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Il
ferimento di Enrico Scudellari |
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Le manifestazioni di piazza contro i proclami del governo Badoglio si ripeterono per tutti i mesi di agosto e settembre. Dopo il 26 luglio il drappello badogliano, comandato da quel capitano ancora fascista, impose il coprifuoco, che iniziava alle cinque e mezzo del pomeriggio e durava fino alle sei del mattino successivo. Eravamo in estate, faceva caldo, e noi ci raccoglievamo nel cortile assieme a quelli del ristorante per avere un po’ di fresco; restavamo lì a chiacchierare fino a sera, perché nonostante il coprifuoco ciò era permesso. |
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Una di quelle sere sentimmo,
poco distante, un grido di comando “Chi va là?”, subito dopo uno
sparo e un urlo di dolore: quel capitano badogliano-fascista aveva sparato
a un tranquillo cittadino, che si apprestava a entrare nel bagno pubblico
che si trovava nel “Lazzaretto”, a pochi metri da casa sua. |
... si apprestava ad entrare nel bagno pubblico, che si trovava nel “Lazzaretto”... |
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Fu portato all’ospedale ma, purtroppo, da quel giorno non poté più camminare normalmente e rimase zoppo per tutta la vita. Evidentemente al capitano la recente caduta di Mussolini aveva provocato una rabbia tale da fargli compiere un gesto tanto estremo, assurdo e senza motivo. | |||||||||
L’incontro con l’eroe di Spagna, l’alfonsinese Andrea Minguzzi
Un
pomeriggio entrò nel bar un signore che, sorridendomi, mi chiese un
caffè; io glielo servii mentre si accingeva a sedersi al tavolino; a mio
giudizio, poteva avere sui quaranta o quarantacinque anni, capelli
brizzolati, viso scavato, occhi molto espressivi; non l’avevo mai visto.
Fu
così che vidi per la prima volta Andrea Minguzzi, l’eroe alfonsinese
della Guerra di Spagna, di cui avevo sentito parlare alla radio diversi
anni prima. Mi avvicinai e, rammentando l’episodio trasmesso da Radio
Mosca, gli stesi la mano con rispetto e ammirazione e strinsi la sua, con
grande piacere, aggiungendo emozionato: “Allora, gliel’hai fatta
quella volta!” Lui
mi rispose: “È vero, ma l’ho pagata cara, porto ancora, come triste
ricordo, un proiettile ficcato in testa vicino al cervello, e quando si
muove mi ritrovo per terra. Una volta o l’altra, ci rimarrò!” Il
CLN e la raccolta del grano Il
9 settembre, dopo l’annuncio dell’armistizio, ad Alfonsine si
costituì il Comitato di Liberazione. Fra le prime iniziative prese dal
Comitato ci fu la distribuzione del grano appena raccolto nelle campagne
alfonsinesi, che venne immagazzinato in vari punti del paese, e venduto ai
cittadini al prezzo dell’ammasso. In uno di questi, prestavamo servizio
Andrea ed io: si pesava il grano, si insaccava, poi si consegnava alle
famiglie alfonsinesi e si segnava il numero dei quintali assegnati a
ciascuna; questo serviva a impedire all’esercito tedesco di potersi
approvvigionare del prezioso alimento, pur dando modo a tutti di avere in
casa il pane, in vista dell’imminente passaggio del fronte di guerra. Mi
ricordo che un mattino, mentre ci recavamo in uno dei quei magazzini pieni
di grano, per iniziare il solito lavoro di pesatura, percorrendo la rampa
del ponte della piazza a piedi, vidi cadere d’improvviso ai miei piedi
Andrea. Fu un attimo: lo guardai impressionato, gli sollevai il capo, ma
non respirava e non dava segno di vita. Mi guardai attorno in cerca di
soccorso ed ecco che un mio amico, Alberto Minarelli, medico laureato da
poco, si avvicinò: fu sufficiente qualche schiaffetto che subito Andrea
si riprese, e alzandosi piano piano riuscì a rimettersi in piedi. Alberto
gli chiese: “Come va?” Tutti
a casa. Finalmente
l’8 settembre si ebbe la notizia,
trasmessa dalla radio italiana e dai giornali, che era stato firmato l’armistizio
del re Vittorio Emanuele III con gli alleati: l’ambiguità ebbe fine. Da
un lato si chiariva la posizione italiana riguardo alla guerra: non si
faceva più parte dell’asse Roma-Berlino-Tokio; dall’altro lato,
invece, si complicava perché l’armata tedesca, da alleata che era,
diventava un esercito di occupazione. Così in Grecia, precisamente a
Cefalonia, avvenne il massacro di novemila militari italiani, ufficiali
compresi, accusati di ribellione da parte dei tedeschi. Dopo
