"E' Café d'Cài" 

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Per un paio di scarponi

 Nel periodo in cui tra i partigiani alfonsinesi fervevano i preparativi per formare la “colonna Wladimiro”, anch’io mi ero dato da fare, nei brevi momenti che sottraevo al lavoro del bar, per potermi equipaggiare ed armare in attesa di partire assieme ai miei compagni. Ma mio fratello Mino mi aveva imposto di rimanere a casa, sostenendo che ci sarebbe stato bisogno di uomini anche ad Alfonsine perché il progetto era quello di liberarla. Io però continuai nel mio intento.

Una mattina verso le 10, mentre come al solito prestavo servizio al bar, entrarono due della Gestapo: erano i cosiddetti poliziotti della “Wermacht”; portavano al collo una grossa catena di metallo, da cui pendeva una medaglia con su scritto "Got mit uns". Si sedettero ad un tavolino dove c’era il gioco della dama, e mi ordinarono due gelati nel bicchiere; li servii subito. Mentre rientravo dietro il banco arrivò un altro militare della Wermacht; non era un tedesco, era un mongolo, di quelli che i tedeschi reclutarono durante la campagna di Russia.
Mi ordinò un vermouth, io glielo versai e gli chiesi a bassa voce, cercando di esprimermi in tedesco, se aveva un paio di scarponi da vendermi. Lui mi rispose di sì dandomi l’indirizzo di dove alloggiava. Non era distante dal mio bar, si trovava in fondo al Corso Garibaldi, verso la Rossetta. La proprietaria della casa era la zia del mio caro amico Mauro Ghetti.
Gli pagai gli scarponi in anticipo e mi misi subito a pensare a chi potevo mandare per ritirarli. Non finii quel pensiero che proprio in quel momento vidi arrivare Mauro: chiesi se mi poteva fare quel favore. Lui mi disse subito di sì, e si incamminò verso casa di sua zia. 

Mi accorsi però che i due della Gestapo seduti al tavolo avevano capito tutto: infatti mi stavano scrutando con la coda dell’occhio mentre fingevano di giocare a dama. Fremevo nell’attesa che arrivasse il mio amico con gli scarponi; non passarono neanche dieci minuti che Mauro, col pacchetto sotto il braccio, apparve in fondo alla piazza, diretto verso il bar. Io mi avvicinai alla porta e cercai, a gesti, di fargli capire di non entrare dalla porta centrale, ma dal retro, che ben conosceva. Lo guardavano anche i tedeschi e, nel vedere il suo brusco cambiamento di rotta, capirono che sarebbe entrato dall’altra parte; uno dei due corse verso la porta del retro, bloccandolo. Aprirono il pacco e, visti gli scarponi militari, gli intimarono di dire per chi fossero. Naturalmente Mauro disse che erano per me, al che lo lasciarono e vennero di corsa tutti e due a prelevarmi dal banco del bar. Mi spinsero nella sala del biliardo, attigua alla cucina dove si trovava mia madre. Uno dei due sfilò la pistola dal taschino della giacca, era una Walter di medio calibro, e mi disse, alzando la voce: “Tu partizan!” Io rispondevo di no e con una mano facevo notare le mie scarpe mezze sfondate.
Ma lui insisteva: “Tu partizan!” A quel punto accorse mia madre; piangendo, si raccomandava che mi lasciassero andare, perché non ero un partigiano, ma avevo semplicemente, bisogno di un paio di scarpe in vista della brutta stagione; fra l’altro i negozi ad Alfonsine in quel periodo erano tutti chiusi. A forza di implorarlo, il tedesco ripose la pistola nella tasca. Ordinarono a mia madre di tornare in cucina, io invece fui portato alla Casa del Fascio, dove, salite le scale, mi consegnarono ad un sergente della Brigata Nera, un ragazzo alto, bruno, con i baffi neri. Quando i tedeschi andarono via e restammo soli, mi squadrò da cima a fondo e mi chiese cosa avessi fatto. Gli risposi che avevo comprato un paio di scarponi da un militare della “Wermacht”. Mi guardò ancora e sorridendomi mi disse: “Vai pure a casa”. 

Anche quella volta il mio aspetto di ragazzino appena adolescente mi aiutò a scampare il pericolo. Tornai nel bar ringraziando col pensiero il sergente dai baffi neri. Il giorno dopo, verso mezzogiorno, mentre stavo spazzando il bar aiutato dal mio carissimo amico Isler, che aveva qualche anno meno di me, ricomparvero improvvisamente i due della Gestapo. Non mi guardarono nemmeno in faccia, uno andò di corsa in cucina, l’altro si precipitò dietro al banco del bar e iniziò ad aprire i cassetti.

Io continuavo a spazzare e Isler sistemava le sedie attorno ai tavoli, come se niente fosse, ma pensavo con terrore al quarto cassetto del banco, che conteneva due pistole, due sacchetti di munizioni e una rimanenza di fogli dell’"Unità". Il tedesco stava per finire di controllare il terzo cassetto ed io mi immaginavo già come poteva andare a finire: di certo molto male per me! Non so descrivere lo stato d’animo di quegli attimi: dovevo far finta di niente, dovevo spazzare con lo stesso ritmo di quando era entrato per non insospettirlo, non so chi mi abbia dato la forza di mantenere quella calma apparente! Mentre continuavo la pulizia del pavimento, col cuore in gola, aspettando che ultimasse la revisione dell’ultimo cassetto, sapevo cosa mi aspettava;
ma d’un tratto sentii il suo camerata che lo chiamava ad alta voce. Lui corse nell’altra stanza, a venti metri dal banco del bar, e io, a quel punto, senza pensarci su, mi precipitai al quarto cassetto dove c’erano le armi, rovesciai tutto in uno strofinaccio, annodai in fretta i quattro angoli e consegnai il fagotto a Isler.
Gli raccomandai di nasconderlo di fretta nel bagno pubblico, che si trovava a cinquanta metri da casa mia, a fianco del Cinema Aurora, e poi di tornare immediatamente, senza farsi vedere. Isler lo fece, riuscì a portare il tutto e a tornare indietro senza che i tedeschi se ne accorgessero. Ricominciammo a pulire, ma il mio timore era di aver lasciato tracce nel cassetto svuotato.

