"E' Café d'Cài" 
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Le Brigate Nere sequestrano i malati e i feriti

Ogni tanto, di notte, si sentivano dei camion passare. Erano mezzi guidati dalle Brigate Nere che andavano verso il palazzo di Fernè. Dietro a questo palazzo signorile si trovava una casa (casa Argelli) con  una cantina che era stata adibita a pronto soccorso. Le Brigate Nere venivano per caricare i malati, e non solo loro, e portarli a Ferrara, città che doveva essere protetta dalla Croce Rossa internazionale. 

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... Erano mezzi guidati dalle Brigate Nere che andavano verso il palazzo di Fernè...

Per avere questa protezione, Ferrara doveva far risultare un numero molto alto di malati e di feriti, così ce li portavano da tutti gli altri paesi, e anche se questi malati si rifiutavano di andarci, li costringevano, caricandoli persino con i letti. In quelle notti, per paura di essere presi anche noi, ci nascondevamo in un rifugio che si trovava nel cortile della casa di Ester, finché non cessava l’allarme. Ci è sempre andata bene; la nostra paura era quella che decidessero di entrare nelle case, non solo per cercare malati, ma anche per fare il carico di persone sane. Questo giro di camion proveniente dal ferrarese durò per parecchie sere, ma, infine, cessò.

  
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Hedda Mariani e Claudia Guerrini: 
                    la tragica fine di due giovani ragazze

Prima del periodo di questi trasporti forzati, Ester ed io eravamo andati a trovare sua madre, ricoverata in quel pronto soccorso, posto nella cantina dietro la casa di  Fernè. Visitando i malati, trovammo anche la sorella dei miei amici Gigino e Ferruccio Mariani; si chiamava Hedda, una ragazza di circa vent’anni che era stata ferita gravemente al fegato da una scheggia di granata mentre, in un pomeriggio di marzo, dopo aver trascorso l’inverno sempre al chiuso, approfittando di una giornata piena di sole, era andata a passeggiare sull’argine del fiume, proprio all’altezza del Borgo Gallina. Soffrii molto quando la vidi patire sul materasso del pronto soccorso improvvisato; dopo qualche giorno morì di stenti e di dolore, doveva essere la fine di marzo o i primi di aprile del ’45. Incontrai i suoi fratelli qualche giorno dopo la liberazione del 10 aprile di fronte al Caffè d’Frazché, una delle poche case rimaste in piedi nel lato della piazza. Mi ricordo che Gigino indossava la divisa di ufficiale della “San Marco”, essendosi arruolato volontario nella Quinta Armata alleata, ed era reduce dall’offensiva iniziata da 'MonteCassino'.

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... Hedda, una ragazza di circa vent’anni che era stata ferita gravemente al fegato da una scheggia di granata... 

Hedda Mariani

Ci raccontammo le nostre vicende e si parlò anche di Hedda, sua sorella morta da poche settimane. Nonostante tutto, ci rallegrammo per essere ancora vivi. Ma quel doloroso ultimo incontro con Edda al pronto soccorso mi sarebbe tornato in mente, con una certa frequenza, anche dopo qualche mese dalla liberazione di Alfonsine.

Nel periodo in cui stavo da Ester eravamo soliti incontrarci con la famiglia Guerrini che abitava al primo piano. Era una famiglia che conoscevo, formata dai genitori e da tre ragazzi più o meno della mia età: Primo, che poi partì volontario nella 28° Brigata “Gordini”, e le due sorelle Gigina e Claudia. Un pomeriggio passarono due tedeschi dalla strada e, fermandosi all’altezza della finestra delle due sorelle, iniziarono a discutere ad alta voce; erano un po’ ubriachi. D’un tratto udimmo lo scoppio di una fucilata. La pallottola colpì entrambe le sorelle, che si trovavano dietro i vetri della finestra; Claudia rimase uccisa e Gigina fu ferita gravemente. Si disse che era stato un colpo involontario uscito accidentalmente dal fucile di uno dei due tedeschi. Gigina si salvò. La disperazione dei genitori fu grande e tutto il paese partecipò a questa tragedia. Dopo la liberazione si seppe della morte anche del figlio Primo, avvenuta nel fronte di Sant’Alberto. 