quei primi giorni di settembre del ’43 si videro arrivare, con frequenza
crescente, alla stazione ferroviaria di Alfonsine treni provenienti da
nord pieni di ragazzi in borghese, oppure con mezza divisa, aggrappati
persino fuori dello sportello. Quando il treno si fermava ne scendevano
tanti. I cittadini di Alfonsine si avvicinavano per avere notizie e
chiedevano da dove provenissero, se avessero bisogno di rifocillarsi. Molti di loro rimanevano nelle case
degli alfonsinesi ove trovavano alloggio, indumenti e ospitalità. In
quei giorni anch’io, insieme a William Baldrati e Lea, andavo alla
stazione sperando che fra loro ci fosse Bruno Facchini, il fratello di
Lea. Infatti, un giorno, dall’ultimo treno della sera, scese anche lui,
malconcio, ma con la grande gioia di essere finalmente a casa. Proveniva
dall’aeroporto di Villafranca, essendo ufficiale dell’aviazione a
Verona. I
tedeschi occupano Alfonsine nell’inverno del 1943
Uno portava gli occhiali, era di carnagione scura, non era tedesco ma
ungherese; l’altro, invece, era tedesco. Devo premettere che, nei primi
mesi della guerra, le nazioni occupate da Hitler si preoccupavano di
istituire dei governi cosiddetti “fantoccio”, che reclutavano nei loro
paesi giovani da arruolare nella Wermacht; posso dire che questi ultimi,
forse per farsi belli agli occhi dei comandanti tedeschi, si comportavano
ancora peggio degli stessi camerati. Questo ungherese era appunto uno di
quelli. Si
sedettero al tavolino e incominciarono a consumare vermouth, marsala e
vino, poi mi chiesero il conto. Quando lo portai, l’ungherese con gli
occhiali, dopo averlo letto, mi accusò, in un italiano approssimativo, di
aver conteggiato una consumazione in più. Si alzò minaccioso e mezzo
ubriaco, estrasse la pistola dal taschino della giacca e, con voce
alterata, la puntò sulla mia faccia. Io insistevo dichiarando di non aver
aggiunto niente e, col coraggio dell’onestà, rimanevo sulla mia
posizione. Improvvisamente un cliente, un certo Virgilio, ex cameriere del
Caffè Aragno di Roma, tornato a casa per via della guerra, si avvicinò
all’altro militare che era rimasto seduto al tavolo, e, conoscendo
abbastanza bene la lingua tedesca, lo convinse a intervenire per evitare
il peggio. Il
tedesco si alzò e, dopo aver pagato il conto, trascinò via il camerata
ubriaco. Ringraziai calorosamente l’amico Virgilio per il suo
provvidenziale intervento, chiusi il bar e me ne andai a letto, molto
scosso. Molti
soldati tedeschi alloggiavano nelle case attorno alla piazza. Di fronte al
mio bar, nel cortile di casa Santoni, fu installata la cucina militare. In
quei giorni il capo cucina veniva spesso a portarmi della margarina
perché gliela conservassi nella gelateria del bar. Era sempre sorridente
e mi ringraziava ogni volta, io abbozzavo con lui qualche parola in
tedesco; mi sembrava che avessimo stretto una specie di amicizia. Questa
cosa durò diversi giorni. I
reclutamenti
alla Todt Mi svegliai e con grande sorpresa mi accorsi che era il cuciniere. Col fucile spianato intimava di vestirmi in fretta e di andare con lui. Nella stanza attigua dormiva mia madre che, al trambusto, accorse, ma nonostante le sue preghiere non ci fu niente da fare. Mi portò via, spingendomi giù per le scale, facendomi uscire dalla porta che lui, evidentemente, aveva trovato aperta. Mi accompagnò, sempre sotto il tiro del fucile, alle scuole elementari di Corso Garibaldi, dove trovai già radunati un centinaio di altri ragazzi, tra i quali mio cugino Lorenzo Pagani detto Cuchì. Questo avvenne fra la notte e le prime ore del mattino. Rimanemmo chiusi, guardati a vista dai tedeschi, fino alla dieci. Speravamo tutti che ci
mandassero a casa, ma verso le undici arrivarono dei camion sui quali
fummo caricati, senza garbo, per essere portati a Ravenna, e precisamente
nella Caserma Gorizia, che si trovava in una traversa di Via Maggiore. Restammo
rinchiusi in quella caserma fino alle due del pomeriggio. Poi dovemmo
passare uno ad uno di fronte a un ufficiale tedesco, seduto ad un tavolo,
che, dopo aver preso i nostri dati anagrafici, ci diede un tesserino sul
quale era scritto: Todt (era un’organizzazione tedesca, che
ripristinava, quando ce n’era bisogno, strade, ferrovie, ponti e
stazioni bombardati dagli aerei o distrutti dai sabotaggi dei partigiani).