Il tedesco tornò dopo qualche minuto e ultimò il suo compito in attesa che l’altro finisse di perquisire le stanze che si trovavano al primo piano, poi uscirono dal bar senza dir nulla. Mandai di nuovo Isler a riprendere le armi, che le ritrovò dove le aveva lasciate e le riportò a casa. Io misi tutto nello stesso cassetto, comprese le copie dell’"Unità", salutai Isler e lo ringraziai.
C’era mancato proprio un soffio!

 
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Sfollati

Intanto si avvicinava il fronte, eravamo verso la fine di novembre. Io avevo obbedito a mio fratello Mino che mi aveva imposto il divieto di partire, mentre lui se ne era andato al Distaccamento “Terzo Lori”, con cui partecipò alla liberazione di Ravenna.

Mia madre ed io decidemmo di chiudere il bar e di trasferirci in un palazzo più sicuro di quanto non fosse la nostra casa, che si trovava nella parte più in vista della piazza, di fronte a via Roma, dalla quale si presumeva sarebbero arrivati gli alleati. Così accompagnai mia madre nel sotterraneo del Palazzo de’ Ciné, che si trovava nel Lazzaretto.

... accompagnai mia madre nel sotterraneo del Palazzo de’ Ciné, che si trovava nel Lazzaretto...

Questo borgo, formato da casupole abitate da persone umili, che facevano diversi mestieri, era distante cento metri da casa mia e il proprietario era proprio e’ Ciné. Tra le molte persone che già vi si trovavano c’era anche la famiglia del mio caro amico Natale. Io invece preferii rimanere con la famiglia della mia fidanzata Lea, che aveva preso in affitto una casa lungo l’argine del fiume, verso Fusignano. 

Rimanemmo lì assieme a una decina di persone, tutti parenti di Lea, finché la notte fra 1’ 11 e il 12 dicembre, giorno di Santa Lucia, iniziarono a cadere a migliaia le granate alleate su tutto il paese e dintorni. Continuarono a scoppiare per tutti i giorni successivi e non smisero più per quattro mesi; solo in brevi momenti della giornata si riusciva ad uscire di casa, ma sempre con prudenza.

Dopo una settimana decidemmo di tornare a casa nostra, eravamo convinti che la liberazione di Alfonsine fosse imminente. 

... Questo borgo, formato da casupole abitate da persone umili, che facevano diversi mestieri, era distante cento metri da casa mia e il proprietario era proprio e’ Ciné...

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... la notte fra 1’ 11 e il 12 dicembre, giorno di Santa Lucia,
iniziarono a cadere a migliaia le granate alleate su tutto il paese...


 
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Il pronto soccorso in piazza Monti

 Arrivati nella piazza constatammo, con grande dolore, che casa mia era irrimediabilmente sventrata. Tutte le porte del bar erano divelte, anche le finestre, e all’interno tutto l’arredamento era distrutto. Andai di corsa insieme con Lea e sua sorella, verso la casa de’ Ciné, dove, nel sotterraneo trovai mia madre con una trentina di altre persone, anch’esse rifugiate in condizioni di fortuna. Ci fermammo lì per qualche giorno, sistemandoci alla meglio nel poco posto rimasto.

Cercai subito di riallacciare i contatti con i compagni partigiani della piazza, così mi diressi verso il palazzo comunale (uno dei pochi rimasti intatti attorno alla piazza), salii al primo piano, e lì trovai tutti i miei amici. I compagni partigiani erano impegnati a preparare una specie di pronto soccorso, e così anch’io mi misi a disposizione. In un paio di giorni il primo piano si riempì di malati, feriti e anziani. Tutto era improvvisato, ma la necessità impellente ci costringeva a trovare delle soluzioni immediate di emergenza. 

... I compagni partigiani erano impegnati a preparare una specie di pronto soccorso...

Per fortuna alla direzione di questo centro sanitario c’era un personaggio che si rivelò molto importante per Alfonsine: era il dottor Errani, che ci dava le indicazioni sulle cose da fare. Insieme ai miei compagni Carlo Battaglia e sua sorella Velia, Marcello Gessi e suo cugino omonimo detto Penelo, Libero d’Piaz, i fratelli Angelo e Giorgio Pescherini, Mario d’la Salvagna, Walter d’Farinè, Ciulì, Dino d’Cachi, Otello d’Barini e altri ancora, ci si prodigava nel raccogliere vettovaglie, legna da ardere, animali abbandonati nei territori di nessuno. 

Si andava nelle case abbandonate, lungo il fronte, che si era fermato tra il Senio e il canale Naviglio, distanti neanche un chilometro dalla piazza del paese. Carlo Battaglia aveva raccolto e catalogato, in un ufficio attiguo al pronto soccorso, tutte le medicine che aveva portato, insieme ad altri compagni, dalla farmacia ora abbandonata, dove lavorava prima, come commesso. Andare alla ricerca di animali (mucche, vitelli, pecore, animali da cortile) era molto pericoloso, perché le granate continuavano a cadere su tutto il territorio, specialmente sulle zone abbandonate da tutti. Durante il tragitto non ci tormentavano solo le granate, ma lungo il fronte, a tre o quattrocento metri d’altezza, c’era la cosiddetta “cicogna”: un aereo dalle ali molto ampie che sembrava fosse fermo nel cielo, da quanto andava piano. L’aereo-osservatore, appena scorgeva persino muoversi una foglia, trasmetteva immediatamente le coordinate alla batteria a terra, e subito partivano le bombe. Noi stavamo all’erta, con l’orecchio teso, per distinguere il colpo di partenza: a quel punto ci si buttava per terra, sperando di non essere colpiti. 

Era così per tutto il tempo che durava l’operazione, tutto il tempo cioè che occorreva per giungere al mercato coperto, dove, in uno dei negozi abbandonati dai macellai, un mio amico coetaneo, Marcello Gessi detto Marcilò, si improvvisava mattatore. Raccoglieva, fra le tante cianfrusaglie di macelleria, una mazza e la maschera col chiodo da porre sul capo dell’animale da abbattere; poi con grande forza e decisione sferrava un colpo secco. La bestia stramazzava a terra e noi, con mannaia e coltello, sezionavamo i pezzi che poi trasportavano al terzo piano del comune. Lì si faceva macelleria e conservazione naturale, sfruttando il fatto che eravamo in pieno inverno e al terzo piano il riscaldamento non esisteva. 