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... La pallottola colpì entrambe le sorelle, che si trovavano dietro i vetri della finestra; Claudia rimase uccisa... 

Claudia Guerrini

Intanto la guerra continuava, i mesi passavano (ne erano già trascorsi quattro), eravamo in primavera. Si pensava che, con la fine dell’inverno, fosse imminente la Liberazione. Raramente ormai si incontravano tedeschi per le strade. C’erano rimaste solo poche postazioni sull’argine del fiume Senio. Si prevedeva quindi un veloce passaggio del fronte. 
 

  
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Suor Giocondiana

Il mese di marzo stava per finire, la neve per le strade si era sciolta e le giornate erano soleggiate. Un giorno, con nostra sorpresa, incontrammo a casa di Ester una suora dell’ospedale civile in compagnia di Gaetano Fichera. Ce la presentò come suor Giocondiana, la prima infermiera del professor Pasini, e continuò informandoci che erano fidanzati. A quel punto ci guardammo in faccia stupiti, ma non più di tanto, perché in quei giorni tutto era lecito.

Suor Giocondiana chiese a Ester se poteva darle la possibilità di cambiarsi d’abito, per poter indossare un vestito che teneva impacchettato sotto braccio. Naturalmente Ester disse di sì e l’accompagnò in cucina. Poco dopo apparve Giocondiana vestita di un bel tailleur azzurro: era veramente una bella ragazza e noi tutti ci felicitammo con i due innamorati. Ester si mise in cucina a preparare una specie di ciambella, il vino e liquore c’erano, così festeggiammo tutto il pomeriggio. La sera suor Giocondiana si rimise gli abiti talari e riprese le sue mansioni all’ospedale. 

  
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10 aprile 1945

 Finalmente arrivò la mattina del 10 aprile, il giorno della Liberazione. Intorno a mezzogiorno udimmo un aereo che passava a bassa quota lungo il fronte sul fiume. Uscimmo tutti per renderci conto di cosa stesse succedendo, giacché ormai da mesi non si udivano aerei passare. Scorgemmo la rotta del caccia che sorvolava a bassa quota il fiume Senio; passato l’aereo rientrammo in casa. Verso l’una del pomeriggio, quando uscimmo di nuovo, notammo che i fili stesi lungo i muri delle case, sui marciapiedi di tutta via Mazzini non c’erano più. Quei fili collegavano telefonicamente tra di loro i vari comandi tedeschi. Subito interpretammo questo fatto pensando che forse era giunta l’ora della Liberazione.

 

Ci guardammo in faccia con la speranza che fosse giunto il tanto atteso momento. Rientrammo in casa, urlando con gioia che forse gli alleati avevano iniziato l’offensiva. Uscimmo di nuovo di casa: di tedeschi non se ne vedevano, così ci portammo di corsa verso il fiume che distava poche centinaia di metri; giungemmo sull’argine e, allungando lo sguardo oltre la riva destra, riuscimmo a intravedere gli elmetti luccicanti dei militari che si muovevano verso di noi. 

Arrivarono sulla sponda destra del fiume e lo attraversarono a guado. Noi gli andammo incontro e ci accorgemmo con sorpresa che erano italiani della Divisione Cremona; ci abbracciammo mentre tutti gridavamo pieni di gioia. C’era chi rideva, c’era chi piangeva dalla felicità e chi saltava. Li accompagnammo per le strade del paese alla ricerca delle retroguardie tedesche. Mi ricordo di un ragazzo molto giovane della Cremona di fianco al quale cominciai a correre lungo Via Mazzini. Arrivati all’incrocio con Via Raspona, lo aiutai ad installare il suo fucile mitragliatore Bren all’angolo col bar “Teresa”, puntando dritto verso Via Raspona. Si chiamava Dario. 

