(un
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Mostar
(Luciano Lucci)
A
PUNTATE LENTE STO SCRIVENDO QUI LA MIA AUTO-BIOGRAFIA
…
così tanto per passarmi il tempo a “zavagliare”, e poi se mi reincarnerò
un giorno dopo la morte cercherò questa memoria registrata e la immetterò
nel nuovo cervello, anche se dovesse essere quello di una gallina…
(Luciano
Lucci sono io, cioè l'autore di tutto questo sito web)
(la pagina è in costruzione)
PREFAZIONE
Quella
mattina appena sveglio “andò su tutte le Furie”. Questa fu l’unica
frase del romanzo che aveva iniziato a scrivere, poi si bloccò. Ma chi erano
le Furie? E poi cosa significava “andare su”, forse “montarle”, avere
un rapporto sessuale con delle ragazze dette “Furie”? Aprì il computer
portatile e spinse il tasto per accenderlo.
Poi cercò su Internet con Google
la parola “Furie”. Un click sopra ma il sistema si spense e poi si riavviò
da solo: come mai?
Comunque a lui interessava l’etimologia di “andare su
tutte le Furie”, che in realtà erano tre dee della mitologia greca.
E così
scoprì che “Le Furie” rappresentano nella mitologia dell’antica Roma le
forze che esprimono la vendetta, e costituiscono il corrispettivo delle Erinni
dell’antica Grecia. L’attività delle Furie, dunque, consisteva nel
seminare zizzania tra gli esseri umani, facendoli arrabbiare e indirizzandoli
sulla via della cattiveria e della rabbia. Si trattava di donne rappresentate
come brutte e particolarmente vecchie, caratterizzate da uno sguardo torvo e
tremendamente cattivo, con serpenti al posto dei capelli, dotate di ali di
pipistrello e con in mano una torcia che usavano per accendere gli animi degli
uomini che finivano nel loro mirino. Dunque, chi rimane, o rimaneva, accecato
dalla collera, chi si fa, o faceva, prendere dall’ira e chi agisce, o agiva,
in maniera impulsiva, commettendo spesso dei gesti inconsulti dovuti alla
rabbia del momento, va, o andava, su tutte le Furie.”
Lasciò
perdere le Furie… La sua mente in quel periodo aveva iniziato a procedere
come in un flipper, i suoi pensieri si snodavano per associazioni
approssimative.
Era
sempre stato così? Come da sempre era stato, appariva incantato, distratto,
genio, da scherzarci, eppure ora non era più quell’adolescente birichino
che finora era stato, ma ora cominciava a sembrare un vecchio anziano in
marcia verso gli 80 anni, ancora arzillo sì, ma quella mente persa, i vuoti
di memoria, le fissazioni assurde come quando… (“alè amsò smeng”).
In
quel periodo decise così di scrivere la sua autobiografia. Non perché fosse
qualcosa di importante, ma per la memoria che svaniva. Anche i computer
tengono tutto in memoria negli hard-disk e se li spegni o si rompono,
dall’hard-disk puoi recuperare tutto lo stesso, se poi hai trasferito la
memoria sui siti internet ancora meglio.
Ma a questo punto la domanda era:
“che vita hai vissuto?”
“Sicuramente unica e irripetibile, ma ho amato la mia infanzia, ne ho
favorito i giuochi, le gioie, le amabili inclinazioni, facendola perdurare
anche nella vecchiaia.”
CAPITOLO
1
Il
mio contributo contro la guerra: l'anno
"Zero"
Ero nato nella primavera del 1945. Concepito
durante la guerra, ma venuto al mondo quando tutto era finito. Era come l’anno
zero, quelli nati in quel periodo come me non avevano idea del mondo di prima
Hitler, Churchill, Mussolini, Stalin, Roosevelt: tutte figure gigantesche nel
bene e nel male, ma a noi non ricordarono mai nulla.
Nato per caso.
Mia
madre, l'ultima a destra in alto, nel 1944 faceva parte di un gruppo di "giovani" che, negli anni tristi della guerra,
sostituirono i richiamati alle armi nell'Amministrazione Comunale e nell'Ufficio Annonario, l'ufficio che obbligava la gente a stringere la cintura. La guerra, infatti, aveva imposto un limite a tutti e a tutto, anche al cibo. Là, nella sala maggiore dell'antico Municipio,
compilavano le carte annonarie individuali con i buoni per l'acquisto dei generi alimentari concessi in razioni molto scarse.
Mia madre rimase incinta senza essere sposata,
da un rapporto occasionale con un alfonsinese, durante l’occupazione
tedesca.