L’ufficiale ci intimò di trovarci alle nove del giorno seguente alla
stazione di Lugo; se non ci fossimo presentati avrebbero preso
provvedimenti, perché avevano i nostri dati anagrafici. Fuori dei
cancelli della Caserma Gorizia, con sorpresa, Lorenzo ed io trovammo sua
sorella Lore e la mia amica Lea: erano arrivate fin lì con le biciclette
da uomo, così le caricammo sul cannone e arrivammo a casa
verso sera. Al
mattino Lorenzo ed io, insieme con gli altri, ci trovammo in piazza pronti a
partire per Lugo, in bicicletta. Alle nove arrivammo puntuali alla
stazione, e lì trovammo un signore in borghese della Todt con un revolver
in mano, che ci prese in consegna. Ci ordinò di appoggiare le biciclette
lungo il viale alberato e di prendere sia il badile che il piccone, che
erano ammucchiati ai piedi degli alberi, poi ci disse che, se avessimo
sentito la sirena del preallarme di un’incursione aerea, saremmo dovuti
scappare in fretta e rifugiarci in qualche maniera, attendendo la sirena
del cessato allarme. Ci avvertì inoltre che poi dovevamo assolutamente
riprendere il lavoro iniziato, altrimenti sarebbero stati guai per chi non
fosse rientrato. Detto questo, ci indicò la stazione ferroviaria che
doveva essere sgomberata dalle macerie, provocate dalle incursioni aeree
della sera prima. Aveva
appena terminato il discorso quando si sentì il rombo degli aerei e
subito cadere le bombe. Lorenzo ed io saltammo sulle biciclette, ci
allontanammo velocemente attraversando Lugo e, giunti sull’argine del
fiume Senio, ci buttammo giù per non essere colpiti. A quel punto ci
chiedemmo se, dopo il cessato allarme, fosse il caso di tornare alla
stazione e imbrancarci con i tedeschi, oppure di tornare a casa e
nasconderci; risolvemmo questo dilemma in pochi minuti: finito l’allarme
inforcammo le nostre biciclette e tornammo a casa. A
casa mia trovammo il padre di Lorenzo, Bruno Pagani, mio fratello Mino e
la mamma; si discusse su come uscire da quella situazione; trovare la
soluzione non era facile, ma l’unica possibilità era di nasconderci.
Siccome mio cugino era più grande, e quindi era già considerato
latitante, aderì alla resistenza e si nascose nei rifugi predisposti dai
partigiani nelle campagne intorno al paese; io invece dovevo per forza
aiutare mia madre nel bar, e così feci. Vivevo sempre con la paura di
essere sorpreso nei numerosi rastrellamenti organizzati dai tedeschi, con
l’aggravante di essere scappato dalla Todt
e quindi di essere un disertore. L’unico motivo che mi scagionava era
quello di non essere ancora in età di leva militare, ma la minaccia
peggiore stava nel fatto che il comportamento dei tedeschi non era legato
ad alcuna legge né regola: si sentivano padroni sia del territorio sia
dei cittadini che lo abitavano, perciò la vita delle persone era legata
ad un filo molto sottile ed arbitrario. Per
qualche giorno mi nascosi a casa di Lea, che nel frattempo era diventata
la mia ragazza, in Via Mazzini nel Borghetto, fino a quando la Piazza
Monti non si liberò da quel reparto di tedeschi. Infatti, dopo circa una
settimana andarono via. Tornai a casa, e così potei aiutare di nuovo mia
madre nel bar. Era
trascorso poco tempo dal famoso raid aereo, organizzato dai tedeschi, che
aveva portato alla liberazione di Mussolini, prigioniero a Ventotene.