 

 

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... Li accompagnammo per le strade del paese alla ricerca delle retroguardie tedesche... 

 

 

 

 

 

 

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... Arrivati all’incrocio con Via Raspona, lo aiutai ad installare il suo fucile mitragliatore Bren all’angolo col bar “Teresa”, puntando dritto verso Via Raspona. Si chiamava Dario...

(Bar Centrale: Via Reale,  incrocio con via Raspona e Mazzini)

Non si vide nessun tedesco lungo quella strada; ci fu una qualche scaramuccia su via Reale verso “e`cafité”, ma niente di più. La gente si affollava per strada continuando a urlare: “Siamo liberi finalmente!”

Rimanemmo fuori tutto il giorno, in giro per le strade, contenti di aver salvato la pelle, ma ricordando anche tutti coloro che erano morti o feriti; solo all’imbrunire tornammo da Ester.

C’eravamo appena coricati, quando udimmo il rombo di un aereo e subito lo scoppio di una bomba. Non era caduta molto lontano da noi, e per fortuna non fece alcuna vittima né alcun danno. Fu installata immediatamente una batteria antiaerea a circa cinquanta metri da dove eravamo noi, si fece sentire per un attimo poi smise, fu l’ultimo guizzo di guerra che dovemmo sopportare. 

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... Non si vide nessun tedesco lungo quella strada...

(Rampa del fiume Senio, Via Reale zona "Sabbioni")

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... ci fu una qualche scaramuccia su via Reale verso “e`cafité”...

(Via Reale: incrocio con via Stroppata)

La sera dopo, bussarono alla nostra porta tre inglesi che facevano parte di quella batteria, con due tedeschi prigionieri. Ci chiesero se c’era qualcuno che parlasse l’inglese, a quel punto si fece avanti Gaetano che rispose ai tre militari con un inglese molto disinvolto. 

Poi si rivolse ai due tedeschi traducendo nella loro lingua quello che gli inglesi chiedevano. Finito l’interrogatorio gli inglesi ringraziarono Gaetano e tutti noi, e ci salutarono portando con loro i prigionieri. Per noi fu una piacevole sorpresa scoprire che Gaetano, pur così giovane, oltre ad essere laureato in matematica, parlasse con naturalezza due lingue straniere, cosa molto rara per quei tempi.

  
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Voglia di festeggiare

Nel palazzo di Fernè, subito dopo la liberazione, si installò il C. L. N. (Comitato di Liberazione Nazionale) di Alfonsine, formato da tutti i partiti che avevano partecipato alla resistenza. All’interno del palazzo fu collocato anche il comune. 

 

Gli alfonsinesi sentivano la necessità di parlare, di divertirsi e di stare insieme, anziani e giovani, donne, uomini e bambini. La sera si festeggiava alla buona nelle case, bevendo vino e ascoltando musica col grammofono a manovella, oppure qualcuno si esibiva con la fisarmonica per farci ballare. Questo continuò per un lungo periodo in quasi tutte le case di Alfonsine. 

 

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 ... Gli alfonsinesi sentivano la necessità di parlare, di divertirsi e di stare insieme, anziani e giovani, donne, uomini e bambini...

(Maggio 1945: Corso Garibaldi, corteo in costume con banda musicale per una partita di calcio tra i giovani)

 

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Le due squadre che si fronteggiarono: “Squadra Ozio e Consumo” contro la “Squadra Grazia e Potenza”

Si aprirono le sezioni dei vari partiti, e anche lì si ballava e si festeggiava. C’era il problema della luce elettrica: le cabine elettriche erano distrutte, i fili erano caduti a terra e si usavano le candele. C’era però il petromax, una specie di lanterna a petrolio che funzionava in questo modo: pompando da un piccolo serbatoio che stava sotto al tubo di vetro, si irrorava una rete di cotone che si trovava al centro, poi con un fiammifero si accendeva la lanterna, che faceva una luce intensa, sostituendo così la luce elettrica.

