dell’avanguardista. Questa divisa era
considerata molto attraente per noi giovani. Era composta da un paio di
pantaloni alla zuava, grigio-verde, legati alla caviglia; le ghette
gialline che si abbottonavano esternamente, coprendo così i laccetti
delle scarpe e i lacci dei pantaloni; la giacca, anch’essa grigio-verde
di tipo militare, con tasche e taschini, era stretta al fianco da una
cintura molto alta, chiusa da una piastra, abbastanza vistosa, con uno
stemma mussoliniano; il maglione, che usciva dalla giacca, era nero e
mostrava una medaglia con l’effige del fascio; il berretto era un fez
nero, con al centro una emme di metallo e il fiocco lungo che scendeva
sulla schiena.
Per noi giovani, quella divisa era bellissima!
Devo premettere
che io non avevo chiesto alla mia famiglia di averla, perché ero sicuro
che me l’avrebbero negata: i miei erano antifascisti. Il
sabato, quando tutti si recavano a scuola indossando la divisa, io andavo
dieci minuti prima a casa del mio amico Mauro Ghetti che me la prestava.
|
...Questa divisa era considerata molto
attraente per noi giovani...(Gruppo
avanguardisti di Alfonsine: al centro il gerarca Camanzi in
divisa da ex-combattente)
...
il berretto era un fez
nero, con al centro una emme di metallo e il fiocco lungo che scendeva
sulla schiena... |
Mi
ricordo che un sabato, mentre eravamo in un’aula, durante l’attesa
dell’inizio della lezione, dalla porta semichiusa vedemmo arrivare un
nostro compagno di Mezzano, Rossano Minguzzi. Non portava la divisa ed era accompagnato dal padre, un uomo molto
alto con un vistoso cerotto sulla fronte. Si recarono in segreteria dal
preside De Robertis, insegnante di italiano e latino, e, da quello che
potemmo udire, capimmo che non era venuto per scusarsi del fatto che il
figlio non indossava la divisa, ma ribadiva che, a suo parere, a scuola
non era necessaria. Il preside rimase muto, e dopo qualche minuto vedemmo
arrivare da noi Rossano, che si mise a sedere al suo posto; gli chiedemmo
cosa avesse fatto suo padre, avendo visto quel grosso cerotto sulla sua
fronte, e Rossano ci rispose mestamente che erano stati i fascisti del suo
paese.
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L’anno
in cui gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco della Francia,
dell’Inghilterra e dell’Unione Sovietica era il ’42; quello fu anche
l’anno in cui mio fratello Cassiano faceva il militare a Bari, ed era
tornato a casa per una breve licenza. Mio fratello Mino, invece, si
trovava al confine tra l’Italia e la Jugoslavia. Era un mattino di
primavera verso mezzogiorno, stavamo pulendo il pavimento del bar, quando
arrivò in bicicletta la guardia municipale “Scuscé” (Giuseppe
Argelli), e appoggiando il piede sulla soglia della porta ci allungò un
manifesto di propaganda fascista, intimando a Cassiano di appenderlo
immediatamente e in maniera ben visibile.
Mio fratello smise di spazzare, lo ascoltò guardandolo tutto serio poi
gli rispose in dialetto: “Attaccatelo tu se vuoi, io non lo attacco!”
Quel personaggio era un fascista della prima ora, e insistette ancora un
po’ ma, visto che mio fratello rimaneva nelle sue posizioni, diede a me
il manifesto e se ne andò.
La temerarietà di mio fratello era dovuta probabilmente al fatto che
pensava al suo imminente ritorno alla base militare di Bari: il suo
reparto sarebbe stato inviato in uno dei vari fronti europei o africani,
quindi le conseguenze della sua reazione non gli potevano fare né caldo né
freddo, visto che stava per andare a rischiare la vita al fronte.
Qualche
giorno dopo la sua partenza ricevemmo una lettera dalla Commissione
Speciale dei fascisti locali, dove si diceva che Cassiano Pagani era stato
sottoposto al giudizio della stessa e quindi proposto al confino per
insubordinazione. Ma lui non ebbe modo di subirne conseguenza, perché
continuò a fare il militare per tutta la durata della guerra, tornando
però a casa, sano e salvo, dopo la liberazione, quando i fascisti erano
già stati cacciati da Alfonsine.
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Una
battaglia aerea sopra Alfonsine |
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Dall’entrata
in guerra degli Stati Uniti non mancava giorno che non passassero
formazioni di fortezze volanti sopra il cielo di Alfonsine. I caccia
Lightning scortavano questi bombardieri fino alle zone industriali della
Germania, dove sganciavano il loro carico di bombe.
La
rotta che seguivano era quella che dal sud dell’Italia liberata portava,
seguendo la costa adriatica, sino agli obiettivi già prefissati, e quindi
passavano ad est di Alfonsine, proseguendo verso il nord, sul mare e le
valli di Comacchio.
Nella
nostra zona ci furono pochissimi attacchi aerei dei caccia tedeschi, ben
riconoscibili perché di colore nero, ma un giorno sulle quattro del
pomeriggio, dall’argine del fiume dove noi ci
riparavamo, assistemmo ad uno scontro fra un Messerschmidt e un Lightning.