Quando si usciva per strada si incontravano sempre dei gruppi di tedeschi, equipaggiati di tutto punto, che andavano in fila indiana verso il fronte vicino, forse per dare il cambio ai loro camerati.
Mi ricordo che un pomeriggio spingevo con altri due compagni un carretto vuoto da riempire di legna, lungo corso Garibaldi verso la Rossetta, e davanti a noi c’erano quattro tedeschi; d’un tratto si sentirono i colpi di partenza di una batteria di cannoni; noi ci buttammo a terra. Finito lo scoppio delle granate ci rialzammo e ci accorgemmo che dei quattro tedeschi erano rimasti solo brandelli dilaniati e sparsi lungo la strada. 
Ci fermammo nella prima casa vuota, frastornati.

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…Quando si usciva per strada si incontravano sempre dei gruppi di tedeschi, equipaggiati di tutto punto, che andavano in fila indiana verso il fronte vicino, forse per dare il cambio ai loro camerati… 

(La foto fu scattata dal balcone del Palazzo Contessi in Corso Garibaldi. La casa di fronte era di Mario Monti, dove oggi ci sono i Tamburini, poi la casa di Tullio Samaritani, quindi dei Poletti, si vedono i tedeschi con le loro carrette)

Poi superato quel momento, ritornammo a compiere il nostro servizio, tornando illesi al pronto soccorso. Devo dire anche che i tedeschi non intralciavano il nostro servizio, perché eravamo muniti di bracciali e berretto con il simbolo della croce rossa, che il dottor Errani aveva fatto preparare dalle suore, rifugiatesi dentro il comune in una stanza attigua allo scalone. Tuttavia c’è da dire che quando i feriti erano tedeschi non ci tiravamo indietro e soccorrevamo anche loro.
Gli alfonsinesi, in previsione dell’avvicinamento del fronte, si erano riforniti di vettovaglie; molti di loro però avevano poi lasciato le case con tutte le scorte, per paura del passaggio della guerra, e si erano spostati verso nord, così noi non avevamo difficoltà nella raccolta di viveri, perché ce n’erano in abbondanza nelle case abbandonate.

  
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Inverno 1944: il fronte si fermò

Iniziò a nevicare, e il giorno di Natale cadde neve in abbondanza. Nei giorni precedenti si nutriva la speranza che potesse finalmente giungere la Liberazione, ma l’abbondante nevicata, durata diverse settimane, l’allontanò definitivamente. Il fronte si fermò per tutto l’inverno, per quattro lunghi mesi. Gli alfonsinesi dovettero subire le migliaia e migliaia di granate che ogni giorno cadevano sul territorio, facendo distruzioni e provocando morti e feriti. 

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... Iniziò a nevicare e il giorno di Natale cadde neve in abbondanza... 

(via Mazzini di fronte al mulino Medri)

Nonostante le difficoltà che la neve aveva portato nelle campagne e per le strade, noi ogni giorno dalle otto del mattino fino al tramonto, formando gruppi di due o tre persone, compivamo i servizi necessari al pronto soccorso. Il pericolo si aggiunse al pericolo, perché il bianco della neve, ovviamente, faceva risaltare ancor di più le cose in movimento: le persone, i militari, i carriaggi, e così la “cicogna” poteva essere ancor più precisa e veloce nel trasmettere la posizione alle batterie di terra. 

 
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L’incontro con Fichera, nascosto al Pronto Soccorso

 Certamente l’iniziativa di istituire il pronto soccorso, praticamente un ospedale improvvisato, presa insieme al dottor Errani, fu di valido aiuto all’Ospedale Civile dove operava il Professor Pasini, insieme al dottor Minarelli, un giovane di Alfonsine appena laureato, e a un altro giovane medico, un certo dottor Sartori di Padova. Oltre ai volontari, aiutavano anche le suore e qualche infermiere; purtroppo ogni giorno c’erano feriti e morti tra la popolazione. 

Un mattino, mentre con alcuni amici scendevo le scale del Palazzo Comunale, si aprì la porticina che dava nella stanza delle suore, e una di loro ci chiamò. Ci chiese se avevamo bisogno di qualcosa; mentre mi avvicinavo, intravidi un ragazzo poco più che ventenne. 

Era proprio Gaetano Fichera, quell’ufficiale di Acireale provincia di Catania, professore di matematica, che con altri ufficiali prigionieri sostarono per pochi giorni nel “Palazzo del Popolo” e che era stato accolto dalla Gap delle Borse, nell’estate del ’44. In quell’occasione lo conobbi personalmente. Si era rifugiato prima all’ospedale civile, nascosto nel reparto delle suore, poi al pronto soccorso.

  all’Ospedale Civile dove operava il Professor Pasini …

L'ospedale Civile in via Reale  

 
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Il palazzo di Marén colpito in pieno

 

Un mattino, mentre stavamo macellando, udimmo un aereo sorvolare il paese a bassa quota e distinguemmo, fra il rumore che provocava, un colpo sordo: come quello di una fucilata o di una bomba non esplosa. Ci avvicinammo alla finestra ma non vedemmo nulla di strano e tornammo al nostro lavoro. Dopo un quarto d’ora circa arrivò al pronto soccorso un ragazzo con la testa fasciata, un ragazzo che noi tutti conoscevamo: era Livio. 

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... quell’aereo aveva sganciato una bomba e aveva colpito il palazzo d’Marèn...  

Ci raccontò con tremore che quell’aereo aveva sganciato una bomba e aveva colpito il palazzo d’Marèn dove, nel sotterraneo, si trovavano decine e decine di persone, e la notte prima era arrivato anche un comando delle SS.
A questo punto andammo di corsa con le barelle. Arrivati al palazzo, non riuscivamo a capire in che modo la bomba lo avesse colpito, dato che non si vedeva alcuna rottura nella costruzione. Salimmo la bianca gradinata che portava al portone principale: la porta era divelta, ci affacciammo e rimanemmo sbalorditi nel vedere l’interno del palazzo colmo di macerie e cadaveri di militari e civili. Seppi, in seguito, incontrando in piazza due miei compagni e amici partigiani (Marii e Fiamett) mentre stavano entrando nella casa di Pitade’ (dove erano sfollati con le loro famiglie), che erano stati proprio loro a segnalare, tramite radio trasmittente, la presenza del comando S.S. nel palazzo di Marèn.