 
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Il problema di un alloggio

Nei giorni successivi la liberazione il mio problema era quello di trovare un alloggio ove abitare provvisoriamente con la mia famiglia, compresi i miei due fratelli che non erano ancora tornati dalla guerra. Questo problema non era solo mio, perché molti altri concittadini si trovavano nelle stesse condizioni. Insieme a un amico, mio vicino di casa, Bosi detto Sbaragnì, che aveva una moglie, due figlie e una zia anziana, sistemammo l’appartamento di Custent, che si trovava in piazza, sopra al suo negozio di scarpe, approfittando del fatto che era disabitato. L’appartamento vuoto era diroccato e siccome Sbaragnì era muratore riuscimmo a sistemare alla meglio sia il tetto che l’interno, e finalmente potemmo raccogliere tutte e due le famiglie.

C’era poi il problema di ricominciare a lavorare e, poiché il mio bar era stato distrutto, mi misi in cooperativa con altri tre baristi nelle mie stesse condizioni. Aprimmo una rivendita di vino, vermouth e marsala nell’ex negozio di scarpe di Custent.  

I miei colleghi erano: Gigiòn, che aveva il ristorante “Stella”, Ciacco, che aveva l’osteria nel palazzo Santoni, e la Nicolina che aveva il bar all’angolo di corso Garibaldi, sempre in piazza. 

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... il paese era solo un immenso campo di macerie...
(Piazza Monti)

Oltre la nostra rivendita, in piazza vi era il caffé di Frazché, l’unico bar rimasto in piedi. Portammo avanti questa specie di società per qualche mese, finché in agosto arrivarono i miei due fratelli. 

Cassiano tornò da Bari con la sola divisa militare; il giorno in cui arrivò era stravolto per non aver saputo ritrovare il corso principale che portava a casa nostra: infatti, il paese era solo un immenso campo di macerie, interrotto da un sentiero improvvisato, che portava alle poche case rimaste in piedi sulla piazza.        

Tornò anche Mino, con la divisa della 28° Brigata “Gordini”, insieme alla moglie e a una bambina appena nata: si sistemarono con noi. Entrambi i miei fratelli dovettero restare, per molti mesi ancora, con indumenti militari, e io con gli abiti che avevo addosso, non essendo riusciti a salvare niente di quello che avevamo. Cominciammo tutti insieme a rovistare nelle macerie della nostra abitazione; ripulimmo le pietre dalla calce e le accatastammo. Potemmo vendere le travi di ferro alla ditta Marini, una fabbrica importante per Alfonsine, che costruiva macchinari per asfaltare le strade. Questa fabbrica aveva bisogno di procurarsi il ferro necessario per riaprire l’attività, e ridare così lavoro a molti alfonsinesi.  

  
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Si tornava a parlare di politica

In quel periodo si lavorava di giorno e la sera si parlava di politica nelle sezioni di partito, nelle strade e nelle piazze del paese: finalmente si aveva la possibilità di confrontarsi liberamente, senza avere paura di essere bastonati, imprigionati o mandati al confino. Finalmente il fascismo non c’era più! Gli alfonsinesi discutevano e si confrontavano sui problemi, non certo pochi, che ogni giorno affioravano e dovevano essere risolti, in un modo o in un altro.  

Durante il Ventennio, solo al Cafè d’Cai si era discusso di ciò che succedeva nel mondo, i suoi avventori erano persone che avevano avuto il coraggio di parlare apertamente ed erano molto informate, perché di nascosto ascoltavano i notiziari in lingua italiana trasmessi da radio Londra,

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... Durante il Ventennio, solo al Café d'Cai si discuteva …

radio Mosca, specialmente durante la guerra. I gerarchi fascisti del paese avevano evitato, in genere, di entrare nel bar, non volendo trovarsi isolati tra gente sovversiva, tra gente che guardava criticamente il regime; ecco perché il Cafè d’Cai era considerato un covo di antifascisti. Naturalmente chi aveva subito le conseguenze di quella situazione era la mia famiglia.  

  
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Voglia di ricominciare

Il problema impellente era quello delle numerose famiglie che si trovavano senza casa.  

