"E' Café d'Cài" 
(torna alla copertina)
 

       

25 luglio 1943: la caduta del fascismo     

La sera del 25 luglio, con gli amici, avevamo deciso di andare a teatro, dove si sarebbe svolta una commedia di Goldoni, recitata dalla Compagnia di Maria Melato.
Nella piazza di Alfonsine era stato installato anche il teatro tenda di Zanoni, dove ogni sera si rappresentavano commedie. Noi però decidemmo di andare a vedere lo spettacolo di prosa al Teatro Aurora. Stava per iniziare, quando si avvicinò un nostro conoscente: era un cliente del bar, un amico di famiglia (di soprannome lo chiamavano “Cavallotti”, alludendo a quel famoso Cavallotti che, in Parlamento, sfidò un suo collega a duello) ci gridò, con gioia e entusiasmo, di avere ascoltato il giornale radio delle venti e trenta, in cui, con sua grande sorpresa, era stato dato l’annuncio della caduta di Benito Mussolini.

A quel punto, assieme ad altri, decidemmo di tornare a casa per avere ulteriori informazioni. Il nostro bar era già chiuso, così accompagnai gli amici William Baldrati e sua cugina Lea per un tratto di strada, e, dopo averli salutati, tornai a casa.

Nel bar erano rimasti alcuni clienti che insieme a mio fratello Mino ascoltavano con grande apprensione le notizie riguardanti la nuova situazione creatasi in Italia per la caduta di Mussolini. Nella sera del 25 luglio una burrascosa riunione del Gran Consiglio del partito fascista, provocata dalle pesanti sconfitte subite sui vari fronti, si era conclusa con una votazione che aveva messo Mussolini in minoranza.  

 
inizio pagina

 

 

Il 26 luglio: assalto alla Casa del Fascio di Alfonsine  

   La mattina del 26 luglio, il mio unico desiderio, che penso fosse quello di tutti gli altri italiani, era di ascoltare alla radio le notizie sullo straordinario evento della sera prima: infatti, furono riconfermate le dimissioni di Mussolini. Il Duce fu invitato a presentarsi dal Re, il mattino dopo, per rassegnare le dimissioni da capo dello Stato, e così fu. Venne ammanettato e incarcerato nell’isola di Ventotene. Gli italiani erano stanchi, volevano finirla con la guerra e ritornare subito nelle loro case.

Nell’aria c’era già la voglia di ribellione al fascismo e il desiderio di farla finita con i tedeschi. Nel mese di luglio non ci fu giorno in cui il popolo italiano non scendesse in piazza a manifestare la sua volontà di pace e l’ostilità verso i tedeschi, che si comportavano come un esercito di occupazione.

Nel pomeriggio del 26 luglio, per le strade di Alfonsine, cominciarono a circolare pattuglie di militari italiani del nuovo esercito di Badoglio, comandati da un capitano che era rimasto ancora fascista, almeno così si diceva. Il suo nome mi sembra fosse Strano o Stranco. Questi badogliani cominciarono a pattugliare la casa del fascio, la caserma dei carabinieri, il municipio e il paese intero.  

Nel pomeriggio, intorno alle cinque e mezza, mentre mi trovavo nel bar con qualche cliente, si sentì un gran vociare proveniente dal ponte della piazza. 

Uscimmo subito per vedere ciò che succedeva e notammo un assembramento di persone, composto in gran parte da giovani donne, che gridavano “vogliamo la pace, basta con la guerra" dirigendosi di buon passo verso la Casa del Fascio, dove un drappello di badogliani faceva la guardia al portone. Incuriositi da queste grida, tutti i clienti del bar uscirono di corsa e si unirono al gruppo dei manifestanti. Anch’io chiusi il bar ed andai assieme agli altri.

