Storie
di partigiani alfonsinesi
caduti nell’aprile del ‘44
Già
nel novembre del ’43 diversi ragazzi alfonsinesi aderirono alla
resistenza e partirono per la montagna, andando a costituire le prime
formazioni partigiane. Tra questi, Amos Calderoni col fratello Ivo, poi
Luigi Pattuelli detto “e’ profes”, Faccani “la pizzërda”. Furono raggiunti, due mesi dopo, da Terzo Lori.
In poco tempo si aggregarono altri giovani, e divennero un gruppo
consistente: l’8° Brigata “Garibaldi”, organizzata in battaglioni e
compagnie.
Sulle
colline Tosco-Romagnole, nei pressi di Biserno vicino a Santa Sofia, in
occasione di un rastrellamento dei tedeschi e delle Brigate Nere, una
trentina di quei partigiani furono circondati. Stavano tenendo un punto
strategico per consentire al grosso della Brigata di mettersi in salvo.
Solo la caparbia resistenza e il coraggioso sacrificio di Terzo Lori, che
era il Commissario Politico della Compagnia, e di Amos Calderoni che ne
era Comandante, permise a quasi tutti i loro compagni di fuggire in tempo
e di mettersi in salvo. Feriti entrambi, ordinarono agli altri di
sganciarsi. Ma dopo che il loro fucile mitragliatore s’inceppò, non
ebbero scampo: furono falciati insieme a sei compagni. Altri quattro erano
già caduti nello scontro. Così morirono gli alfonsinesi Amos Calderoni e Terzo Lori. Avevo
conosciuto personalmente Terzo Lori dopo la caduta di Mussolini, quando
era tornato dalla Francia dove i suoi genitori erano fuoriusciti, e dopo
che aveva passato otto anni di confino a Ventotene, perché antifascista e
comunista.
Nella
primavera del ’44 la lotta partigiana si trasferì in pianura e si fece
sempre più intensa. Ricordo che dal mio bar partivano dei gruppi di tre
partigiani che andavano verso Savarna, Mezzano e Conventello, alla ricerca
di tedeschi armati, per appropriarsi delle armi.
Verso
la fine di aprile tre uomini della Gap della piazza, Rino Bendazzi,
Lorenzo Pagani e Aldo Centolani, erano arrivati in bicicletta fino a
Savarna, dove avevano già disarmato diversi tedeschi.
Al ritorno, dopo una curva, si trovarono di fronte una corriera di
tedeschi ferma sulla strada. Rino, che era in testa, aprì il fuoco con
decisione, seguito dagli altri due: pensavano che se fossero riusciti a
superare la corriera e ad allontanarsi imboccando le stradine trasversali
avrebbero potuto mettersi tutti in salvo, ma non fu così.
Il fuoco a sorpresa aperto dai partigiani non bastò; avevano già
superato la corriera quando, da una lunga distanza, una raffica di mitra
colpì alle spalle Aldo che morì all’istante. Rino e Lorenzo riuscirono
comunque a ritornare indenni al paese.
I tedeschi portarono Aldo all’obitorio di Alfonsine con un carretto
trainato da un asino. In un batter d’occhio la notizia della sua morte
si diffuse nel paese. Purtroppo accedere all’obitorio, fatta eccezione
per i parenti stretti, significava dichiarare di essere dalla parte della
Resistenza, perciò la popolazione solo da lontano poté esprimere il
proprio dolore, che fu grande. Sempre in quei giorni della primavera del
’44, il 23 di aprile, ci fu un grave episodio ad Alfonsine, precisamente
nella zona detta “Palazzone” (che si trovava nel Fiumazzo). In alcune
case spesso e volentieri si fermavano i partigiani dopo aver ultimato le
azioni militari.
Una
notte, dopo una spiata anonima fatta alla Brigata Nera, una dozzina di
partigiani fu circondata e, dopo duri scontri, sette caddero trucidati, e
alcuni altri catturati. Fra loro c’era un ragazzo che conoscevo bene,
Aurelio Tarroni, nostro cliente. Ferito a una spalla e preso mentre
tentava di fuggire, fu trascinato nel cortile, picchiato e torturato con
del fuoco sotto i piedi: si rifiutò di parlare, di fare i nomi dei suoi
compagni. Trasferito alle carceri di Ravenna, venne finito a colpi di
pistola presso il cimitero. Stessa sorte toccò ad altri due: Ettore
Zalambani e lo slavo Reper Janez.