Il mese di maggio era già trascorso, la liberazione d’Italia era avvenuta e nel paese fremeva l’attività politica ed economica. Si costituivano ogni giorno nuove cooperative, che andavano ad aggiungersi a quelle dei muratori e dei braccianti, sopravvissute persino al ventennio fascista per merito di gente come mio padre, Tommaso Pagani (d’Cai), e come Gusté d’Pio, e pochi altri, che avevano impegnato i loro esigui capitali, cioè le proprie 

... si costituivano ogni giorno nuove cooperative, che andavano ad aggiungersi a quelle dei muratori e dei braccianti...

(Piazzale della chiesa nel paese vecchio, all’incrocio con Corso Garibaldi, durante la ricostruzione)

 

abitazioni, per avere un sovvenzionamento dalle banche, e così mettersi in condizione di dar lavoro a centinaia di giovani operai che altrimenti si sarebbero aggiunti alla grande schiera della disoccupazione di quel periodo. 

  
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Il nuovo piano di ricostruzione

Si parlò subito della necessità di un piano regolatore, che consentisse al paese di svilupparsi verso nord-est, perché a sud e a ovest era stretto dai confini troppo vicini dei paesi limitrofi di Bagnacavallo e Fusignano, oltre che  Ravenna, che arrivavano a poche centinaia di metri dalla piazza. Nonostante l’evidenza di questa necessità, quelli che abitavano a destra del fiume Senio si opponevano alla realizzazione del piano regolatore: essi sostenevano la sua inutilità in quanto esisteva già quello vecchio, per il quale non si doveva spendere nulla. Invece, per fortuna, la lungimiranza della prima giunta alfonsinese, capeggiata dal primo sindaco Mario Cassani, permise di varare e di realizzare il nuovo piano regolatore, che fu approvato quasi all’unanimità del Consiglio Comunale, salvo i voti contrari di Lurenz d’Caravit (Lorenzo Servidei), e di pochi altri che si opponevano.  

Nel 1945 ad Alfonsine continuò l’espansione delle cooperative in ogni settore produttivo, sulla via tracciata da quei due grandi socialisti che furono Baldini e Massarenti. 

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... il nuovo piano di ricostruzione, che fu approvato quasi all’unanimità del Consiglio Comunale...

1948 – La ricostruzione alla sinistra del fiume Senio: via 28° Brigata.
Sullo sfondo la nuova sezione del PCI, la sala Unità e la Piazza Gramsci.  
La casa che si vede sulla futura piazza è quella de’ Sciopp, col negozio da fornaio  

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... un piano regolatore, che consentisse al paese di svilupparsi verso nord-est...

1948 - Via 28° Brigata.  In alto sulla sinistra si vedono le prime case popolari: la casa detta “dei Reduci” fu la prima ad essere costruita in corso della Repubblica.

Piazza Gramsci 1948:  la sezione del PCI

 

   
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La cooperativa dei muratori durante il fascismo

Vorrei precisare, per amore di verità, che le autorità fasciste alfonsinesi lasciarono vivere con relativa tranquillità le cooperative dei muratori e dei braccianti, per due semplici ragioni: la prima è che, chiudendole, si sarebbero ingrossate le fila dei disoccupati, la seconda perché c’erano diversi operai con la tessera del fascio che si erano associati a queste organizzazioni di lavoratori. Infatti, in occasione dei bilanci della cooperativa muratori era d’uso fare un grande pranzo nei locali del ristorante "Gallo", adiacente al mio appartamento e lì, accompagnato da mio padre, avevo avuto occasione di vedere anche il podestà Marcello Mariani, (tra l’altro, era il mio insegnante di disegno, all’istituto tecnico di allora), che tenne il discorso di apertura rallegrandosi per il buon risultato ottenuto.  

... il podestà Marcello Mariani tenne il discorso di apertura rallegrandosi per il buon risultato ottenuto...