Tra
il 20 e il 26 gennaio del 1945 a tutti gli abitanti di Corso Garibaldi e
Piazza Monti fu imposto lo sfollamento e tutte le case furono minate con bombe
e distrutte dai tedeschi.
Ai
primi di febbraio il centro storico di Alfonsine e tutto Corso Garibaldi erano
solo macerie.
Mio nonno Antonio e nonna Emma avevano lavorato
una vita (lui da sarto, lei da bracciante e poi da casalinga) per farsi una
casa. Con la guerra i tedeschi gliel’avevano fatta crollare in un minuto.
Mia mamma era incinta di
5 mesi, così che da lì in poi mostrando il pancione veniva ‘risparmiata’
dai tedeschi, mentre le altre ragazze dovevano spesso nascondersi per evitare
guai.
(... questo fu il mio contributo contro la guerra).
Il 10 aprile c’era stata la liberazione e la
guerra era finita, dopo sei mesi passati sulla linea del fronte. Credo durante
la gravidanza di aver
sentito il rumore secco delle bombe e delle granate, perché ogni volta che
sento un botto mi viene a mancare la forza nelle gambe e rischio di cadere per
terra.
Poi
il 25 maggio io
nacqui... e Alfonsine risorse!
CAPITOLO 2
Perché mi
chiamo Luciano?
Mio zio Vincenzo
Mio zio Vincenzo era stato richiamato in guerra
nel 40, ma poi si era ammalato. Tornato a casa, si rimetteva un po’ ma così
era costretto a ritornare.
Allora si sposò ed arrivò un figlio, ma non servì a fargli ottenere il
congedo definitivo.
Continuò questo viatico verso la morte tre o quattro volte finché non gli fu
riconosciuta la tubercolosi. Nel frattempo nel 1944 aveva perso il figlio per
difterite.
Il primo figlio Lucio morto di
difterite nel 1944
Lucio
Lucci morto di tubercolosi
(1945-1947)
Finita la guerra zio Vincenzo ebbe un secondo
figlio che chiamò Lucio.
Il 25 maggio 1945 nacqui io, e ebbi pure io il
nome di Lucio, come il primo e il secondo figlio di zio Vincenzo.
Appena nacqui la
nostra famiglia fu ospitata da Mingacì, padre di Carlo Ferreri, una
famiglia generosa che aveva una grande bella casa in via Roma: era stata la
casa degli Alessandri (ad Augusta, la spaziera era dedicata l’insegna a
doppia “A” del cancello, che ancora oggi si può notare).
Vincenzo
trascorreva in “Sanatorio” a Brisighella
lunghi periodi per cercare di guarire dalla tubercolosi. In uno dei suoi
periodi di convalescenza a casa terminò la sua ultima fatica, cioè di
costruire un casotto con i mattoni della vecchia casa distrutta.
Andammo tutti
ad abitare in quelle due uniche stanze. Ma la tubercolosi si trasmise al
figlio e morirono entrambi nel giro di due anni.
Di zio Vincenzo ricordo che mi fece una “volandra”,
una specie di aquilone. Avevo due anni e mi dicono che durante il suo funerale
me la passai sull’auto delle pompe funebri, pieno di felicità perché mi
avevano messo il volante tra le mani. Molti anni dopo trovai per caso su un
mattone a vista del casotto, ormai adibito a cantina, la sua firma “Vincenzo
Lucci”. Forse è ancora lì sotto l’intonaco, nonostante le varie
ristrutturazioni.
Ebbi anch’io un contatto col batterio e
rischiai di morire, per fortuna che in quegli anni erano arrivate, con i soldati
americani, varie forme di penicillina. Per scaramanzia mi cambiarono nome…
da Lucio a Luciano. Augusto Errani era il nostro dottore e la Cumina un’ex
infermiera vedova, sempre vestita di nero da far paura, era “la donna
delle punture”.
Mi hanno fatto una iniezione di penicillina e
una di calcio ogni tre ore per non so quanti giorni, così sono sopravvissuto.
Mia
mamma ed io abitammo
con i nonni materni, Emma e Antonio in quel casetto costruito con le macerie della casa distrutta dai
tedeschi, sul terreno di corso Garibaldi, dallo zio Vincenzo Lucci, un anno prima di
morire nell'immediato dopoguerra. Due stanze: una per il lavoro di
mio nonno che faceva il sarto, con due o tre lavoranti, e poi per il mangiare;
l'altra stanza era per il dormire: quattro letti.
Nella
foto sotto avevo un anno, con mia mamma che era una ragazza madre e con la
casa completamente distrutta dalla guerra.