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... rimanemmo sbalorditi nel vedere l’interno del palazzo colmo di macerie e cadaveri di militari e civili...

Le macerie del palazzo d'Marén (1945)

 Quel giorno ci fu un lavoro immenso per noi: per ore e ore togliemmo macerie ed estraemmo cadaveri di civili e di S.S.. Portammo i morti al terzo piano e li ripulimmo; i militari furono portati via dai loro camerati, mentre i nostri civili furono seppelliti provvisoriamente dietro al mercato coperto. Per fortuna una parte del sotterraneo aveva resistito e non era crollato, altrimenti avrebbe ucciso altre decine di persone. 

 
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La tragica morte di Natale Pescarini

 Anche Natale Pescarini, il padre dei fratelli Angelo e Giorgio, fu sepolto in quel cimitero improvvisato, dietro il mercato coperto. Dopo essere stato preso dai tedeschi e portato in fondo a via Roma, fu costretto, come tanti, a fare postazioni nella zona fra i due fronti. Lì vicino c’era la boaria di Luigiò d’Marèn. Preso dalla sete entrò in quella casa per chiedere da bere, ma la trovò abbandonata.

Sul tavolo era rimasto un fiasco pieno, all’apparenza,
di vino. Senza pensarci due volte tolse il tappo e si attaccò al fiasco. Dopo averne bevuto un sorso, si accorse che non era vino ma estratto di nicotina che veniva usato per i frutteti. Quel sorso gli fu fatale. Riuscì comunque a fare tutto il tragitto a piedi, fino al pronto soccorso, poco più di un chilometro. Fece persino la scala urlando: “Brucio, brucio!”
I figli lo soccorsero e lo stesero su un materasso, il dottor Errani si prodigò in tutte le maniere, ma non ci fu nulla da fare e dopo qualche minuto Natale Pescarini morì. Aveva vissuto dieci anni all’estero facendo il cameriere a Londra e a Parigi. Conosceva due o tre lingue ed era un mio caro amico. Ricordo quante volte, prima della guerra, nei pomeriggi di settembre, quando avevo otto anni, eravamo andati insieme a casa di Piritti de’ Macac, un ortolano nostro amico, a mangiare il prosciutto con un ottimo melone “Cantalù”, una qualità francese molto apprezzata, che lui ben conosceva e decantava.

A volte veniva al mio bar, e quando mi avvicinavo per servirlo pretendeva che pulissi il bicchiere davanti a lui, prima di versargli la birra: voleva che imparassi come si diventava un bravo cameriere. Era preciso e maniaco dell’igiene. Il modo in cui morì fu davvero un paradosso e io soffrii tanto per la sua scomparsa.

Nei rari momenti di riposo andavo a trovare mia madre, Lea e sua sorella Tonina, che mi raccontavano di aver recuperato, nella mia casa diroccata, farina, vino e qualche vaso di marmellata ancora intatto; ma queste ricerche erano pericolose perché c’era il rischio di essere colpiti dalle granate o di incontrare dei tedeschi, che non disdegnavano sequestrare le giovani ragazze per violentarle. Solo dopo averle riviste sane e salve, me ne tornavo tranquillizzato al pronto soccorso, raccomandando loro di non rischiare troppo.

Venne il giorno di Natale e anche noi lo festeggiammo mangiando e bevendo insieme, raccontandoci gli avvenimenti successi nei giorni precedenti. Tra i vari discorsi si parlò anche del fatto che Angelo Pescarini stava preparando la tesi di laurea che doveva sostenere all’Università di Bologna, facoltà di matematica. Ci complimentammo con lui.

Mi venne in mente il giovane professore di matematica, che avevo conosciuto nella stanza delle suore, al pronto soccorso, pochi giorni prima. Chiesi ad Angelo se gli faceva piacere conoscerlo. Mi disse di sì. Il mattino seguente, prima di uscire, bussai alla porticina che dava nella stanza delle suore e mi venne ad aprire proprio Gaetano. Gli chiesi se gli avrebbe fatto piacere conoscere un mio giovane amico, che stava preparando la tesi di matematica e che si trovava ai piani superiori. Lui mi rispose di sì e si infilò su per la scala, noi invece continuammo il nostro giro per raccogliere i viveri.
La sera, tornando al pronto soccorso, mi venne incontro Angelo, entusiasta per aver conosciuto quel ragazzo; mi disse: “Sai chi è quel professore? E’ Gaetano Fichera, quello che ha vinto il premio accademico di matematica nello stesso anno in cui Elio Vittorini vinse quello per la letteratura!” Mi ringraziò tanto per avergli fatto incontrare un personaggio di tale levatura, e per un po’ continuammo a parlare di lui. Gaetano e Angelo rimasero amici per tutta la vita.

 
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Capodanno 1944

 Venne l’ultimo giorno dell’anno. Stavamo tutti al terzo piano a sistemare le vettovaglie per il pronto soccorso quando sentimmo qualcuno salire di corsa le scale; era un ragazzo che faceva parte del gruppo, ci disse: “Presto, chiudiamoci dentro, perché i tedeschi stanno venendo su per le scale con cattive intenzioni!” Chiudemmo a chiave la porta e la barricammo usando tutti i tavoli che erano nella sala. Poco dopo udimmo lo scalpitio degli scarponi dei tedeschi che salivano. Armeggiarono un po’ colla maniglia poi li sentimmo scendere in fretta le scale. Quell’episodio ci convinse che era tempo di cambiare sede. Ci preparammo a fuggire, abbandonando così il pronto soccorso che per noi non era più sicuro. Prendemmo un po’ di provviste: pane, salame, qualche bottiglia di vino e un fiasco di vermouth; mettemmo a posto i tavoli e scendemmo con cautela le scale, ci affacciammo sulla piazza piena di neve, e dopo aver dato una rapida occhiata, imboccammo con passo svelto Corso Garibaldi, dirigendoci verso il ponte sulla statale. Arrivati al palazzo d’Fed, Bonafede Minarelli, entrammo dal portone spalancato. Sulla destra, aprendo una porta, c’era una saletta con un tavolo e, ammassate in un angolo, le assi che componevano il pavimento del palco della banda municipale. Non so come fossero capitate proprio lì, ma di notte ne stendemmo qualcuna per dormirci. Appoggiammo sul tavolo i salami, il poco pane, le bottiglie di vino e il fiasco di vermouth, richiudemmo la porta a chiave e attendemmo la mezzanotte per brindare all’anno nuovo, il 1945. Ci sdraiammo abbastanza ubriachi, e ci risvegliammo solo verso le dieci del mattino seguente;
la prima cosa che facemmo fu quella di guardare con cautela fuori della finestra per vedere quale fosse la situazione all’esterno.