Arrivati di fronte ai militari ci trovammo in una situazione critica, perché loro cercavano di allontanarci dalla porta, ma noi eravamo decisi ad entrare, e così fu. Con una spinta aprimmo la porta che era semichiusa, salimmo le scale di corsa e ci trovammo in tre dentro una grande sala. Mi diressi svelto svelto verso il balconcino che dava sulla strada, smontai in fretta le insegne fasciste gettandole di sotto, mentre una mia coetanea di nome Diva Troncossi, rompeva i vetri delle finestre. Fidéna (Buonafede Servidei), un cliente abituale del mio bar, prese un grande cassetto, che conteneva le schede e le tessere fasciste degli alfonsinesi, e ne rovesciò il contenuto giù dalla finestra sul resto del gruppo, che era rimasto fuori, e che si precipitò a farne un falò. Finita l’operazione, mi girai verso Diva e vidi che sanguinava da una ferita alla mano. L’accompagnai a casa mia, dove mia madre si affrettò a disinfettarla e a farle una fasciatura. In quell’occasione le feci anche le condoglianze per la recente scomparsa del fratello, pilota d’aviazione, colpito nei cieli di Crotone.
 
In quei giorni ad Alfonsine il clima era piuttosto “caldo” e si formavano dei gruppi spontanei di persone sui quaranta e cinquant’anni, che si armavano con le catene delle biciclette per andare alla ricerca di quei fascisti che, molti anni prima, li avevano picchiati col manganello, o costretti a bere olio di ricino. 

municipio-luglio-1943.jpg (165107 byte)

… nell’aria c’era già la voglia di ribellione al fascismo…
 (Vittorio Bonetti detto Fiamètt salì con la scala sul balcone del municipio.
Si notano a destra due soldati badogliani, mentre la gente esulta al centro di Piazza Monti)  
piazza-monti-luglio-1943.jpg (167469 byte)

… Nel pomeriggio, intorno alle cinque e mezza, mentre mi trovavo nel bar con qualche cliente, si sentì un gran vociare…

piazza-monti-luglio-1943-2.jpg (213441 byte)

… giovani donne, che gridavano “vogliamo la pace, basta con la guerra" dirigendosi di buon passo verso la casa del fascio...

casa-fascio-luglio-1943.jpg (175550 byte)

... Mi diressi svelto svelto verso il balconcino che dava sulla strada, smontai in fretta le insegne fasciste gettandole di sotto, mentre una mia coetanea di nome Diva Troncossi rompeva i vetri delle finestre...  

casa-fascio-1943.jpg (42644 byte)

In quei giorni ad Alfonsine il clima era piuttosto “caldo”…
(Nella foto sopra: la Casa del Fascio vista dal lato di Corso Garibaldi, durante il 26 luglio 1943. Sulla sfondo a sinistra un gruppo di manifestanti che invade la casa dei Faggioli)

(Tutte le foto sull’incendio alla casa del fascio sono di Bruno Pagani, gentilmente concesse dall’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea della Provincia di Ravenna, col permesso della Lore, figlia di Bruno Pagani, )  

Si trattava di persone che avevano subito angherie di tutti i tipi per vent’anni, e ora volevano finalmente dare una bella lezione ai loro aguzzini, anche se questa rivincita era ben lontana dal pareggiare i conti. Mi capitò di assistere in piazza a qualcuno di questi episodi, ma rimanevo perplesso e profondamente triste, perché solitamente si trattava dell’azione di un gruppo contro una persona inerme, e questo non mi piaceva.  A dir la verità furono pochi gli episodi di questo tipo ad Alfonsine, e non mi risulta che ci siano state vittime, perché i fascisti stavano nascosti nelle loro case aspettando il precipitare degli eventi con grande paura. Solo nei giorni dopo la liberazione successero episodi più gravi e poco chiari: diversi fascisti furono uccisi solo perché erano tali.Nonostante Mussolini e il fascismo fossero caduti, il Maresciallo Badoglio, messo dal re a Capo del Governo continuò ad inviare appelli al popolo italiano, attraverso la radio e i giornali, affermando che la guerra continuava a fianco dei tedeschi. In questa contraddittoria situazione il popolo italiano si trovò da una parte l’armata tedesca, comandata dal generale Kesserling, che tentava di appropriarsi delle armi dell’esercito italiano; dall’altra i comandi militari italiani, che non sapevano come comportarsi, perché non arrivavano direttive dal comando generale: ogni comandante decideva se stare con o contro i tedeschi. Intanto sul fronte albanese, greco e iugoslavo le truppe italiane e tedesche stavano subendo gravi sconfitte. Molti soldati italiani, abbandonati dagli stessi comandanti, tentavano di raggiungere i militari dell’opposto schieramento per combattere insieme a loro contro i tedeschi.  

