Per
un paio di scarponi
Nel
periodo in cui tra i partigiani alfonsinesi fervevano i preparativi per
formare la “colonna Wladimiro”, anch’io mi ero dato da fare, nei
brevi momenti che sottraevo al lavoro del bar, per potermi
equipaggiare ed armare in attesa di partire assieme ai miei compagni. Ma
mio fratello Mino mi aveva imposto di rimanere a casa, sostenendo che ci
sarebbe stato bisogno di uomini anche ad Alfonsine perché il progetto era
quello di liberarla. Io però continuai nel mio intento.
Una
mattina verso le 10, mentre come al solito prestavo servizio al bar,
entrarono due della Gestapo: erano i cosiddetti poliziotti della “Wermacht”;
portavano al collo una grossa catena di metallo, da cui pendeva una
medaglia con su scritto "Got mit uns". Si sedettero ad un
tavolino dove c’era il gioco della dama, e mi ordinarono due gelati nel
bicchiere; li servii subito. Mentre rientravo dietro il banco arrivò un
altro militare della Wermacht; non era un tedesco, era un mongolo, di
quelli che i tedeschi reclutarono durante la campagna di Russia.
Mi ordinò un vermouth, io glielo versai e gli chiesi a bassa voce,
cercando di esprimermi in tedesco, se aveva un paio di scarponi da
vendermi. Lui mi rispose di sì dandomi l’indirizzo di dove alloggiava.
Non era distante dal mio bar, si trovava in fondo al Corso Garibaldi,
verso la Rossetta. La proprietaria della casa era la zia del mio caro
amico Mauro Ghetti.
Gli pagai gli scarponi in anticipo e mi misi subito a pensare a chi potevo
mandare per ritirarli. Non finii quel pensiero che proprio in quel momento
vidi arrivare Mauro: chiesi se mi poteva fare quel favore. Lui mi disse
subito di sì, e si incamminò verso casa di sua zia.
Mi
accorsi però che i due della Gestapo seduti al tavolo avevano capito
tutto: infatti mi stavano scrutando con la coda dell’occhio mentre
fingevano di giocare a dama. Fremevo nell’attesa che arrivasse il mio
amico con gli scarponi; non passarono neanche dieci minuti che Mauro, col
pacchetto sotto il braccio, apparve in fondo alla piazza, diretto verso il
bar. Io mi avvicinai alla porta e cercai, a gesti, di fargli capire di non
entrare dalla porta centrale, ma dal retro, che ben conosceva. Lo
guardavano anche i tedeschi e, nel vedere il suo brusco cambiamento di
rotta, capirono che sarebbe entrato dall’altra parte; uno dei due corse
verso la porta del retro, bloccandolo. Aprirono il pacco e, visti gli
scarponi militari, gli intimarono di dire per chi fossero. Naturalmente
Mauro disse che erano per me, al che lo lasciarono e vennero di corsa
tutti e due a prelevarmi dal banco del bar. Mi spinsero nella sala del
biliardo, attigua alla cucina dove si trovava mia madre. Uno dei due sfilò
la pistola dal taschino della giacca, era una Walter di medio calibro, e
mi disse, alzando la voce: “Tu partizan!” Io rispondevo di no e con
una mano facevo notare le mie scarpe mezze sfondate.
Ma lui insisteva: “Tu partizan!” A quel punto accorse mia madre;
piangendo, si raccomandava che mi lasciassero andare, perché non ero un
partigiano, ma avevo semplicemente, bisogno di un paio di scarpe in vista
della brutta stagione; fra l’altro i negozi ad Alfonsine in quel periodo
erano tutti chiusi. A forza di implorarlo, il tedesco ripose la pistola
nella tasca. Ordinarono a mia madre di tornare in cucina, io invece fui
portato alla Casa del Fascio, dove, salite
le scale, mi consegnarono ad un sergente della Brigata Nera, un
ragazzo alto, bruno, con i baffi neri. Quando i tedeschi andarono via e
restammo soli, mi squadrò da cima a fondo e mi chiese cosa avessi fatto.
Gli risposi che avevo comprato un paio di scarponi da un militare della
“Wermacht”. Mi guardò ancora e sorridendomi mi disse: “Vai pure a
casa”.
Anche
quella volta
il mio aspetto di ragazzino appena adolescente mi aiutò a scampare il
pericolo.
Tornai nel bar ringraziando col pensiero il sergente dai baffi neri. Il
giorno dopo, verso mezzogiorno, mentre stavo spazzando il bar aiutato dal
mio carissimo amico Isler,
che aveva
qualche anno meno di me, ricomparvero improvvisamente i due della Gestapo.