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La
Resistenza ad Alfonsine
Il problema dei tanti militari
italiani scappati dai luoghi dove si trovavano i loro reparti era di non
farsi prendere, perché c’era il rischio di essere accusati di
diserzione, perciò si trattava di una questione molto seria. Parte di
loro ad Alfonsine fu nascosta nell’ospedale civile, tra le suore. Altri
trovarono rifugio a casa di parenti o amici, dove furono nascosti nelle
soffitte. Molti aderirono alla Resistenza.
Nel nostro bar, in quei
giorni, diversi clienti si adoperavano con grande decisione e convinzione
per reclutare aderenti e organizzare il Comitato di Liberazione
alfonsinese; si formarono le squadre delle Sap (Squadre di Azione
Partigiana), che erano di ausilio alle Gap (Gruppi Armati Partigiani), che
agivano con azioni militari sul territorio. |
|
Queste organizzazioni
fermavano tedeschi in transito, con pistole e fucili da caccia raccolti
nelle famiglie, e li disarmavano, per impadronirsi di armi più efficaci.
Un
pomeriggio, dopo qualche settimana che non si faceva vivo, comparve Mino:
ci fece solo una breve visita, così non gli chiesi né da dove venisse né
cosa l’avesse spinto a venire;
ad ogni modo quelli erano periodi in cui non si parlava molto, perché non
era prudente sapere, e quindi non gli rivolsi nessuna domanda. Mentre
stavamo discorrendo, entrò di corsa uno della Resistenza e ci disse:
“Nascondetevi, scappate, è in atto un rastrellamento nel paese.” In
casa nostra c’era un unico nascondiglio che era la legnaia. Si trattava
di un vano ricavato sopra la cucina, cui si accedeva dall’esterno
mediante una scala a pioli; sfilando il catenaccio di una porticciola di
legno si entrava e si tirava su la scala, chiudendo la porta appoggiandola
al muro. Entrammo subito nella legnaia, io non ero armato, mio fratello
invece sì (lui aveva un temperamento apparentemente tranquillo, ma era
capace di reazioni decise, e la situazione in cui ci trovavamo non era
delle migliori). Ogni tanto lui borbottava sottovoce: “In che situazione
mi trovo, sono sempre stato fuori e dovevo venire a casa proprio oggi?”
Prevedeva che i tedeschi, se avessero intravisto la porta non chiusa col
catenaccio, avrebbero potuto aprire, con conseguenze tragiche per
entrambi. Quando finalmente sentimmo la voce di mia madre che diceva che
non c’era più pericolo, ci potemmo tranquillizzare e scendemmo,
pensando che anche quella volta l’avevamo scampata bella. Mino ci salutò
e raggiunse in bicicletta il suo nascondiglio fuori del paese, in
campagna.
Fin
dai primi mesi del ’44 i partigiani avevano iniziato ad agire,
disarmando tedeschi e caserme di Brigate Nere. In queste azioni poteva
capitare di incontrare resistenza, e allora erano costretti a rispondere,
per non farsi ammazzare; i tedeschi, per rappresaglia, organizzavano i
rastrellamenti di persone innocenti e per ogni tedesco morto venivano
uccisi dieci civili italiani. Ecco perché, in quel periodo, da parte dei
comandi della Resistenza ci fu il nuovo ordine di non arrivare a questi
estremi.
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I
gappisti di piazza Monti
Comunque
nella zona di Alfonsine e in ogni luogo della bassa Romagna, dai primi
mesi dell’estate, i partigiani diventarono molto più attivi, allo scopo
di procurarsi armi ed equipaggiamento militare che servivano loro per il
gran finale, e cioè la tanto sospirata liberazione di Ravenna e di
Alfonsine, obiettivi già preventivati dal comando della Resistenza.
Mi
ricordo di un pomeriggio dell’estate del ’44, quando mio fratello
Mino, presentandosi vestito da fascista, in camicia nera, mi chiese
sorridendo: “Come mi sta?”