La finestra dava su Corso Garibaldi e si vedevano ogni tanto passare, in fila indiana, i soldati tedeschi, che forse si accingevano a dare il cambio ai loro camerati al fronte, distante meno di un chilometro dalla piazza.
Dall’equipaggiamento da guerra che portavano si poteva già valutare la loro forte carenza di armi: avevano solo il fucile, poche munizioni e qualche bomba a mano. Venendo dalla piazza, la sera prima, avevamo visto che, sotto il porticato, nel negozio di scarpe d’Custent, Costante Rambelli, babbo dell’Orestina, c’era nascosto un semovente fornito di un cannone 88. Questo tipo di cannone era lo stesso che si installava sui panzer. 

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... La finestra dava su Corso Garibaldi e si vedevano ogni tanto passare, in fila indiana, i soldati tedeschi...

(La foto fu scattata dal balcone del palazzo Contessi in Corso Garibaldi, si vedono le carrette dei soldati tedeschi. La prima casa da sinistra era di Luigi Ghirardini, la seconda della famiglia Lucci, abbinata alla famiglia Minarelli. Si nota il pilastrino e il cancello ancora oggi presenti. La terza casa era della Giavlèta, Anna Gulminelli Rambelli, sorella di Pippo il postino. La quarta era il Cinema del Corso dei fratelli Luigi e Tereo Minarelli, segue il palazzo d’Fed e il casarmone)

In quel periodo la carenza di armi costringeva i comandi delle forze tedesche di Alfonsine a spostare quel cannone da una zona all’altra, dove ce n’era la necessità, e la sera, per nasconderlo, lo ficcavano sotto il porticato, tanto che lo avevano quasi demolito. Credo che fosse l’unico cannone rimasto attivo in tutto il territorio alfonsinese. 

 
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Presi dai tedeschi

 Decidemmo di non restare lì anche la sera successiva, perché non ci sentivamo sicuri. Infatti quella stanza non aveva altre uscite, quindi se fossimo dovuti scappare, non ci sarebbe stato possibile cavarcela.

Verso le quattro del pomeriggio attraversammo Corso Garibaldi; dopo aver verificato che non passasse nessuno ci infilammo nel cortile dell’orto d’Grison. Di fianco alla casa abbandonata c’era una piccola stalla per maiali, vuota; dentro c’erano delle balle di paglia e così decidemmo di trascorrere lì la notte. Rivedendo quel luogo e quella casa, mi tornarono in mente tutte le volte che da bambino ci avevo giocato, dato che quell’orto era di mia zia Maria Ori, “la Palunera”.

Sistemammo le balle dentro allo stalletto e ci sdraiammo, sperando che i tedeschi non facessero dei rastrellamenti, dato che avevano bisogno di mano d’opera al fronte. Per fortuna potemmo dormire tutta la notte senza essere disturbati.

Verso le otto del mattino ci svegliammo: uno alla volta, andammo al pozzo nel centro del cortile e attingemmo l’acqua col secchio. Mentre ci rinfrescavamo, non tanto dal caldo, perché era inverno e c’era la neve, ma per aver dormito scomodi in uno spazio molto ridotto, ci accorgemmo che un gruppo di tedeschi ci aveva circondati. Ci spinsero fuori dal cancello in malo modo e, con le armi puntate, ci avviarono sulla strada verso il ponte, che era crollato a causa delle incursioni aeree. Attraversammo una stretta passerella di legno improvvisata e continuammo sulla via Reale fino al vecchio consorzio agrario, dove ci chiusero al primo piano della palazzina che si trovava nel cortile del consorzio stesso. Vi trovammo rinchiuse una ventina di persone di Alfonsine, che erano state rastrellate qualche giorno prima; erano tutti nostri conoscenti.

La stanza in cui ci trovavamo era una stanza normale e non aveva certamente la capienza per ospitare trenta persone: dovevamo anche dormire su quel pavimento! Quelli arrivati prima di noi ci spiegarono che il vitto consisteva in due fette al giorno di pane nero con un sottile strato di margarina. Inoltre ci raccontarono che tutte le mattine erano portati nelle case, dove si trovavano i comandi delle SS, per svolgere dei servizi. Dovevano segare i mobili, nonostante i tedeschi avessero le legnaie già piene di pezzi tagliati a misura di stufa; dovevano pulire gli scarponi infangati, e quando erano puliti glieli tiravano addosso dicendo che erano ancora sporchi; facevano di tutto per render la loro vita difficile.  Per una ventina di giorni feci anch’io quella vita: ci facevano compiere opere vandaliche nelle case che avevano occupato.

Un giorno mi trovavo in una palazzina situata all’angolo del viale della Stazione; conoscevo la famiglia che vi abitava prima, perché la figlia Simonina era stata a scuola con me; conoscevo anche suo padre, Vizenz d’Pitëda (Vincenzo Montanari), perché frequentava il mio bar. Stavo segando sedie e tavoli quando un sergente del comando si diresse verso una grossa botte di vino, che si trovava nella cantina adiacente, e anziché prelevarlo dall’apposito rubinetto estrasse la pistola, sparò un colpo e poi, quando il vino zampillò dal foro, riempì una bacinella e se ne andò via, mentre il vino continuava ad uscire e a cadere per terra fino a che il livello nella botte non scese sotto il foro.

  
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La distruzione del paese vecchio

 Un mattino alle quattro ci svegliarono brutalmente e ci spinsero in fretta e furia nel cortile; ci portarono sulla strada e in fila per due ci fecero oltrepassare l’incrocio di via Mazzini con via Raspona. Oltre l’incrocio, sulla destra, si trovava il magazzino di Argelli detto Fumì, che era stato sventrato dalle granate. Lì ci fecero fermare. Dentro c’erano accatastate bombe da aereo di circa uno o due quintali l’una. Ci imposero di prenderne una per ciascuna coppia e di trascinarla per la strada. In questo caso avemmo fortuna perché c’era la neve e così la bomba scivolava senza troppo sforzo. Per eseguire questo compito ci servivamo del filo di rame dell’illuminazione pubblica, caduto a terra per i colpi delle granate: lo legavamo ad un bastone e così potevamo trascinare la bomba con poca fatica. 