Non mi guardarono nemmeno in faccia, uno andò di corsa in cucina,
l’altro si precipitò dietro al banco del bar e iniziò ad aprire i
cassetti.
Io
continuavo a spazzare e Isler sistemava le sedie attorno ai tavoli, come
se niente fosse, ma pensavo con terrore al quarto cassetto del banco, che
conteneva due pistole, due sacchetti di munizioni e una rimanenza di fogli
dell’"Unità". Il tedesco stava per finire di controllare il
terzo cassetto ed io mi immaginavo già come poteva andare a finire: di
certo molto male per me! Non so descrivere lo stato d’animo di quegli
attimi: dovevo far finta di niente, dovevo spazzare con lo stesso ritmo di
quando era entrato per non insospettirlo, non so chi mi abbia dato la
forza di mantenere quella calma apparente! Mentre continuavo la pulizia
del pavimento, col cuore in gola, aspettando che ultimasse la revisione
dell’ultimo cassetto, sapevo cosa mi aspettava;
ma d’un tratto sentii il suo camerata che lo chiamava ad alta voce. Lui
corse nell’altra stanza, a venti metri dal banco del bar, e io, a quel
punto, senza pensarci su, mi precipitai al quarto cassetto dove c’erano
le armi, rovesciai tutto in uno strofinaccio, annodai in fretta i quattro
angoli e consegnai il fagotto a Isler. Gli
raccomandai di nasconderlo di fretta nel bagno pubblico, che si trovava a
cinquanta metri da casa mia, a fianco del Cinema Aurora, e poi di tornare
immediatamente, senza farsi vedere. Isler lo fece, riuscì a portare il
tutto e a tornare indietro senza che i tedeschi se ne accorgessero.
Ricominciammo a pulire, ma il mio timore era di aver lasciato tracce nel
cassetto svuotato.
Il
tedesco tornò dopo qualche minuto e ultimò il suo compito in attesa che
l’altro finisse di perquisire le stanze che si trovavano al primo piano,
poi uscirono dal bar senza dir nulla. Mandai di nuovo Isler a riprendere
le armi, che le ritrovò dove le aveva lasciate e le riportò a casa. Io
misi tutto nello stesso cassetto, comprese le copie dell’"Unità",
salutai Isler e lo ringraziai.
C’era mancato proprio un soffio!
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Sfollati
Intanto
si avvicinava il fronte, eravamo verso la fine di novembre. Io avevo
obbedito a mio fratello Mino che mi aveva imposto il divieto di
partire, mentre lui se ne era andato al Distaccamento “Terzo
Lori”, con cui partecipò alla liberazione di Ravenna.
Mia
madre ed io decidemmo di chiudere il bar e di trasferirci in un
palazzo più sicuro di quanto non fosse la nostra casa, che si
trovava nella parte più in vista della piazza, di fronte a via
Roma, dalla quale si presumeva sarebbero arrivati gli alleati. Così
accompagnai mia madre nel sotterraneo del Palazzo de’ Ciné, che
si trovava nel Lazzaretto. |
... accompagnai
mia madre nel sotterraneo del Palazzo de’ Ciné, che si trovava
nel Lazzaretto... |
Questo
borgo, formato da casupole abitate da persone umili, che facevano
diversi mestieri, era distante cento metri da casa mia e il
proprietario era proprio e’ Ciné. Tra le molte persone che già
vi si trovavano c’era anche la famiglia del mio caro amico Natale.
Io invece preferii rimanere con
la famiglia della mia fidanzata Lea, che aveva preso in affitto una
casa lungo l’argine del fiume, verso Fusignano.
Rimanemmo
lì assieme a una decina di persone, tutti parenti di Lea, finché
la notte fra 1’ 11 e il 12 dicembre, giorno di Santa Lucia,
iniziarono a cadere a migliaia le granate alleate su tutto il paese
e dintorni. Continuarono a scoppiare per tutti i giorni successivi e
non smisero più per quattro mesi; solo in brevi momenti della
giornata si riusciva ad uscire di casa, ma sempre con prudenza.
Dopo
una settimana decidemmo di tornare a casa nostra, eravamo convinti
che la liberazione di Alfonsine fosse imminente. |
...