Intuendo
che si sarebbe apprestato a svolgere un’azione con la sua Gap, cercavo
di capire quale fosse il motivo della sua domanda. Mi accorsi che col
movimento del collo, da sotto la camicia nera spuntava quella bianca, e
allora gli dissi: “Guarda che se uno ti osserva bene, può capire che
sei un falso fascista!” Lui alzò le spalle, come faceva di solito, e se
ne andò.
Non
potei sapere come fosse andata a finire quell’avventura fino al 1974 (in
occasione dell'Anniversario del Trentesimo della Liberazione di Alfonsine),
quando lo lessi su “Il Nuovo Ravennate”.
Quella
volta quattro dei componenti della Gap della piazza Leo
d’Squarzéna (Adriano
Leonida Zannoni), Doro, Buneghé di Mezzano e mio fratello Mino,
dopo aver fermato e sequestrato un taxi di Mezzano, si diressero verso
Mandriole dove, nei locali del fascio, avrebbero dovuto disarmare i
brigatisti neri. Il compito di mio fratello era di intrattenere il
piantone, mentre i suoi compagni davano inizio all’operazione. Mino
giocherellava con la pistola facendo l’indifferente, perché doveva far
credere che fosse una semplice ispezione, voluta dai comandi provinciali
della Brigata Nera, ma la camicia (quella bianca) gli fece un brutto
scherzo: ogni volta che girava il capo trapelava, tanto che il piantone
s’insospettì e gli tolse di scatto dalle mani la pistola,
puntandogliela addosso per sparargli. La freddezza e la lucidità di Mino
gli diedero la prontezza di dire: “Non vedi che è scarica?” Il
piantone, dopo aver buttato la pistola per terra, imbracciò il moschetto
che teneva sulla spalla e lo puntò su mio fratello, che si aggrappò alla
canna dell’arma per deviarla da sé, gridando i nomi dei suoi compagni.
Mino continuò a tenersi con forza aggrappato al fucile, in modo che il
piantone non potesse rivolgerglielo contro, finché i compagni, che
avevano appena rinchiuso i fascisti in una stanza, poterono arrivare
giusto in tempo per risolvere la situazione, alquanto critica, portando
felicemente a termine l’azione senza subire danni.
Nei
giorni successivi giunse ad Alfonsine una brigata di cecoslovacchi che
faceva parte della Wermacht. Arrivarono con carrette tirate da cavalli e
muli, si fermarono lungo la strada delle Borse, e lì sostarono per
parecchi giorni. Si diedero un gran da fare ad occupare i cortili e le
case di quella via. Quel giorno stesso mio fratello Mino mi chiese se
volevo andare in bicicletta a portare un messaggio nascosto dentro un
calzino, e due sporte piene di armi, coperte da erba spagna, a casa di Leo
d’Squarzéna e del marito di sua sorella, Mario Verlicchi
(“Wladimiro”), membri della Gap della piazza, che abitavano proprio in
fondo a quella via. Risposi a mio fratello che lo avrei fatto volentieri,
e così inforcai la bicicletta e andai.
Mi
diressi verso la rampa del ponte e, dopo averlo attraversato, scesi
e girai verso Via Borse. Appena passata la curva, trovai la strada
piena di carrette e di tedeschi, impegnati ad occupare case e
cortili; tra l’altro erano momenti in cui a loro facevano comodo
anche le biciclette, perché si trovavano in condizione di scarsità
di mezzi di trasporto. La mia paura era proprio che si avvicinassero
per portarmi via la bicicletta e che, di conseguenza, venissero
scoperte le armi che portavo: per me sarebbe stata la fine. |
... Mi
diressi verso la rampa del ponte e, dopo averlo attraversato,
scesi e girai verso Via Borse... |
Continuai
per la mia strada con passo abbastanza sostenuto incontrando i tedeschi
ogni dieci metri. Ogni volta sembrava che mi venissero incontro per
prelevarmi il mezzo, e mi aspettavo di venir scoperto da un momento
all’altro. Furono momenti difficili ma, per fortuna, il percorso era
breve. Arrivai alla casa, bussai, mi aprì Leo; entrai con la bicicletta,
consegnai il biglietto, e mentre lui scaricava le sporte piene di armi
tirai un gran sospiro per avercela fatta. Lì trovai un altro mio amico
che salutai con piacere, era Costanzo detto “Pacone”, anche lui
partigiano. Chiesi da bere e ritornai sulla strada di casa pensando che
questa volta, se mi avessero fermato, avrei perso solamente la
bicicletta. Soddisfatto per il modesto, ma comunque importante aiuto che
avevo apportato alla causa, arrivai a casa sano e salvo.