  
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A casa di Leo Montanari “Pitadé”

 Dopo la liberazione, Gaetano Fichera rimase ad Alfonsine ancora per qualche mese. Ci si trovava talvolta insieme agli amici comuni: i fratelli Pescarini, Franzcòn d’Preda l’anarchico, Leo d’Piteda del Partito d’Azione e diversi altri. Certe sere ci incontravamo in via Mazzini, a casa di Leo, che aveva salvato una potente radio a valvole con tanti dischi di musica classica, e tra un bicchiere di vino e una fetta di ciambella si trascorreva la serata ascoltando buona musica e facendo due chiacchiere di politica.

A volte, di pomeriggio, ci si trovava nel palazzo di Ferné, nella stanza della sede del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale), per discutere dei problemi del paese. Ricordo che durante una pausa tra un argomento e l’altro il parroco del paese, che era solito partecipare alle discussioni, poneva, non so come, la questione dell’esistenza di Dio.  

Don Liverani era un prete coraggioso, e varie volte aveva rischiato la pelle per salvare dalle mani delle Brigate Nere persone segnalate come antifasciste; forse ponendo quest’interrogativo voleva coinvolgere il professor Fichera. Gaetano, però senza mai mettere in discussione l’esistenza di Dio, poneva domande, cui non sempre l’arciprete sapeva rispondere.  Don Liverani poi se la cavava molto diplomaticamente ponendo come unica via d’uscita la fede. Finita la discussione ci si riprometteva di proseguirla in un’altra occasione.  

  
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Don Liverani e “don Tonino”  

Vorrei raccontare un episodio che successe a Don Liverani, a metà degli anni ’30, nei suoi primi anni da parroco ad Alfonsine: era il giorno del patrono del paese e, come sempre, si faceva una gran processione, portando lungo le strade la statua che raffigurava la Madonna. Io sfilavo in processione nel gruppo dei bambini, davanti al parroco. Al bar della casa del fascio, c’erano clienti seduti ai tavolini, e quando passammo, uno solo di loro rimase seduto con il cappello in testa. Don Liverani fermò la processione e, con fare deciso ma educatamente, gli fece capire che al passaggio di una processione religiosa ci si doveva alzare e togliersi il cappello, in segno di rispetto, e quello lo fece subito. Quel personaggio era l’allora segretario del fascio di Alfonsine, Tonino Camanzi. Così era Don Liverani.  

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Don Liverani, a metà degli anni ’30, nei suoi primi anni da parroco ad Alfonsine...

(Da sinistra: Don Montanari, e’ prit d’Marlén, don Serafino Servidei, Antonio Pattuelli -Patvèl, il sacrestano, don Liverani, al centro in prima fila, don (?) dietro a don Liverani, Lorenzo Servidei, don Bianchedi, Alfeo Minarelli, la signora Mirri, madre di Sidney, e Luigi Randi - Luigiò d’Marén)

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... Al bar della casa del fascio, c’erano clienti seduti ai tavolini...

(il secondo da destra: Tonino Camanzi)

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... Io sfilavo in processione nel gruppo dei bambini, davanti al parroco...

   
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L’addio a Gaetano Fichera

 

Dopo qualche mese Gaetano partì per Roma e con lui l’ex suora Giocondiana. Seppi in seguito che i due non continuarono quella loro relazione, forse senza la tonaca suor Giocondiana aveva perso per Gaetano tutto il suo fascino.

Gaetano tornò solo nel ’49, per una breve visita; così potei offrire, a lui e agli amici che lo accompagnavano, un caffé nel mio nuovo bar in Piazza Gramsci. 

... In televisione parlarono del professor Gaetano Fichera indicandolo come uno dei quattro maggiori matematici del mondo...

Fu l’ultima volta che lo vidi. Molti anni dopo, nel periodo in cui gli americani preparavano la spedizione sulla luna, spesso si assisteva in televisione a delle discussioni su argomenti scientifici al riguardo, e una sera parlando di scienziati fecero anche il suo nome: parlarono del professor Gaetano Fichera, indicandolo come uno dei quattro maggiori matematici del mondo.  