L’aereo tedesco riuscì ad accodarsi al caccia statunitense e,
colpendolo ripetutamente ad un motore, arrivò ad abbatterlo. |
...
riuscimmo
ad arrivare in bicicletta fino all’aereo abbattuto, guardammo dove era
stato colpito, ci affacciammo alla cabina e ci rendemmo conto che era
predisposto per essere guidato da un solo pilota... |
Il pilota
americano riuscì lo stesso ad atterrare, anche senza carrello; si fermò
a cinquanta metri da una casa contadina in un terreno arato, uscì fuori
illeso e si dileguò nelle campagne; sapemmo poi che
fu catturato a Sant’Alberto dai Carabinieri di quel paese. Noi riuscimmo
ad arrivare in bicicletta fino all’aereo abbattuto, guardammo dove era
stato colpito, ci affacciammo alla cabina e ci rendemmo conto che era
predisposto per essere guidato da un solo pilota, e che, vicino ai
comandi, a portata di mano, c’erano anche le leve per far funzionare le
armi di bordo che uscivano all’esterno della cabina: quattro mitraglie
installate nell’apparecchio. Stavamo per tornare a casa, avevamo
percorso solo cinquecento metri che arrivarono delle camionette tedesche,
ma noi potemmo continuare indisturbati il nostro cammino sulla via del
ritorno.
L’entrata
in guerra da parte degli Stati Uniti fu un aiuto decisivo per gli alleati
europei, nonostante la grande distanza che li separava dall’Europa. Se
ne vide subito l’effetto sui vari fronti di guerra che l’Asse aveva
aperto in Africa e in Russia. In quest’ultima, dopo una travolgente
avanzata da parte dell’esercito dell’Asse, l’Armata Rossa riuscì
finalmente a opporre una resistenza efficace nei dintorni di Mosca,
Leningrado e Stalingrado, infliggendo gravi perdite al nemico e spingendo
la propria audacia fino al punto di far prigioniero il maresciallo von
Paulus, comandante in capo di tutte le armate, compresa l’Armir, (Armata
italiana in Russia). Di lì ebbe inizio la grande ritirata che poi si
tramutò in un'immane tragedia umana, in cui molti di quei soldati
morirono anche per la neve e il freddo oltre che per i colpi del nemico.
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Nel
giugno del ’43 ci fu il grande sbarco in Normandia da parte degli
Alleati, preparato da diversi mesi assieme agli inglesi. Quel giorno si
affacciarono al vallo Atlantico centinaia e centinaia di navi, aerei
statunitensi e paracadutisti inglesi. Il vallo Atlantico era una struttura
in cemento armato che si estendeva per chilometri e chilometri lungo la
costa della Normandia, costellata di numerosi cannoni a lunga gittata che
si affacciavano sull’Atlantico, rendendo molto difficile avvicinarsi e
sbarcare per le truppe d’assalto alleate. Nonostante questo, lo sbarco
riuscì e i tedeschi furono presi tra due fuochi. Dal mare le corazzate e
i caccia torpedinieri sparavano con i loro cannoni per coprire le truppe
da sbarco, mentre dietro al vallo Atlantico i paracadutisti calavano di
giorno e di notte sul
territorio, prendendo alle spalle le truppe tedesche. In pochi giorni
riuscirono a travolgere la loro difesa, spingendo i superstiti ad
abbandonare il campo e a fuggire disordinatamente verso la Germania.
Naturalmente a questa grande vittoria degli Alleati contribuirono in
maniera sostanziale le popolazioni francesi con, in testa, i partigiani.
Nell’estate
del ’43 gli Alleati sbarcarono in Sicilia e ad Anzio, arrivando ben
presto in Campania e nel Lazio senza trovare grande resistenza; i tedeschi
si attestarono con una prima linea di resistenza a Cassino. Intanto
preparavano una seconda linea difensiva che dalle colline tosco-romagnole
si univa all’Adriatico e al Tirreno: la cosiddetta “linea gotica”
che arrivava al mare all’altezza di Rimini e Pesaro. A Cassino la
resistenza da parte dei tedeschi riuscì a fermare gli alleati per diversi
mesi.
Noi
ricevevamo tutte queste notizie da Radio Londra, alle undici di sera; lo
speaker era il colonnello Stevens, ribattezzato "Colonnello
Buonasera”.
Nel
giugno del ’43 mio fratello maggiore Mino venne a casa in licenza, un
mese prima del 25 luglio, data della caduta di Mussolini; in quel periodo
invece Cassiano si trovava ad Altamura, in Puglia col suo battaglione. Lui
tornò a casa alla fine di luglio, per una breve licenza e ci raccontò
che il 26 luglio i tedeschi avevano tentato di circondare la loro caserma
per disarmarli e spedirli sui treni per la Germania, ma erano riusciti a
resistere. I tedeschi furono costretti a continuare la ritirata, perché
gli alleati erano molto vicini. Cassiano poi, finita la breve licenza, andò
al suo reparto, per ritornare definitivamente a casa solo nell’agosto
del ‘45.
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