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Hans
Arrivò
l’estate del ’44. Gli Alleati erano fermi a Cassino e
sull’Adriatico, lungo la cosiddetta linea Gustav.
Ogni
pomeriggio, nell’agosto di quell’anno, veniva nel mio bar, a
prendere un gelato, un tedesco molto giovane, originario della
Prussia orientale. Conosceva qualche parola in italiano, come io ne
conoscevo qualcuna in tedesco, così, piano piano, ci sforzavamo di
capirci. Mi diceva che era pericoloso girare per le strade di
Alfonsine, perché c’erano i partigiani che disarmavano i
tedeschi, e coloro che subivano quest’azione erano puniti
severamente. Mi faceva capire che sarebbe potuto venire anche più
spesso da me a prendere il gelato e a fare due chiacchiere, ma la
paura che capitasse anche a lui di essere aggredito era grande.
Allora gli suggerii di lasciare a casa le armi e venire
tranquillamente disarmato nel bar. La mia insistenza lo convinse
tanto che il giorno dopo lo fece. Continuò così per tutto il
periodo che rimase ad Alfonsine. Gli feci capire che se fosse voluto rimanere nascosto in paese, in attesa che la guerra finisse,
io ero in grado di nasconderlo. Lui mi rispose: “Non posso fare
una cosa del genere, perché se diventassi disertore, la mia famiglia
dovrebbe subire delle conseguenze molto gravi, perciò ti ringrazio,
ma non posso”. Rimase ancora per qualche tempo nella zona, poi un
giorno si presentò nel bar per salutarmi e ringraziarmi per
l’amicizia che gli avevo dimostrato. Mi disse che era destinato al
fronte di Cassino; ci abbracciammo commossi tutti e due, gli feci
tanti auguri. Non l’ho più visto. Ero sicuro che, finita la
guerra, sarebbe venuto a trovarmi; non è stato così. Si chiamava
Hans, mi auguro solamente che si sia salvato.
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Beethoven
e l’armonica di Gherard
Erano
trascorsi pochi giorni da quell’episodio, quando una sera, dopo
aver chiuso il bar, intorno alle otto, sentii provenire dei rumori
dalla sala ristorante, chiusa da una semplice porta a ventola
bloccata da una sbarra di legno; mi affacciai allo spioncino di
vetro per vedere cosa stesse succedendo. Attorno ad un lungo tavolo
sedevano ufficiali della brigata cecoslovacca che cenavano
tranquillamente. C’erano solo loro perché dopo le otto di sera,
come normalmente avveniva, era tutto chiuso. Tranquillamente accesi
la radio e, cercando fra le stazioni, ne trovai una che trasmetteva
la settima sinfonia di Beethoven (ero, e sono, appassionato di
questo genere musicale); mi fermai e decisi di continuare
l’ascolto. Quella sinfonia l’avevo ascoltata diverse volte da
bambino, infatti avevo imparato ad apprezzare la musica classica da
un mio cliente e amico, molto più grande di me, Guerrino
Baio; era un friulano che abitava con la madre nelle “Ca Novi”;
di lui, oltre alla conoscenza della musica mi attiravano i racconti
di quando si trovava militare in Africa. Era una persona colta,
seppure molto umile e modesta, e mi piaceva la sua compagnia.
Sovente si sedeva accanto alla radio e girava il pomello alla
ricerca di stazioni che trasmettessero musica classica. Ogni volta
che ne intercettava una, mi chiamava, ed io correvo ad ascoltarla in
sua compagnia.
Mentre
ripensavo a quei momenti, appoggiato alla radio, in piedi, mi
accorsi che vicino a me c’era qualcuno: era un ufficiale di quella
brigata che dal ristorante aveva sentito la musica, ed era venuto a
vedere da dove provenisse. Portava gli occhiali e aveva le mostrine
rosse da medico militare. Ascoltammo insieme senza fiatare fino alla
fine, ci guardammo, ci sorridemmo e ci stringemmo la mano dicendoci:
“Arrivederci!”