 

 
inizio pagina

 

Il ferimento di Enrico Scudellari

 

Le manifestazioni di piazza contro i proclami del governo Badoglio si ripeterono per tutti i mesi di agosto e settembre. Dopo il 26 luglio il drappello badogliano, comandato da quel capitano ancora fascista, impose il coprifuoco, che iniziava alle cinque e mezzo del pomeriggio e durava fino alle sei del mattino successivo. Eravamo in estate, faceva caldo, e noi ci raccoglievamo nel cortile assieme a quelli del ristorante per avere un po’ di fresco; restavamo lì a chiacchierare fino a sera, perché nonostante il coprifuoco ciò era permesso. 

Una di quelle sere sentimmo, poco distante, un grido di comando “Chi va là?”, subito dopo uno sparo e un urlo di dolore: quel capitano badogliano-fascista aveva sparato a un tranquillo cittadino, che si apprestava a entrare nel bagno pubblico che si trovava nel “Lazzaretto”, a pochi metri da casa sua.
Dal nostro cortile si vedeva perfettamente il bagno pubblico e la persona colpita, che era un nostro caro amico, Enrico Scudellari, barbiere.

lazzaretto-mappa.jpg (191125 byte)

... si apprestava ad entrare nel bagno pubblico, che si trovava  nel “Lazzaretto”...

Fu portato all’ospedale ma, purtroppo, da quel giorno non poté più camminare normalmente e rimase zoppo per tutta la vita. Evidentemente al capitano la recente caduta di Mussolini aveva provocato una rabbia tale da fargli compiere un gesto tanto estremo, assurdo e senza motivo.

 
inizio pagina

 

L’incontro con l’eroe di Spagna, 

l’alfonsinese Andrea Minguzzi

  Un pomeriggio entrò nel bar un signore che, sorridendomi, mi chiese un caffè; io glielo servii mentre si accingeva a sedersi al tavolino; a mio giudizio, poteva avere sui quaranta o quarantacinque anni, capelli brizzolati, viso scavato, occhi molto espressivi; non l’avevo mai visto. Avevo appena terminato queste riflessioni, che udii esclamare: “Mo sit te Andrea?”. Mi voltai e vidi mia madre che, con passo svelto, si dirigeva verso quel tavolo; si abbracciarono, lui chiese di mio padre, e come seppe della sua morte avvenuta nel ’39, ne fu molto dispiaciuto.

Fu così che vidi per la prima volta Andrea Minguzzi, l’eroe alfonsinese della Guerra di Spagna, di cui avevo sentito parlare alla radio diversi anni prima. Mi avvicinai e, rammentando l’episodio trasmesso da Radio Mosca, gli stesi la mano con rispetto e ammirazione e strinsi la sua, con grande piacere, aggiungendo emozionato: “Allora, gliel’hai fatta quella volta!”

Lui mi rispose: “È vero, ma l’ho pagata cara, porto ancora, come triste ricordo, un proiettile ficcato in testa vicino al cervello, e quando si muove mi ritrovo per terra. Una volta o l’altra, ci rimarrò!” Rimasi sconvolto udendo quelle parole dette con rassegnazione, ma col sorriso sulle labbra. Da quel giorno, ogni pomeriggio, mi faceva visita, e così mi raccontava dei fatti successigli in quello sfortunato paese: la Spagna.  

 

inizio pagina

    

Il CLN e la raccolta del grano

Il 9 settembre, dopo l’annuncio dell’armistizio, ad Alfonsine si costituì il Comitato di Liberazione. Fra le prime iniziative prese dal Comitato ci fu la distribuzione del grano appena raccolto nelle campagne alfonsinesi, che venne immagazzinato in vari punti del paese, e venduto ai cittadini al prezzo dell’ammasso. In uno di questi, prestavamo servizio Andrea ed io: si pesava il grano, si insaccava, poi si consegnava alle famiglie alfonsinesi e si segnava il numero dei quintali assegnati a ciascuna; questo serviva a impedire all’esercito tedesco di potersi approvvigionare del prezioso alimento, pur dando modo a tutti di avere in casa il pane, in vista dell’imminente passaggio del fronte di guerra.