Costituita in tutta fretta la cosiddetta Repubblica di Salò, (fine del
’43), da quel momento iniziò il periodo più nero e più tragico dell’Italia
non ancora liberata: Mussolini, con i suoi fedelissimi, tentò di
rifascistizzare il rimanente territorio non ancora liberato, minacciando
le ex autorità, perché ripristinassero il fascio, altrimenti avrebbero
subito gravi conseguenze. Le
case del fascio si trasformarono in caserme di Brigate Nere e altre
formazioni militari aderenti alla Repubblica di Salò. Fu così anche ad
Alfonsine e dintorni. Devo dire che tra tedeschi e fascisti non c’era
collaborazione, forse perché questi ultimi agivano indipendentemente
dagli ordini dei camerati tedeschi. I
repubblichini alla ricerca dei giovani di leva Alfonsine
fu in quel periodo dominata dalle Brigate Nere capeggiate da un certo
Camilli, così il mio bar era frequentato da tedeschi, da brigatisti
neri e da qualche vecchio cliente. Non c’era giorno che in cielo non
passassero le fortezze volanti, destinate a bombardare la Germania, e di
notte non sorvolasse Alfonsine un aereo solitario che noi chiamavamo “Pippo”.
Il passaggio di quest’aereo creava molta apprensione e paura nella
popolazione, perché ogni volta che scorgeva anche solo una tenue luce
sganciava all’istante una bomba incendiaria, facendola seguire da una
mitragliata. Un pomeriggio entrarono quattro brigatisti neri e, appoggiando pistole, bombe a mano, cinturoni su un tavolino, si misero a sedere ordinando birra, vino e marsala. Fra questi c’era un certo “Sciantén”, uno che in quei giorni era molto rinomato per la sua cattiveria e il terrore che incuteva nel paese; era di Bagnacavallo, e aveva circa cinquant’anni. Poi ce n’era un altro detto "l’umaz", di Cervia, e altri due ceffi, tutti e quattro romagnoli, nessuno di Alfonsine; gente che uccideva le persone per poco o anche senza motivo. Cominciarono a parlare a voce alta dei misfatti che avevano compiuto la sera prima, ridendoci sopra. Erano abbastanza alterati per il bere; ormai nel bar i miei clienti abituali non si facevano più vedere, e il paese si trovava alla mercé di questi banditi senza scrupoli. Dopo una decina di minuti comparve sulla soglia del bar un vecchio amico, Gelindo Traversari, che da qualche tempo non si vedeva, lo chiamavano Zalembo, un uomo alto, della zona del “Ca Novi”. Alla vista di questi personaggi ebbe un momento di sorpresa, e, avvicinandosi al banco del bar, mi chiese con imbarazzo un vermouth. Gli dissi a bassa voce: “Cosa fai qui? Questi sono ubriachi!” Lo invitai a uscire. Bevve
il vermouth, mi pagò e uscì in gran fretta, inforcando la sua
bicicletta. Tutta questa fretta insospettì i fascisti che, di corsa, si
affacciarono alla porta e intimarono a Zalembo di fermarsi, ma lui già si
era dileguato. Molto concitati mi chiesero se lo conoscevo, io risposi che
lo conoscevo solo di vista aggiungendo che era alfonsinese. La fortuna di
Zalembo fu che non avendo a portata di mano le armi, quelli non poterono
sparare, e così continuarono a bere.
Lo
incontrai dopo la Liberazione, ci salutammo e ci abbracciammo con grande
gioia, quei giorni ormai erano lontani e da dimenticare, ma la
solidarietà di chi ha condiviso esperienze tanto rischiose resta sempre
viva.
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