Mi
era già capitato diverse volte di ascoltare nel bar musica,
classica di compositori come Beethoven, Wagner e Haydn in presenza
di soldati o sottufficiali tedeschi che stavano consumando, ma
nessuno di loro dimostrò mai alcun interesse nei confronti della
musica. Quando il cecoslovacco mi salutò, feci questa riflessione:
“Non sarà che in Germania Hitler abbia proibito l’ascolto di
questa bella musica?” Comunque fui felice dell’accaduto, sia per
aver ascoltato di nuovo la Settima, sia per aver dato la possibilità
a quell’ufficiale di condividere con me il piacere di quell’ascolto,
e dimenticarsi per un momento di quella maledetta guerra.
Continuarono per molte sere a cenare nel ristorante, a porte chiuse,
ma io non ebbi più l’occasione di ascoltare musica e di
rivederlo. Un’altra volta mentre ero solo in casa, come spesso
succedeva di pomeriggio, tirai fuori la mia piccola armonica a
bocca, che tenevo sempre in tasca. Iniziai a suonare qualche canzone
di moda in quel periodo, e, naturalmente, anche "Lilì Marlène".
Mentre mi esibivo con passione, non mi accorsi che era entrato nella
stanza un sergente della Gestapo, con un cane pastore al guinzaglio
che si sdraiò subito ai miei piedi. Il soldato mi fece cenno di
continuare nel mio “repertorio”, finito il quale si complimentò
e, chiamando a sé il cane Sultan, uscì salutandomi. Dopo qualche
giorno, il sergente tornò, ed estraendo di tasca un'armonica
diversa dalla mia mi disse: “Questa te la regala Gerard.” Lo
ringraziai tanto. Mi fece capire di averla trovata la notte, mentre
pattugliavano il fronte, dopo avere assalito e occupato una
postazione di alleati di colore vicino al fiume Senio, verso la
Rossetta. La tenni per diversi anni come ricordo, poi la persi, non
so come, forse fu durante uno dei vari traslochi che fui costretto a
fare, quando non ebbi più la casa.
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Gaetano
Fichera, giovanissimo professore
di
matematica, prigioniero ad Alfonsine
Nel
settembre del ’44 passarono da Alfonsine una ventina di
prigionieri alleati, tra i quali alcuni militari italiani catturati
al fronte. Questo gruppo era scortato da soldati delle S.S.
armati di pistole automatiche, pronti a sparare in caso di tentativo
di fuga. Percorsero l’intero Corso Garibaldi di buon passo e,
attraversata la piazza, furono portati oltre il ponte e chiusi
dentro il Palazzo del Popolo. Lì rimasero per diversi giorni,
malmessi e denutriti. Gli
italiani che stati erano catturati a Roma erano tutti ufficiali
e tra di loro vi era anche un sottotenente di Acireale in provincia
di Catania: Gaetano
Fichera, giovanissimo professore di matematica poco più che
ventenne.
I
partigiani della borgata “Ca’ Novi” decisero di liberarli, ma
la sorveglianza era stretta e la possibilità di uscirne senza
danni, liberando i prigionieri, era molto scarsa, perciò l’idea
fu scartata.
Bruna
Bolognesi (d’Magnòm), una ragazza coraggiosissima,
staffetta partigiana allora quasi ventenne, facente
parte del gruppo “Ca’ Novi” e che prestava la sua opera anche
nell'ospedale dove erano ricoverati prigionieri e feriti, prese l’iniziativa di aiutarli
in maniera diversa: decise cioè di parlare direttamente col
comandante del drappello di S.S.. I prigionieri si trovavano in un
cortile chiuso da una rete metallica, e la casa di Bruna confinava
proprio con quello, tanto che dalla soglia si poteva interloquire
con il comandante. Gli chiese se poteva, con le altre donne del
borgo, portare da mangiare e da bere sia ai prigionieri, sia agli
stessi tedeschi, e ottenne il permesso.
Per tutti i giorni che i prigionieri rimasero in quel cortile, le
donne del “Ca’ Novi” si prodigarono per non far loro mancare
il vitto, mantenendo così la parola data. Ma un mattino le S.S. se
ne andarono con tutti i prigionieri, e prima di allontanarsi dal
paese ne prelevarono altri due dall’ospedale civile, rimasti lì
perché malati.