Mi ricordo che un mattino, mentre ci recavamo in uno dei quei magazzini pieni di grano, per iniziare il solito lavoro di pesatura, percorrendo la rampa del ponte della piazza a piedi, vidi cadere d’improvviso ai miei piedi Andrea. Fu un attimo: lo guardai impressionato, gli sollevai il capo, ma non respirava e non dava segno di vita. Mi guardai attorno in cerca di soccorso ed ecco che un mio amico, Alberto Minarelli, medico laureato da poco, si avvicinò: fu sufficiente qualche schiaffetto che subito Andrea si riprese, e alzandosi piano piano riuscì a rimettersi in piedi.

Alberto gli chiese: “Come va?” Andrea rispose mestamente: “E’ la pallottola che ho in testa che si muove!” Sorpreso per quella risposta Alberto chiese di nuovo: “Ma sta bene?”  
Andrea rispose di sì! Riprendemmo il cammino, salutando il dottore, che era rimasto lì a guardarci, ancora immobile e attonito.  

 

inizio pagina

     

Tutti a casa.  
Il ritorno di Bruno Facchini, fratello di Lea

Finalmente l’8 settembre si ebbe la notizia, trasmessa dalla radio italiana e dai giornali, che era stato firmato l’armistizio del re Vittorio Emanuele III con gli alleati: l’ambiguità ebbe fine. Da un lato si chiariva la posizione italiana riguardo alla guerra: non si faceva più parte dell’asse Roma-Berlino-Tokio; dall’altro lato, invece, si complicava perché l’armata tedesca, da alleata che era, diventava un esercito di occupazione. Così in Grecia, precisamente a Cefalonia, avvenne il massacro di novemila militari italiani, ufficiali compresi, accusati di ribellione da parte dei tedeschi.

Dopo quei primi giorni di settembre del ’43 si videro arrivare, con frequenza crescente, alla stazione ferroviaria di Alfonsine treni provenienti da nord pieni di ragazzi in borghese, oppure con mezza divisa, aggrappati persino fuori dello sportello. Quando il treno si fermava ne scendevano tanti. I cittadini di Alfonsine si avvicinavano per avere notizie e chiedevano da dove   provenissero, se avessero bisogno di rifocillarsi. Molti di loro rimanevano nelle case degli alfonsinesi ove trovavano alloggio, indumenti e ospitalità.

In quei giorni anch’io, insieme a William Baldrati e Lea, andavo alla stazione sperando che fra loro ci fosse Bruno Facchini, il fratello di Lea. Infatti, un giorno, dall’ultimo treno della sera, scese anche lui, malconcio, ma con la grande gioia di essere finalmente a casa. Proveniva dall’aeroporto di Villafranca, essendo ufficiale dell’aviazione a Verona.  

 

inizio pagina

   

I tedeschi occupano Alfonsine nell’inverno del 1943

Nell’autunno-inverno del ’43 la presenza dei militari tedeschi aumentò: occuparono cortili, appartamenti, scuole e case in Corso Garibaldi, verso la Rossetta, e nelle campagne attorno al paese: si facevano vedere ogni tanto nei bar, per bere e consumare gelati; ne arrivarono alcuni anche nel nostro. Mi ricordo di una sera in cui me la vidi molto brutta: fu verso le cinque e mezza del pomeriggio, nel bar c’erano diversi clienti anziani che stavano giocando a carte, quando entrarono due militari della Wermacht. 

tedeschi.jpg (145379 byte)

... occuparono cortili, appartamenti, scuole e case in Corso Garibaldi, verso la Rossetta, e nelle campagne attorno al paese... 

(Si ringrazia per la foto Cesare Baldi)

Uno portava gli occhiali, era di carnagione scura, non era tedesco ma ungherese; l’altro, invece, era tedesco. Devo premettere che, nei primi mesi della guerra, le nazioni occupate da Hitler si preoccupavano di istituire dei governi cosiddetti “fantoccio”, che reclutavano nei loro paesi giovani da arruolare nella Wermacht; posso dire che questi ultimi, forse per farsi belli agli occhi dei comandanti tedeschi, si comportavano ancora peggio degli stessi camerati. Questo ungherese era appunto uno di quelli.