Verso la metà degli anni novanta, ascoltando il telegiornale della sera udii la notizia della morte dello scienziato Gaetano Fichera. Ne fui molto addolorato.

  
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... mentre io compivo vent’anni

 

La società di rivendita alcoolici, che avevamo costituito nell’ex negozio da scarpe di Custént, si sciolse perché ad un certo punto i proprietari rivollero il loro locale. 

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... accettammo l’offerta di gestire il bar del Partito d’Azione, che si trovava in piazza   Monti al primo piano della casa di Leo...

Con mia madre e mio fratello Cassiano accettammo l’offerta di gestire il bar del Partito d’Azione, che si trovava in piazza al primo piano della casa di Leo, una delle poche rimaste in piedi. Questo lavoro ci fu offerto dai giovani di quel partito, che erano tutti miei amici, studenti che avevano ripreso gli studi appena finita la guerra. 

 

 

La domenica pomeriggio si organizzavano intrattenimenti danzanti, grazie al giradischi che Libero Tamburini, giovane aderente al Partito d’Azione, aveva salvato insieme a molti dischi di jazz americano. 

La casa di Leo...

I simboli del “Sol dell’Avvenire” indicavano la sede del Partito d’Azione,

che poi passò al Partito Socialista Democratico

Quello fu un periodo magnifico: ad Alfonsine ci sentivamo tutti amici, ci si aiutava a vicenda; la preoccupazione di tutti era quella di trovare lavoro e di mettere di nuovo in piedi il paese, che era stato distrutto per il settantacinque per cento. 

Nel periodo di carnevale di quell’anno (eravamo nel '46) il Partito d’Azione riuscì ad organizzare un grande veglione pubblico, nel palazzo della Casa del Popolo, al primo piano: la sala più grande fu adibita a sala da ballo, e le due di fianco alla scala furono adibite al servizio di bar. 

Avevamo installato in una piccola stanza il giradischi di Libero Tamburini, mentre tutto il palazzo al primo piano era illuminato da un generatore di energia alimentato da un motore a scoppio. 

Riuscimmo a sistemare in breve tempo il tetto del palazzo, che era un po’ dissestato. La sala fu addobbata con festoni di stoffa colorata presi in prestito da un tappezziere di Bagnacavallo, per renderla accogliente e in carattere con le serate del Carnevale. Il mio compito era di fare il disc-jokei, come si dice oggi. Fu un gran successo nel paese, ma la novità di quelle serate consisteva nel ballare con musica riprodotta, anziché con un’orchestra dal vivo. Sono convinto che quella festa sia stata un’anticipazione della discoteca di oggi. Furono tre serate stupende che ricordo ancora con piacere. Per animarle qualcuno doveva rimanere fino al mattino, così facevamo i turni fino alla riapertura della sera dopo, perché il portone d’ingresso era tutto dissestato e fuori dai gangheri, quindi era necessario che qualcuno rimanesse a far da guardia alle rimanenze di pasticceria, liquori e vino. Lucia e Dalma furono le prime turniste, che sarebbero state sostituite da Eugenio Vistoli (l’amministratore) e da me, la mattina successiva.
Al cambio della guardia si fece il punto della situazione e al conteggio delle paste fu riscontrato un ammanco di quaranta pezzi che naturalmente erano stati consumati dalle “signorine”, le quali ci ripagarono con una gran risata.

La mia famiglia ed io rimanemmo nella casa del Partito d’Azione per un breve periodo, fino al famoso Referendum (Repubblica o Monarchia) che, come si sa, avvenne il 2 giugno del ’46. Ad Alfonsine pochissimi voti andarono a favore della monarchia. Appena arrivò la notizia della vittoria della Repubblica ci furono grandi festeggiamenti nella piazza, nelle strade e nelle sezioni dei partiti, tutti inneggiavano alla repubblica vittoriosa sulla monarchia, mentre io compivo vent’anni.

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... inneggiavano alla repubblica vittoriosa sulla monarchia, mentre io compivo vent’anni.

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Fine