Diverse
settimane dopo i partigiani arrivarono a casa di Bruna con una
persona da nascondere e, con sua grande sorpresa, si trovò di
fronte proprio Giovanni Fichera, l’ufficiale conosciuto poco
tempo prima, prigioniero in quel cortile. Durante una sosta a
Verona, era riuscito a fuggire, ed era tornato ad Alfonsine,
dove si sentiva più al sicuro. Si abbracciarono e uno dei
partigiani (detto Bugiò) stupito chiese: “Ma voi due vi
conoscete?” Bruna lo tenne nascosto in casa sua per due
mesi. Seppe da lui le grandi peripezie che aveva attraversato
durante la fuga iniziata a Verona. I
partigiani dovettero poi cambiargli nascondiglio, perché la
permanenza prolungata avrebbe potuto mettere in pericolo anche
coloro che l’avevano nascosto, perciò fu accolto nelle
stanze delle suore dell’ospedale civile. |
...
Bruna lo tenne
nascosto in casa sua per due mesi... |
Conobbi personalmente
Gaetano verso la fine del ’44, quando era stato trasferito nei
locali del pronto soccorso, posto al piano terra del palazzo
comunale di Piazza Monti.
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Il
battesimo da partigiano
Il
fronte si avvicinava sempre più a Ravenna. I partigiani aumentavano
la frequenza delle azioni militari. Un giorno venne nel bar un
responsabile della Resistenza che conoscevo,
Valentino Zalambani, che faceva il sarto nel Lazzaretto, e mi chiese
se volevo far parte, la sera stessa, del gruppo di partigiani,
offertisi per un’azione militare. L’appuntamento era fissato
verso le dieci e mezza: mi dovevo trovare a Borgo Seganti,
sull’argine del fiume Senio. Inforcai la bicicletta e, armato, mi
avviai all’appuntamento. Dovevo fare due chilometri per arrivare
al luogo stabilito e dovevo stare ben attento, perché di notte,
a causa del coprifuoco, le pattuglie controllavano tutte le strade
del paese. Percorso l’ultimo tratto sull’argine sinistro del
fiume, vidi i compagni che mi aspettavano già sul posto; erano miei
amici e più o meno miei coetanei, e tutti eravamo armati.
Il nostro compito era quello di trasportare, da un posto a
un
altro, armi e munizioni. Il riferimento era la casa di Bardèla,
(Pietro Tamburini) che si trovava oltre l’argine destro del fiume;
lo si doveva attraversare mediante una passerella, messa
provvisoriamente dai contadini di entrambe le rive, per evitare di
dover percorrere il lungo tratto che portava al ponte. Arrivati,
bussammo. Ci aprì Bardèla in
persona.
Una volta entrati ci indicò esattamente il punto dove avremmo
trovato le armi da portare poi fino alla sua casa. Da lì
successivamente avrebbero dovuto trasportarle a un presidio di
partigiani, dentro la valle di Sant’Alberto. Facevano parte di un
nuovo distaccamento che aveva preso il nome “Terzo Lori”, in
onore di quel giovane alfonsinese caduto nella battaglia di Biserno.
Ci incamminammo lungo il sentiero del podere, togliemmo tutte le
armi dal rifugio scavato sotto terra, e ce le caricammo sulle
spalle;
poi ritornammo in fila indiana verso la casa di Bardèla, l’unica
nei dintorni che non fosse ancora occupata dai tedeschi.
Quella
sera, c’era una luna splendente e, nel tepore della notte, si
udiva un gran vocio, proveniente dalle case dove si trovavano i
militari tedeschi. Arrivati a circa venti o trenta metri dalla casa
di Bardèla, ci fermammo un attimo per prudenza prima di continuare
la strada; vicino a me c’era
Peppino,
fratello di Agide Samaritani; decidemmo, per ulteriore precauzione,
che uno di noi si avvicinasse alla finestra, da dove proveniva uno
spiraglio di luce di candela, per accertarsi che non vi fossero
tedeschi. Peppino si avvicinò da solo alla finestra e, facendoci
cenno di raggiungerlo, fece capire che non c’era alcun militare.