Si sedettero al tavolino e incominciarono a consumare vermouth, marsala e vino, poi mi chiesero il conto. Quando lo portai, l’ungherese con gli occhiali, dopo averlo letto, mi accusò, in un italiano approssimativo, di aver conteggiato una consumazione in più. Si alzò minaccioso e mezzo ubriaco, estrasse la pistola dal taschino della giacca e, con voce alterata, la puntò sulla mia faccia. Io insistevo dichiarando di non aver aggiunto niente e, col coraggio dell’onestà, rimanevo sulla mia posizione. Improvvisamente un cliente, un certo Virgilio, ex cameriere del Caffè Aragno di Roma, tornato a casa per via della guerra, si avvicinò all’altro militare che era rimasto seduto al tavolo, e, conoscendo abbastanza bene la lingua tedesca, lo convinse a intervenire per evitare il peggio.

Il tedesco si alzò e, dopo aver pagato il conto, trascinò via il camerata ubriaco. Ringraziai calorosamente l’amico Virgilio per il suo provvidenziale intervento, chiusi il bar e me ne andai a letto, molto scosso.

Molti soldati tedeschi alloggiavano nelle case attorno alla piazza. Di fronte al mio bar, nel cortile di casa Santoni, fu installata la cucina militare. In quei giorni il capo cucina veniva spesso a portarmi della margarina perché gliela conservassi nella gelateria del bar. Era sempre sorridente e mi ringraziava ogni volta, io abbozzavo con lui qualche parola in tedesco; mi sembrava che avessimo stretto una specie di amicizia. Questa cosa durò diversi giorni.  

 

inizio pagina

    

I reclutamenti alla Todt

 Un bel mattino, nella stanza dove dormivo, mi ritrovai qualcuno che, scuotendomi il letto, mi diceva in tedesco: "Aufstehen!” 

Mi svegliai e con grande sorpresa mi accorsi che era il cuciniere. Col fucile spianato intimava di vestirmi in fretta e di andare con lui. Nella stanza attigua dormiva mia madre che, al trambusto, accorse, ma nonostante le sue preghiere non ci fu niente da fare. Mi portò via, spingendomi giù per le scale, facendomi uscire dalla porta che lui, evidentemente, aveva trovato aperta. Mi accompagnò, sempre sotto il tiro del fucile, alle scuole elementari di Corso Garibaldi, dove trovai già radunati un centinaio di altri ragazzi, tra i quali mio cugino Lorenzo Pagani detto Cuchì. Questo avvenne fra la notte e le prime ore del mattino. Rimanemmo chiusi, guardati a vista dai tedeschi, fino alla dieci. 

Speravamo tutti che ci mandassero a casa, ma verso le undici arrivarono dei camion sui quali fummo caricati, senza garbo, per essere portati a Ravenna, e precisamente nella Caserma Gorizia, che si trovava in una traversa di Via Maggiore. Restammo rinchiusi in quella caserma fino alle due del pomeriggio. Poi dovemmo passare uno ad uno di fronte a un ufficiale tedesco, seduto ad un tavolo, che, dopo aver preso i nostri dati anagrafici, ci diede un tesserino sul quale era scritto: Todt (era un’organizzazione tedesca, che ripristinava, quando ce n’era bisogno, strade, ­ferrovie, ponti e stazioni bombardati dagli aerei o distrutti dai sabotaggi dei partigiani). L’ufficiale ci intimò di trovarci alle nove del giorno seguente alla stazione di Lugo; se non ci fossimo presentati avrebbero preso provvedimenti, perché avevano i nostri dati anagrafici. Fuori dei cancelli della Caserma Gorizia, con sorpresa, Lorenzo ed io trovammo sua sorella Lore e la mia amica Lea: erano arrivate fin lì con le biciclette da uomo, così le caricammo sul cannone e arrivammo a casa verso sera.

Al mattino Lorenzo ed io, insieme con gli altri, ci trovammo in piazza pronti a partire per Lugo, in bicicletta. Alle nove arrivammo puntuali alla stazione, e lì trovammo un signore in borghese della Todt con un revolver in mano, che ci prese in consegna. Ci ordinò di appoggiare le biciclette lungo il viale alberato e di prendere sia il badile che il piccone, che erano ammucchiati ai piedi degli alberi, poi ci disse che, se avessimo sentito la sirena del preallarme di un’incursione aerea, saremmo dovuti scappare in fretta e rifugiarci in qualche maniera, attendendo la sirena del cessato allarme. Ci avvertì inoltre che poi dovevamo assolutamente riprendere il lavoro iniziato, altrimenti sarebbero stati guai per chi non fosse rientrato. Detto questo, ci indicò la stazione ferroviaria che doveva essere sgomberata dalle macerie, provocate dalle incursioni aeree della sera prima.