Raggiunto l’argine del fiume, lo si scavalcava dalla parte destra del ponte, che era crollato per le bombe; poi si attraversava una passerella: era alquanto stretta e scivolosa e costituiva l’unico collegamento con l’altra sponda. Arrivati all’incrocio con Corso Garibaldi si andava verso destra e s’iniziava a depositare le bombe nelle prime case del Corso, che poi sarebbero state fatte saltare, per distruggere il paese. Un mattino la bomba trainata dalla coppia che ci seguiva, nell’attraversare la passerella, scivolò giù nel fiume provocando un grosso tonfo.
Noi proseguimmo continuando a disporre le bombe nelle case, dando ogni tanto un’occhiata dietro di noi, per vedere se i nostri amici erano riusciti a rientrare. Non li vedemmo più. La sera, quando ci si trovò tutti insieme, ci interrogammo per capire cosa potesse essere successo, ma nessuno di noi seppe dare una risposta. Non so se quella coppia di amici sia stata trascinata nel fiume insieme alla bomba; non ne sapemmo più nulla; sperai tanto che si fosse trattato di uno stratagemma per scappare, e che il piano fosse riuscito. 

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… La distruzione del corso continuò ancora per molti giorni, fino a che non si arrivò alla piazza, dove furono messe le bombe anche nella mia casa, nella chiesa, nel comune, nella casa di Santoni e nella pescheria…

(Inizio febbraio 1945 – La chiesa e il caffè d’Cai sono un cumulo di macerie. 
Si vedono sullo sfondo il teatro “Aurora”, l’asilo parrocchiale e in primo piano la Canonica, che subirono la stessa sorte)

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Le macerie della casa del Fascio, del Municipio e del palazzo Santoni.

La distruzione del corso continuò ancora per molti giorni, fino a che non si arrivò alla piazza, dove furono messe le bombe anche nella mia casa, nella chiesa, nel comune, nella casa di Santoni e nella pescheria. Solo le abitazioni di un lato della piazza furono risparmiate, dalla casa di Sgarbi fino al porticato del Credito Romagnolo. Io credo che la distruzione del paese fu incompleta solo per la mancanza di bombe, altrimenti sarebbero riusciti a distruggerlo interamente.

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... solo le abitazioni di un lato della piazza furono risparmiate...

 Ho sempre pensato che i motivi per cui i tedeschi erano arrivati a questo punto non fossero quelli militari, ma che ci fosse una ragione più profonda: secondo me era quella di vendicarsi del popolo alfonsinese che si era prodigato tanto per ostacolarli e agevolare l’avanzata degli alleati; questi invece preferirono lasciare il paese in mano ai nazi­fascisti per tutto l’inverno. Avrebbero potuto salvarlo con un minimo sforzo, avanzando solo per altri due chilometri, e i tedeschi non avrebbero fatto resistenza, perché ormai non erano in più condizioni di poter reagire.

 
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Deportati verso nord

 Dopo l’operazione delle bombe, che durò una ventina di giorni, una notte ci fecero alzare e ci misero in fila sulla
Via Reale verso Voltana. Arrivati al circolo Vincenzo Monti (e’ cafiten), ci portarono al primo piano, dove trovammo rinchiusa un’altra cinquantina di persone che non erano di Alfonsine, perché parlavano dialetti di provenienza emiliana. Qualcuno cercò di scappare calandosi dalla finestra, ma ogni tentativo fu subito sventato dagli aguzzini; dopo qualche ora riprendemmo la marcia verso Voltana. Era difficile mantenere l’equilibrio su quella strada piena di ghiaccio e di neve, ma la nostra preoccupazione di non cadere per terra era davvero grande, perché se non ci si alzava in fretta c’era il pericolo di essere ammazzati sul posto. Arrivammo a Taglio Corelli, e lì smisero anche le granate; proseguimmo lungo la statale a passo lento e arrivammo al centro di Voltana intorno alle nove. Eravamo un centinaio di persone malmesse e malnutrite.
Nelle case si vedevano le luci accese, cosa che
ad Alfonsine non avevamo visto da tempo. Anche per la strada c’era qualche lampione acceso: a noi sembrava di essere, almeno all’apparenza, in un altro mondo. Ogni tanto incrociavamo delle donne voltanesi, che portavano a casa dal forno i cesti pieni di pane. Noi ne chiedevamo un po’, ma i tedeschi cercavano di impedirci ogni contatto con queste donne, che tuttavia ce ne lanciavano dei pezzi. Alcuni fortunati, me compreso, riuscirono a prenderli. Marciammo senza fermarci mai, e arrivammo sulla strada che portava alla “Santa”, una frazione di una decina di case in tutto; lungo la strada c’erano molte grandi cantine di vino, ci fecero entrare in una di queste. All’interno, lungo le pareti, c’erano delle grosse cisterne di cemento piene di vino, e ogni cisterna aveva il suo rubinetto, mediante il quale i tedeschi si approvvigionavano della preziosa bevanda, riempiendo botti e damigiane che trasportavano con carretti trainati da asini, mucche o muli. Infatti, i tedeschi ormai non avevano più mezzi di trasporto militare, così dovevano fare con quello che trovavano nelle case dei contadini. Anche se ne avessero avuti ancora non avrebbero potuto usarli perché mancava il carburante.
In uno di quei capannoni vinicoli facemmo una breve sosta.
Il pensiero che ci dominava era quello trovare il modo di fuggire, ma era impossibile, perché c’era un unico portone, e lì c’era il solito sergente armato che ci controllava: bisognava aspettare un momento più opportuno. Ciascuno pensava alla propria famiglia e alle condizioni in cui l’aveva lasciata; fra noi cominciò a circolare la voce che ci avrebbero portato fino a Ferrara, perché sembrava che i mezzi di trasporto, specie quelli ferroviari, funzionassero in qualche modo solo oltre Ferrara; a quel punto si sapeva già quale sarebbe stato il nostro destino: essere spediti in Germania. Bisognava assolutamente trovare il modo di scappare, sperando in un po’ di fortuna.