Entrammo, scaricammo le armi dalle spalle e le appoggiammo sulla
tavola di cucina; Bardèla
immediatamente le nascose in un rifugio che aveva preparato
all’interno della casa. Intanto noi ci accingevamo a completare la
nostra missione, che non era ancora finita, perché dovevamo entrare
nel paese che distava circa un chilometro e mezzo, e distribuire per
i marciapiedi il foglio clandestino dell’Unità. Era
un’operazione abbastanza pericolosa, perché sulla Statale
Adriatica passavano di continuo colonne di carrette piene di
tedeschi, trainate da animali (cavalli e muli):
noi dovevamo attraversare quella strada, portarci in Corso Garibaldi
e quindi iniziare la distribuzione (si doveva arrivare fino in
piazza dove, nella Casa del Fascio, c’era una caserma della Decima
Mas, e attorno facevano pattugliamento). Lasciammo le biciclette a
casa di Bardèla e ci incamminammo lungo il fosso verso la Statale.
Le
carrette e i tedeschi che passavano erano molti e noi dovevamo
attendere il momento buono; c’erano circa due minuti
d’intervallo fra una fila di carrette e l’altra. Attraversata la
Statale ci portammo su Corso Garibaldi, dove potemmo fare la
distribuzione clandestina, fino alla piazza, proprio sotto il naso
delle guardie repubblichine ignare di essere state beffate. Tornammo
sani e salvi senza colpo ferire, riprendemmo le nostre biciclette da
Bardèla, e tornammo al Borgo Seganti, dove rimanemmo fino al
mattino.
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I
rifugi fatti dai partigiani
Vorrei
spendere qualche parola per illustrare la struttura dei rifugi
fatti dai partigiani che si trovavano sul territorio di
Alfonsine. Erano nascondigli molto difficili da rintracciare,
infatti, durante tutto il periodo della Resistenza, nessuno di
loro fu mai scoperto né dai tedeschi né dalle Brigate Nere,
nonostante ve ne fossero un numero considerevole. |
|
Erano costruiti in questo modo: veniva ricavato un
vano nel terreno agricolo di fianco al filare delle viti; la
copertura di questo vano quadrato e profondo due metri era sostenuta
da travi di legno ricoperte di assi. In essa si apriva una botola di
circa un metro quadro che dava accesso a una scala ricavata nel
terreno. La porta era costituita da una cassetta piena dello stesso
terreno e camuffata sopra con fasci di sterpi: l’ultimo si tirava
dietro la cassetta che chiudeva la botola completamente. Il sistema
di aerazione era dato da un tubo di lamiera (uno di quelli da stufa)
che da sottoterra si infilava nei fusti d’albero vuoti che
sostenevano i filari delle viti.
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La
Colonna “Wladimiro”
La guerra continuava, e non passava
giorno senza che ci fossero azioni militari da parte dei partigiani.
Sia nelle stazioni ferroviarie che lungo i binari venivano fatti
saltare i treni per ostacolare il traffico di rifornimenti di armi,
munizioni e vettovaglie diretti al fronte di Cassino. Anche sulle
strade avvenivano azioni di guerra partigiana; le corriere
piene di tedeschi, pronte a raggiungere i fronti, venivano attaccate
dai gruppi dei Gap, che dovevano rifornirsi di armi e munizioni.
Intanto nel Distaccamento “Terzo Lori” fervevano i preparativi
per congiungersi con gli alleati, attraverso la pineta che iniziava
da Sant’Alberto, quando fosse arrivato il momento della
liberazione della città di Ravenna. Nel mese di novembre,
all’incirca, i partigiani della zona di Alfonsine, insieme a
quelli del lughese e bagnacavallese, ebbero l’ordine di
raggrupparsi e di avanzare, per unirsi al “Terzo Lori”.
Si
formò così la “Colonna Wladimiro” con 430 partigiani, la
maggior parte alfonsinesi. “Wladimiro” era il nome di battaglia
dell’alfonsinese Mario Verlicchi, che la comandava. Il vice
comandante era “Alfio”, Ulisse Ballotta. Nell’avanzare della
colonna, dalla valle di Sant’Alberto verso la pineta,
a Mandriole ci fu il primo scontro diretto con i carri armati
tedeschi ancora in attività, e lì purtroppo si ebbero i primi
morti fra i partigiani. Nonostante la battaglia fosse dura,
sia per l’inferiorità dei mezzi, sia per il fattore sorpresa,
i partigiani riuscirono ad infliggere grosse perdite ai tedeschi, ma
dovettero retrocedere. Si rifugiarono nella valle, sulla lingua di
terra di “Bosco Forte”. I contatti col distaccamento “Terzo
Lori” furono così interrotti. Il “Terzo Lori” ripiegò verso
Ravenna e iniziò la battaglia per la liberazione della città,
mettendo in fuga le truppe tedesche. Era il 4 di dicembre.