Aveva appena terminato il discorso quando si sentì il rombo degli aerei e subito cadere le bombe. Lorenzo ed io saltammo sulle biciclette, ci allontanammo velocemente attraversando Lugo e, giunti sull’argine del fiume Senio, ci buttammo giù per non essere colpiti. A quel punto ci chiedemmo se, dopo il cessato allarme, fosse il caso di tornare alla stazione e imbrancarci con i tedeschi, oppure di tornare a casa e nasconderci; risolvemmo questo dilemma in pochi minuti: finito l’allarme inforcammo le nostre biciclette e tornammo a casa.

A casa mia trovammo il padre di Lorenzo, Bruno Pagani, mio fratello Mino e la mamma; si discusse su come uscire da quella situazione; trovare la soluzione non era facile, ma l’unica possibilità era di nasconderci. Siccome mio cugino era più grande, e quindi era già considerato latitante, aderì alla resistenza e si nascose nei rifugi predisposti dai partigiani nelle campagne intorno al paese; io invece dovevo per forza aiutare mia madre nel bar, e così feci. Vivevo sempre con la paura di essere sorpreso nei numerosi rastrellamenti organizzati dai tedeschi, con l’aggravante di essere scappato dalla Todt e quindi di essere un disertore. L’unico motivo che mi scagionava era quello di non essere ancora in età di leva militare, ma la minaccia peggiore stava nel fatto che il comportamento dei tedeschi non era legato ad alcuna legge né regola: si sentivano padroni sia del territorio sia dei cittadini che lo abitavano, perciò la vita delle persone era legata ad un filo molto sottile ed arbitrario.

Per qualche giorno mi nascosi a casa di Lea, che nel frattempo era diventata la mia ragazza, in Via Mazzini nel Borghetto, fino a quando la Piazza Monti non si liberò da quel reparto di tedeschi. Infatti, dopo circa una settimana andarono via. Tornai a casa, e così potei aiutare di nuovo mia madre nel bar.

Era trascorso poco tempo dal famoso raid aereo, organizzato dai tedeschi, che aveva portato alla liberazione di Mussolini, prigioniero a Ventotene. Costituita in tutta fretta la cosiddetta Repubblica di Salò, (fine del ’43), da quel momento iniziò il periodo più nero e più tragico dell’Italia non ancora liberata: Mussolini, con i suoi fedelissimi, tentò di rifascistizzare il rimanente territorio non ancora liberato, minacciando le ex autorità, perché ripristinassero il fascio, altrimenti avrebbero subito gravi conseguenze.

Le case del fascio si trasformarono in caserme di Brigate Nere e altre formazioni militari aderenti alla Repubblica di Salò. Fu così anche ad Alfonsine e dintorni. Devo dire che tra tedeschi e fascisti non c’era collaborazione, forse perché questi ultimi agivano  indipendentemente dagli ordini dei camerati tedeschi.  

 
inizio pagina

   

I repubblichini alla ricerca dei giovani di leva

Alfonsine fu in quel periodo dominata dalle Brigate Nere capeggiate da un certo Camilli, così il mio bar era frequentato da tedeschi, da brigatisti neri e da qualche vecchio cliente. Non c’era giorno che in cielo non passassero le fortezze volanti, destinate a bombardare la Germania, e di notte non sorvolasse Alfonsine un aereo solitario che noi chiamavamo “Pippo”. Il passaggio di quest’aereo creava molta apprensione e paura nella popolazione, perché ogni volta che scorgeva anche solo una tenue luce sganciava all’istante una bomba incendiaria, facendola seguire da una mitragliata.
In quei raid notturni morirono diversi alfonsinesi, tra i quali un caro amico, mio coetaneo, di nome Sergio Foschini, e Armando Galletti, un affezionato cliente del bar. Il pericolo era, di giorno come di notte, quello di venire uccisi in queste incursioni, oppure di incappare in un rastrellamento dei tedeschi o delle Brigate Nere della nuova Repubblica di Salò.
I giovani di leva che non si erano presentati alla chiamata dei distretti militari si trovavano in condizione di latitanza.
Gli appelli che si leggevano sui manifesti fatti affiggere ogni giorno dalla Repubblichina avevano l’intestazione in tedesco e in italiano. C’era scritto che, qualora si fossero trovati giovani di leva nascosti, sarebbero stati uccisi sul posto. Era firmato da un esponente della Repubblichina di cui non ricordo il nome, forse Almirante, e si chiudeva con la firma del Maresciallo Kesserling. Per fortuna io non ero ancora in età di leva, perciò avevo una relativa tranquillità. Ogni giorno le Brigate Nere andavano alla ricerca di ragazzi che non si erano presentati al distretto militare, e che si nascondevano per non aderire alla nuova repubblica: purtroppo alcuni di loro furono uccisi a causa di qualche delatore. Fra questi vi fu anche un mio amico della Rossetta Adriano Zoli, della famiglia: “i bighètt”.