Questo borgo, formato da casupole abitate da persone umili, che
facevano diversi mestieri, era distante cento metri da casa mia e il
proprietario era proprio e’ Ciné... |
... la
notte fra 1’ 11 e il 12 dicembre, giorno di Santa Lucia,
iniziarono a cadere a migliaia le granate alleate su tutto il
paese... |
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Il
pronto soccorso in piazza Monti
Arrivati
nella piazza constatammo, con grande dolore, che casa mia era
irrimediabilmente sventrata. Tutte le porte del bar erano divelte,
anche le finestre, e all’interno tutto l’arredamento era
distrutto. Andai di corsa insieme con Lea e sua sorella, verso la
casa de’ Ciné, dove, nel sotterraneo trovai mia madre con una
trentina di altre persone, anch’esse rifugiate in condizioni di
fortuna. Ci fermammo lì per qualche giorno, sistemandoci alla
meglio nel poco posto rimasto.
Cercai
subito di riallacciare i contatti con i compagni partigiani
della piazza, così mi diressi verso il palazzo comunale (uno
dei pochi rimasti intatti attorno alla piazza), salii al primo
piano, e lì trovai tutti i miei amici. I compagni partigiani
erano impegnati a preparare una specie di pronto soccorso, e
così anch’io mi misi a disposizione. In un paio di giorni
il primo piano si riempì di malati, feriti e anziani. Tutto
era improvvisato, ma la necessità impellente ci costringeva a
trovare delle soluzioni immediate di emergenza. |
...
I compagni partigiani erano impegnati a preparare una specie
di pronto soccorso... |
Per
fortuna alla direzione di questo centro sanitario c’era un
personaggio che si rivelò molto importante per Alfonsine: era il
dottor Errani, che ci dava le indicazioni sulle cose da fare.
Insieme ai miei compagni
Carlo Battaglia e sua sorella Velia, Marcello Gessi e suo cugino
omonimo detto Penelo, Libero d’Piaz, i fratelli Angelo e Giorgio
Pescherini, Mario d’la Salvagna, Walter d’Farinè, Ciulì, Dino
d’Cachi, Otello d’Barini e altri ancora, ci si prodigava
nel raccogliere vettovaglie, legna da ardere, animali abbandonati
nei territori di nessuno.
Si
andava nelle case abbandonate, lungo il fronte, che si era fermato
tra il Senio e il canale Naviglio, distanti neanche un chilometro
dalla piazza del paese. Carlo Battaglia aveva raccolto e catalogato,
in un ufficio attiguo al pronto soccorso, tutte le medicine che
aveva portato, insieme ad altri compagni, dalla
farmacia ora abbandonata, dove lavorava prima, come commesso. Andare
alla ricerca di animali (mucche, vitelli, pecore, animali da
cortile) era molto pericoloso, perché le granate continuavano a
cadere su tutto il territorio, specialmente sulle zone abbandonate
da tutti. Durante il tragitto non ci tormentavano solo le granate,
ma lungo il fronte, a tre o quattrocento metri d’altezza, c’era
la cosiddetta “cicogna”: un aereo dalle ali molto ampie
che sembrava fosse fermo nel cielo, da quanto andava piano. L’aereo-osservatore,
appena scorgeva persino muoversi una foglia, trasmetteva
immediatamente le coordinate alla batteria a terra, e subito
partivano le bombe. Noi stavamo all’erta, con l’orecchio teso,
per distinguere il colpo di partenza: a quel punto ci si buttava per
terra, sperando di non essere colpiti.
Era
così per tutto il tempo che durava l’operazione, tutto il tempo
cioè che occorreva per giungere al mercato coperto, dove, in uno
dei negozi abbandonati dai macellai, un mio amico coetaneo, Marcello
Gessi detto Marcilò, si improvvisava mattatore. Raccoglieva, fra le
tante cianfrusaglie di macelleria, una mazza e la maschera col
chiodo da porre sul capo dell’animale da abbattere; poi con grande
forza e decisione sferrava un colpo secco. La bestia stramazzava a
terra e noi, con mannaia e coltello, sezionavamo i pezzi che poi
trasportavano al terzo piano del comune. Lì si faceva macelleria e
conservazione naturale, sfruttando il fatto che eravamo in pieno
inverno e al terzo piano il riscaldamento non esisteva.
Quando
si usciva per strada si incontravano sempre dei gruppi di
tedeschi, equipaggiati di tutto punto, che andavano in fila
indiana verso il fronte vicino, forse per dare il cambio ai
loro camerati.