Entrambi
accettammo la sfida col sorriso sulle labbra (io un po’ meno!): una nuova
era, il dopoguerra. Stavamo imparando che la vera vita sta nella nostra
capacità di affrontare l’ignoto e sfidarlo, sta nella nostra capacità di
adattarci al mutamento e usarlo per evolvere, sta nell’accettare la paura e
utilizzarla come strumento, senza però permetterle di bloccarci.
Linda ed
io davanti al
casetto. (Anno '46)
Passai
i primi anni della mia vita in compagnia delle lavoranti di mio nonno. Mi
insegnarono già a quattro anni a leggere il giornale quotidiano "La Voce
Repubblicana" (mio nonno era
sempre stato un fervente repubblicano anche
durante il fascismo).
1946, cortile
della casa di Corso Garibaldi.
da sinistra Maria Faccani d'Piccio
(lavorante presso il sarto nonno
Antonio Lucci)
Linda, Celso apprendista sarto e Maria Carioli (d'Renato dla Bubra).
Al
centro io con un'oca che mi faceva da compagna
(un
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Ascoltavo anche la radio che avevano lì vicino: ricordo
le canzoni dell'epoca, sopratutte quella di Natalino Otto "Oh mamma
voglio anch'io la fidanzata.
CAPITOLO
3
Gli
anni '50
(un
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D'estate mamma Linda iniziò a lavorare per lo zuccherificio di Mezzano, e qualche anno
dopo, alla sera, fu cassiera e bigliettaia per il Cinema Corso in Corso
Garibaldi (con Sandrina Natali) che Marino Marini aprì nell'ex-cantinone
di Luigiò Randi detto d'Maré, e che aveva dato in gestione a una
cooperativa di operai della sua officina. Federica Contessi (moglie di
Marino Marini) e Marino stesso erano sempre stati amici fin dalla
gioventù, e perciò mia mamma ebbe quel posto sicuro.
Gruppo
ragazze allo zuccherificio di Mezzano. La prima da sinistra è Anna Berardi (detta Anna bella).
Linda è l'ultima della prima fila.
Con
i danni di guerra i nonni Antonio e Emma avviarono la costruzione della nuova casa nello stesso
luogo della precedente. Intanto in quegli anni erano venuti ad abitare ad
Alfonsine anche mia zia Vincenzina (sorella di Linda) e i suoi due figli:
Liliana Cortese e Franco Cortese. Il loro padre Lucillo Cortese esercitava
il mestiere di esattore delle tasse a Portomaggiore, dopo essere stato
trasferito dalla Venezia Giulia, e abitò lì in affitto. Tornava ad
Alfonsine solo a fine settimana. Erano profughi giuliani. Ricordo che io
dormivo col cugino Franco, nello stesso letto. Nel 1950 ci trasferimmo
tutti dal casetto alla casa nuova.
Nella
foto sotto davanti a casa con i vicini Rosanna e Roberta Liverani e
la Stamura Minarelli, sposata poi a Zannoni.
Linda
sul balcone della nuova casa
Ogni sera
mia madre Linda continuò a fare la cassiera bigliettaia del cinema Corso,
a 100 passi da casa. Quasi tutte le sere mi portava con sé (avevo appena 5 anni, e da allora fino ai 18
anni vidi tutti film proiettati al Cinema Corso, gratis).
Come ragazza-madre
Linda ebbe il diritto per il figlio di una vacanza a gratis in una
pensione a Sestola. Il ricordo è legato solo a queste tre foto:
tante ragazze, un castello in cima a una montagna, un piccolo carro armato
nelle mie mani.
Gruppo
di ragazze-madri a Sestola: in alto la terza da sinistra mia mamma Linda,
mentre io sono in basso il terzo da sinistra.
Linda gestì
l'attività di lavatura a secco in un locale in corso Matteotti
nell'edificio di proprietà di Lena Gulminelli. Poi
fece la modista con la Sandrina Natali, moglie di Walter Bonci, nel
negozio che Sandrina aveva sotto i portici in via Matteotti, dopo le
scuole, dove oggi c'è il negozio di pane e dolciumi, svolgendo anche, in casa propria, l'attività di
plissettatrice a mano,
cioè faceva le pieghe alle
sottane, e nel casetto dietro casa aveva il forno per cuocere le
sottane. I nonni continuarono a svolgevano in proprio l'attività di sarti.
In estate si andava la
mare
Al
mare nel 1950 con Linda, i cugini Franco e Liliana, e la zia Vincenzina.
Io da sinistra tagliato a metà...
CAPITOLO
4
Luciano
e Linda al mare
Al
mare agosto 1952
La
prima bicicletta per Luciano
Con
Liliana, Luciano al mare
(un
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