Era passata solo una ventina di minuti quando apparve un maresciallo delle S.S. con un fazzoletto rosso attorno al collo; era un uomo di piccola statura, con la faccia dura e cattiva che, a suon di spinte, ci divise in due gruppi: uno formato da una sessantina di ragazzi giovani, e l’altro costituito dai più anziani e malandati. Terminata l’operazione, se ne andò via in bicicletta, uno dei pochi mezzi di trasporto ancora disponibili.

La selezione attuata ci suggeriva un unico ragionamento: il gruppo degli anziani sarebbe stato liberato, mentre noi giovani invece avremmo dovuto continuare a piedi verso Ferrara. Ci stavamo demoralizzando, non si parlava più e ognuno badava alle sue cose, senz’alcuna speranza di salvezza. Insieme avremmo potuto reagire, forse liberarci di quei pochi tedeschi che erano i nostri aguzzini, ma ormai non avevamo più la forza né di pensare né di reagire. 

 
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La fuga

 Avevo sempre sofferto di congiuntivite sin da ragazzo e quando mi accorsi che il mio malanno si stava accentuando, mi venne un’idea: quella di fingermi cieco. Chiesi al mio amico Paveli di accompagnarmi dal sergente che si trovava alla porta d’entrata, per dirgli che non vedevo. Ma nonostante la mia insistenza Paveli si rifiutò, sostenendo che ero pazzo e che rischiavo di farmi ammazzare, che era un suicidio e che non era disposto ad aiutarmi in questo. Allora mi rivolsi a Barusco, un mio conoscente sui trentacinque o quarant’anni. Barusco aveva aderito al fascismo da giovanissimo. Nel paese correva voce che fosse coinvolto nell’omicidio di un giovane alfonsinese antifascista. Il suo aspetto fisico incuteva rispetto: era robusto, occhi neri, capelli, baffi e barba neri; aveva una voce baritonale, ed appariva sicuro di sé. Con noi giovani insisteva affinché reagissimo, e aveva ragione; ma noi non eravamo più nelle condizioni di spirito per farlo.
Non potevamo neanche fidarci di lui, perché lo conoscevamo: era stato un fascista convinto, volontario in Africa orientale nel ’36, volontario in questa guerra in Africa settentrionale, credo volontario anche con Franco contro la repubblica spagnola nel ’38. Non si riusciva a capire come mai fosse capitato tra noi prigionieri, si pensò che avesse cambiato idea nell’ultimo periodo del fascismo. Infatti, ci raccontò che in Africa, durante l’offensiva finale degli inglesi che mise in fuga tedeschi e italiani dell’armata di Rommel, questi ultimi furono lasciati a piedi nel deserto, abbandonati al loro destino, mentre i tedeschi si ritiravano scappando sui camion e con altri mezzi di trasporto. Gli italiani si aggrappavano alle sponde dei camion in fuga per salirci sopra, ma i tedeschi li colpivano col calcio dei fucili sulle mani per farli staccare facendoli cadere sulla sabbia. Nonostante ciò Barusco si era salvato, aveva attraversato a piedi tutto il deserto ed era riuscito a raggiungere un comando italiano evitando di essere fatto prigioniero dagli inglesi. Quando gli chiesi di portarmi dal sergente che stava sulla soglia della porta, per dirgli che ero cieco, mi guardò e mi domandò se ero sicuro di quello che gli stavo chiedendo;
io dissi di sì, ero deciso, non ne potevo più. Sapevo cosa rischiavo, ma la mia speranza era di uscire dal gruppo dei giovani ed entrare in quello che a me pareva fosse il gruppo destinato ad essere liberato. Barusco mi accompagnò di fronte al sergente e gli disse che non vedevo, poi ritornò nel gruppo. Dopo pochi minuti riapparve in bicicletta il maresciallo col fazzoletto rosso, per portare, assieme al sergente, i due gruppi nel cortile del capannone, allineandoli uno di fronte all’altro. Finita l’operazione il sergente mi portò di fronte al maresciallo dicendogli che non vedevo. Questi mi guardò, mi si avvicinò, estrasse una pistola dal taschino della giacca, me la puntò di fronte agli occhi e mi disse:

“Tu vedere questo?” Io gli dissi: “No, niente vedere.”

Rimasi per un po’ con la pistola puntata, furono attimi interminabili; non potrei mai raccontare quello che mi passò per la mente in quei momenti; in attesa di morire, pensai alla mia famiglia. Mi tolse la pistola dalla faccia, se la rimise nel taschino e se ne andò. Il sergente mi accompagnò nel gruppo degli anziani e, mentre quello dei giovani continuava a marciare verso il nord, noi facemmo a ritroso la strada verso “La Santa”. Passammo davanti ad una casa che aveva, sul muro che guardava la strada, una nicchia con l’immagine della Madonna. Di solito si incontravano lungo le strade edicole come quella, messe lì per ricordare episodi particolari, e pensai che in quel punto vi fosse stato un incidente o qualche cosa di tragico. Attraversammo il cancello del cortile ed entrammo nell’atrio della palazzina. Il sergente aprì con una chiave la porta di una stanza e ci spinse dentro. Noi eravamo una ventina, ma c’erano già altrettante persone. La stanza era illuminata da un mozzicone di candela appoggiata sul camino; sulla destra, sotto ad una finestra sbarrata, c’era una grande mastella da bucato adibita ai bisogni corporali. Ad alcune delle persone che già si trovavano lì, lacrimavano gli occhi per la congiuntivite; dormivamo ammassati sul pavimento e spesso di notte si sentiva qualcuno che andava di corsa verso la mastella, a causa del propagarsi della dissenteria. Eravamo tutti in cattive condizioni, come si può ben immaginare.
Era già da dieci giorni che gli altri si trovavano in quella situazione, chiusi lì dentro senza luce, senz’aria e con poco da mangiare. Intanto la porta venne richiusa a chiave. Il sergente aprì solo il giorno seguente, quando ci portarono il solito pranzo: un pezzetto di margarina e due pezzi di pane nero. Anche lì la prospettiva di andare a casa diminuiva giorno dopo giorno.