Un pomeriggio entrarono quattro brigatisti neri e, appoggiando pistole, bombe a mano, cinturoni su un tavolino, si misero a sedere ordinando birra, vino e marsala. Fra questi c’era un certo “Sciantén”, uno che in quei giorni era molto rinomato per la sua cattiveria e il terrore che incuteva nel paese; era di Bagnacavallo, e aveva circa cinquant’anni. Poi ce n’era un altro detto "l’umaz", di Cervia, e altri due ceffi, tutti e quattro romagnoli, nessuno di Alfonsine; gente che uccideva le persone per poco o anche senza motivo. Cominciarono a parlare a voce alta dei misfatti che avevano compiuto la sera prima, ridendoci sopra. Erano abbastanza alterati per il bere; ormai nel bar i miei clienti abituali non si facevano più vedere, e il paese si trovava alla mercé di questi banditi senza scrupoli. Dopo una decina di minuti comparve sulla soglia del bar un vecchio amico, Gelindo Traversari, che da qualche tempo non si vedeva, lo chiamavano Zalembo, un uomo alto, della zona del “Ca Novi”. Alla vista di questi personaggi ebbe un momento di sorpresa, e, avvicinandosi al banco del bar, mi chiese con imbarazzo un vermouth. Gli dissi a bassa voce: “Cosa fai qui? Questi sono ubriachi!” Lo invitai a uscire. 

Bevve il vermouth, mi pagò e uscì in gran fretta, inforcando la sua bicicletta. Tutta questa fretta insospettì i fascisti che, di corsa, si affacciarono alla porta e intimarono a Zalembo di fermarsi, ma lui già si era dileguato. Molto concitati mi chiesero se lo conoscevo, io risposi che lo conoscevo solo di vista aggiungendo che era alfonsinese. La fortuna di Zalembo fu che non avendo a portata di mano le armi, quelli non poterono sparare, e così continuarono a bere.  

Lo incontrai dopo la Liberazione, ci salutammo e ci abbracciammo con grande gioia, quei giorni ormai erano lontani e da dimenticare, ma la solidarietà di chi ha condiviso esperienze tanto rischiose resta sempre viva.  

In quel periodo nella casa del fascio si erano accampati ragazzi giovanissimi della “Decima Mas”, che ogni tanto venivano a prendere il gelato. Un pomeriggio, verso sera, entrarono due di loro e si sedettero al tavolo ordinando due gelati nel bicchiere. Io li servii. Nel frattempo entrò un tedesco, un ragazzo alto e robusto che appoggiando la schiena alla gelateria, mi ordinò un cono; io glielo diedi mentre lui,  gustandoselo, fissava quei due.

casa-fascio-xmas.jpg (218323 byte)

...In quel periodo nella casa del fascio si erano accampati ragazzi giovanissimi della “Decima Mas”...

D’improvviso nominò Mussolini ad alta voce, facendo poi seguire una grossa pernacchia e continuando tranquillamente a gustarsi il gelato. Il bar, in quel momento, era pieno di tedeschi e alfonsinesi anziani, ma nessuno di loro si scompose. Io fui chiamato per il conto dai due ragazzi, ma quando arrivai di fronte a loro esclamarono con decisione: “Sei stato tu!” Risposi di no, che non ero stato io, ma loro continuavano a insistere. Per fortuna il tedesco che assisteva muto alla scena, ripeté il gesto: ci fu un attimo di perplessità, soprattutto da parte dei due, poi mi pagarono il conto e andarono via alla chetichella. Anche il tedesco mi pagò e mi salutò dicendo: “Aufwiedersehen!”

 

inizio pagina

 

continua...