La
“colonna Wladimiro”, finalmente ripristinò i contatti con il
comando centrale partigiano, e iniziò il suo attacco il 5 dicembre
occupando e liberando Sant’Alberto.
La
controffensiva tedesca fu potente e i partigiani delle valli si
dovettero ritirare lungo il fronte del Lamone.
Dopo
che Ravenna era stata liberata furono raggiunti dall’Ottava Armata
alleata, che riconobbe ufficialmente la 28°
brigata partigiana “Mario Gordini”, agli ordini del Comandante
“Bulow” (Arrigo Boldrini). Gli altri componenti dello Stato
Maggiore di “Bulow” erano Benigno Zaccagnini di Ravenna, e Rino
Montanari di Alfonsine.
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"Partizan"
I
partigiani furono armati ed equipaggiati di tutto punto; ricevettero
la divisa grigio-verde col fazzoletto rosso e la coccarda tricolore
sul basco. Appariva sulle spalle della giacca la scritta "Partizan".
I gradi, tra i gruppi partigiani, non esistevano, e i comandanti
eletti dalle stesse compagnie venivano chiamati col proprio nome di
battaglia.
…
ricevettero la divisa grigio-verde col fazzoletto rosso e la
coccarda tricolore …
(La
6° Compagnia: gli alfonsinesi sono il primo in alto da sinistra
Gaetano Verlicchi, il quarto Giuseppe Bassi, il sesto Romano Tarroni,
il settimo Sirio Geminiani, in seconda fila, il primo Antonio
Tarroni, il quarto Steno Pagani, il quinto Alfredo Bedeschi (e’
piculè),
il sesto è Buonafede Servidei (Fidéna), il settimo Luigi
Pattuelli (e’ profès),
il decimo Renzo Pagani (Cuchì), l’ultimo della seconda
fila Silvano Zaccaria d’Cazarota.
Accovacciati da sinistra: Mario Zampiga di Ravenna, Quarto
Servidei, Duilio Minguzzi, Ermanno Foschini di Mezzano, Luigi Morigi
di Alfonsine)
Al
comandante “Bulow” fu assegnata una fascia di “fronte”
lunga
circa quindici chilometri, che partiva dall’inizio di Via Basilica
e andava verso Savarna fino al mare.
Nei
quattro mesi che il fronte rimase fermo, i partigiani dimostrarono
grande capacità, coraggio e orgoglio d’essere italiani,
mantenendo la loro fascia di fronte con tenacia.
La
sosta del fronte durò dal giorno della liberazione di Ravenna fino
a tutto l’inverno, lasciando per un così lungo periodo il paese
di Alfonsine alla mercé dell’esercito tedesco.
I
partigiani poi arrivarono a Venezia; l’ultimo partigiano di
Alfonsine che morì fu Rino Bendazzi; accadde
sul Brenta i1 28 aprile. Si offrì volontario per andare ad
aiutare alcuni soldati inglesi che oltre il fiume Brenta erano
stati attaccati da un gruppo di tedeschi. Durante quella
sortita cadde nel fiume e morì annegato, nonostante fosse un
buon nuotatore: forse era stato ferito o forse, appesantito da
indumenti e zaino, non riuscì a vincere la corrente del fiume
Brenta: aveva solo vent’anni. |
...
aveva solo vent’anni...
(da
sinistra i partigiani alfonsinesi Enzo Pasi e Rino Bendazzi
durante la pausa-pranzo) |
Così
terminò la lotta partigiana; l’impegno, che “Bulow”, assieme
a tutta la 28° Brigata “Mario Gordini”, aveva assunto, fu
degnamente e orgogliosamente portato a termine, riscattando con
l’onore dei partigiani caduti la dignità perduta dagli italiani,
nel momento in cui il fascismo si alleò con Hitler.
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