Un bel mattino la porta si aprì non per il pranzo ma per portarci di nuovo tutti nell’atrio; il solito sergente si trovava proprio di fronte a me; feci un passo avanti e gli dissi:
“Io niente vedere.” Mi guardò, prese con la mano la visiera del berretto che portavo, me la tirò sugli occhi e con l’altra mano mi sferrò un pugno in faccia. Mi ritrovai fra le braccia dei miei compagni che mi sollevarono per rimettermi in piedi.
Il tedesco si avvicinò di nuovo e mi disse con fare di sfida: “Ah, tu niente vedere? Bene tu andare a casa. Vai!”
Lentamente allungai le braccia in avanti, mi girai, sempre lentamente, verso la porta fingendo di non vedere, mi avvicinai alla porta di uscita che dava sul cortile e piano piano uscii, sempre con la paura di non arrivare a farla franca, e di non riuscire a raggiungere la strada. La strada era piena di neve; girai verso Voltana e m’incamminai. Sentivo dietro di me un passo svelto, ma io non mi voltai mai, finché il mio inseguitore cominciò a chiamarmi: “Tonino, fermati!”
Mi fermai e lui mi venne vicino. Era uno degli amici che avevo lasciato nella casa.

Mi disse che quel sergente mi aveva seguito fino al cancello, osservandomi, e che poi era rientrato nell’atrio della casa chiedendo se c’era qualcuno che mi conoscesse.
Il mio amico si era fatto avanti affermando che ero del suo paese. Il sergente allora gli aveva ordinato di accompagnarmi: evidentemente aveva davvero creduto che io non vedessi! Con gioia ci incamminammo insieme verso Voltana. Arrivati al passaggio a livello, seguimmo sulla destra la ferrovia verso Alfonsine, che, distava dodici o forse tredici chilometri.
A metà strada trovammo un treno con diversi vagoni rovesciati Superandolo, constatammo che sui binari c’era una grande voragine, probabilmente provocata dalla dinamite messa dai partigiani, che si prodigavano per boicottare i mezzi di trasporto dei tedeschi, facendo saltare i treni. Sempre lungo la ferrovia, oltrepassata la stazione di Alfonsine, girammo a sinistra, prima del fiume Senio, lungo la strada che porta a Borgo Gallina, dove abitava la futura cognata
Sina, la fidanzata di Bruno Facchini, fratello di Lea. La casa era del babbo di Sina, Stefano Rossini detto “Pelloni”.

Il mio compagno ed io ci salutammo, facendoci entrambi gli auguri, (tra l’altro, era il padre di un mio amico partigiano, Antonio Dradi, che, anche dopo la liberazione, continuò a essere chiamato col nome di battaglia: Valinskj). Bussai alla porta e venne ad aprirmi proprio Sina, che, dopo avermi guardato bene, mi disse: “Sei tu Tonino?” Probabilmente al primo impatto, con la barba e i capelli lunghi, denutrito, sporco, vestito di stracci, non mi aveva riconosciuto. Mi accompagnò in casa, dove trovai mia madre, Lea, i suoi genitori, la sorella, Bruno e tutta la famiglia, loro vari parenti come la famiglia Lucci, e qualche conoscente che era sfollato in attesa che finisse la guerra. Feci un bagno nella mastella con l’acqua calda, mi prestarono dei vestiti e dopo qualche giorno mi ritrovai di nuovo in forma. 

 
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Borgo Gallina: a casa di Sina, figlia di “Pelloni”

 Non ci si azzardava più di tanto ad uscire, perché oltre alle granate c’era sempre il solito pericolo di essere presi dai tedeschi e spediti al fronte a costruire postazioni militari.

Una sera, verso le undici, mentre dormivamo sui materassi stesi sul pavimento, sentimmo bussare forte.
Lea, che era la ragazzina del gruppo, si nascose sotto le lenzuola, nel letto dove era coricato Antonio Lucci, detto Toni dla squëdra perché faceva il sarto, mentre Pelloni il babbo di Sina si diresse verso la porta e, accortosi che erano tedeschi, la aprì prima che la sfondassero. Tre soldati ubriachi si precipitarono in casa, si guardarono in giro furtivamente, poi salirono di corsa le scale e rimasero nelle stanze di sopra per una ventina di minuti. Tornarono giù portandosi via tutto quello che gli era capitato sotto mano: un prosciutto, dei salami, alcune cose di valore della famiglia e se ne andarono di corsa. Il babbo di Sina chiuse di nuovo la porta col catenaccio. La mamma del mio amico Mauro si mise a gridare: “Mi hanno rubato il mio prosciutto, i miei salami!”

Convenimmo insieme che non era andata poi così male e, passata la paura, ci coricammo alla meglio sui pochi materassi stesi per terra.

 
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A casa di Ester nel Borghetto

 Rimanemmo nella casa di Sina ancora per una decina di giorni, poi decidemmo di andare, da sfollati, nella casa della cugina di Lea, Ester, che abitava in Via Mazzini con il marito, Mino. Andammo io, Lea, sua sorella Tonina e mia madre. Nella casa di Ester e di Mino trovammo anche un’altra famiglia di nostra conoscenza: Lucia, la madre Teresina, il fratello di Ester, Gigino, e il padre di Ester, e’ Frador. Il posto non era tanto grande: c’era un’unica stanza con il camino e lì si stava tutto il giorno, si mangiava e si dormiva. Col marito di Ester, che conoscevo già da prima della guerra, andavo oltre il fiume Senio, nel centro del paese, a cercare farina e vettovaglie per mangiare e poter tirare avanti; eravamo poco più di una decina di persone. Portavamo un carretto da mugnaio per trasportare una damigiana di vino oppure un sacco di farina, e a volte anche qualche pezzo di carne già macellata. Lui, poi, aveva creato una serpentina di rame collegata ad un serbatoio dove il vino fatto bollire produceva vapore, che raffreddato e condensato era alcool. Si metteva nelle bottiglie e così, ogni tanto, se ne poteva sorseggiare un bicchierino, che dava anche un po’ di allegria. Era pericoloso uscire, perché le granate continuavano a scoppiare e i tedeschi erano sempre all’erta, ma, d’altra parte, non si poteva farne a meno, perché dovevamo pur sopravvivere.

Un giorno, tornando a casa da queste sortite, trovammo Gaetano Fichera; non so come fosse arrivato fin lì. Sicuramente qualcuno gli aveva indicato come un sicuro rifugio la casa di Ester. Ci salutammo e ci abbracciammo, però lo trovai molto abbattuto, disse che soffriva di asma. Mettemmo un materasso per lui vicino alla finestra, così avrebbe potuto dormire respirando aria fresca.

 
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continua...