Mi ricordo che un pomeriggio spingevo con altri due compagni
un carretto vuoto da riempire di legna, lungo corso Garibaldi
verso la Rossetta, e davanti a noi c’erano quattro tedeschi;
d’un tratto si sentirono i colpi di partenza di una batteria
di cannoni; noi ci buttammo a terra. Finito lo scoppio delle
granate ci rialzammo e ci accorgemmo che dei quattro tedeschi
erano rimasti solo brandelli dilaniati e sparsi lungo la
strada.
Ci fermammo nella prima casa vuota, frastornati.
|
…Quando
si usciva per strada si incontravano sempre dei gruppi di
tedeschi, equipaggiati di tutto punto, che andavano in fila
indiana verso il fronte vicino, forse per dare il cambio ai
loro camerati…
(La
foto fu scattata dal balcone del Palazzo Contessi in Corso
Garibaldi. La casa di fronte era di Mario Monti, dove oggi ci
sono i Tamburini, poi la casa di Tullio Samaritani, quindi dei
Poletti, si vedono i tedeschi con le loro carrette)
|
Poi
superato quel momento, ritornammo a compiere il nostro servizio,
tornando illesi al pronto soccorso. Devo dire anche che i tedeschi
non intralciavano il nostro servizio, perché eravamo muniti di
bracciali e berretto con il simbolo della croce rossa, che il dottor
Errani aveva fatto preparare dalle suore, rifugiatesi dentro il
comune in una stanza attigua allo scalone. Tuttavia c’è da dire
che quando i feriti erano tedeschi non ci tiravamo indietro e
soccorrevamo anche loro.
Gli alfonsinesi, in previsione dell’avvicinamento del fronte, si
erano riforniti di vettovaglie; molti di loro però avevano poi
lasciato le case con tutte le scorte, per paura del passaggio della
guerra, e si erano spostati verso nord, così noi non avevamo
difficoltà nella raccolta di viveri, perché ce n’erano in
abbondanza nelle case abbandonate.
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Inverno
1944: il fronte si fermò
Iniziò
a nevicare, e il giorno di Natale cadde neve in abbondanza.
Nei giorni precedenti si nutriva la speranza che potesse
finalmente giungere la Liberazione, ma l’abbondante
nevicata, durata diverse settimane, l’allontanò
definitivamente. Il fronte si fermò per tutto l’inverno,
per quattro lunghi mesi. Gli alfonsinesi dovettero subire le
migliaia e migliaia di granate che ogni giorno cadevano sul
territorio, facendo distruzioni e provocando morti e
feriti. |
...
Iniziò a nevicare e il giorno di Natale cadde neve in
abbondanza...
(via
Mazzini di fronte al mulino Medri) |
Nonostante
le difficoltà che la neve aveva portato nelle campagne e per le
strade, noi ogni giorno dalle otto del mattino fino al tramonto,
formando gruppi di due o tre persone, compivamo i servizi necessari
al pronto soccorso. Il pericolo si aggiunse al pericolo, perché il
bianco della neve, ovviamente, faceva risaltare ancor di più le
cose in movimento: le persone, i militari, i carriaggi, e così la
“cicogna” poteva essere ancor più precisa e veloce nel
trasmettere la posizione alle batterie di terra.
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L’incontro
con Fichera, nascosto al Pronto Soccorso
Certamente
l’iniziativa di istituire il pronto soccorso, praticamente un
ospedale improvvisato, presa insieme al dottor Errani, fu di valido
aiuto all’Ospedale Civile dove operava il Professor Pasini,
insieme al dottor Minarelli, un giovane di Alfonsine appena
laureato, e a un altro giovane medico, un certo dottor Sartori di
Padova. Oltre ai volontari, aiutavano anche le suore e qualche
infermiere; purtroppo ogni giorno c’erano feriti e morti tra la
popolazione.
Un mattino, mentre con alcuni amici scendevo le
scale del Palazzo Comunale, si aprì la porticina che dava nella
stanza delle suore, e una di loro ci chiamò. Ci chiese se avevamo
bisogno di qualcosa; mentre mi avvicinavo, intravidi un ragazzo poco
più che ventenne.
Era proprio Gaetano Fichera, quell’ufficiale di
Acireale provincia di Catania, professore di matematica, che con altri ufficiali
prigionieri sostarono per pochi giorni nel “Palazzo del Popolo”
e che era stato accolto dalla Gap delle Borse, nell’estate del
’44. In quell’occasione lo conobbi personalmente. Si era rifugiato
prima all’ospedale civile, nascosto nel reparto delle suore, poi
al pronto soccorso.
…
all’Ospedale Civile dove operava il Professor Pasini …
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