Antonio
Verlicchi
detto
'Papaloni'
Uno
dei personaggi emblematici di Alfonsine.
di
Piero Verlicchi
Antonio
Verlicchi (Papaloni) nacque ad Alfonsine il 14 novembre del 1902, in una
famiglia poverissima.
A 13
anni, come capitava frequentemente a quel tempo nelle famiglie indigenti e
con numerosi componenti, fu mandato a fare "e garzò" presso la
famiglia contadina dei Pezzi, "i Caplò", di Taglio Corelli.
Trascorse
i successivi cinque anni lavorando duramente, patendo la fame (come tanti
all'epoca) ed imparando tutto quello che c'era da imparare nel lavoro di
campagna.
A 18
anni fu chiamato per la leva militare ed inserito, per la sua prestanza
fisica, nel corpo dei bersaglieri.
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Corpo
dei Bersaglieri: 69° Legione Fossalta di Bologna.
Papaloni è il 5° a partire da destra, prima fila a sedere,
escludendo i due seduti a terra.
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Qui Papaloni è quello seduto al centro
All'epoca
(anno 1920) ai bersaglieri veniva data in dotazione la bicicletta
(naturalmente con le gomme piene, per evitare le forature) e Papaloni,
con questo mezzo primeggiava nei confronti dei compagni di leva, al
punto da venir notato dal suo comandante, che lo inserì nella squadra
ciclistica dell'esercito "Velo Sport Reno - 69° Legione Fossalta
di Bologna".
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Il
ciclista dilettante Antonio Verlicchi del "Velo Sport
Reno"
Legione "Fossalta" di Bologna |
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Con
la maglia di Samaritani.
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Il
ciclista dilettante
Antonio Verlicchi
della U.S. Alfonsinese,
vincitore della "Coppa Lamone-Senio" a Faenza.
Anno 1923. |
Terminato il servizio militare, intraprese, con successo, la
"carriera" di ciclista dilettante, gareggiando inizialmente
come unico componente di una squadra alfonsinese, appositamente fatta
nascere da Samaritani Cremonino (padre del futuro Senatore della
Repubblica Agide).
Successivamente
fu creata la Unione Ciclistica Alfonsinese gareggiando per la quale
vinse la 'Coppa Lamone Senio' con arrivo a Faenza. In virtù
degli eccellenti risultati ottenuti fu ingaggiato da una delle
migliori squadre dilettantistiche italiane "IL PEDALE
CARPIGIANO".
Ma
il fascismo, che stava prendendo il potere, non aiutò di certo la
carriera di Papaloni, anche in considerazione del fatto che, nel 1921,
egli aveva, insieme ad altri giovanissimi (fra i quali anche Arturo
Montanari "Arturo d'la Canapira") partecipato alla
fondazione del Partito Comunista di Alfonsine.
I
fascisti facevano di tutto per intralciare gli atleti e le società
sportive che non aderivano al fascismo come era, appunto, il PEDALE
CARPIGIANO (infatti qualche anno dopo, nel 1927, verrà chiuso dal
regime).
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La
squadra del "Pedale Carpigiano":
Verlicchi al centro in prima fila |
Presidente
di questa società sportiva era una persona veramente speciale, vicina
al popolo ed ai bisogni della gente: quel Don Zeno, che creò nel 1931
"L'opera dei Piccoli Apostoli", dedita alll'accoglienza dei
tanti orfani provocati dalla guerra del 1915-18. Per capire, come si
collocava questa istituzione, basti pensare che molti dei bambini,
accolti da Don Zeno, diventati adulti, parteciparono alla Resistenza e
sette di loro persero la vita. Nel 1947 tale gruppo formò la
comunità di Nomadelfia.
L'avversione
del fascismo e anche una caduta, che provocò la frattura di una
spalla, costrinsero Papaloni a ritirarsi dalle corse. Ricominciò a
lavorare duramente, come bracciante ed autista di autocarri.
Si
sposò con la "Maria d'Pitrò" ed ebbero una bambina. La
chiamarono Verdanna; ma dopo qualche mese si ammalò e non fu
possibile salvarla. Dopo qualche anno nacque Franca, una splendida
bambina che ebbe un destino tragico. All'età di 3 anni venne travolta
da un carro trainato da un cavallo e, dopo tre giorni di agonia,
morì.
Qualche
anno dopo nacque un altro bambino, al quale venne dato il nome Franco.
La situazione economica era molto difficile (anche perché il
fascismo, oramai imperante, continuava a creargli problemi per trovare
lavoro), quindi, nel 1936 decise di andare a lavorare come operaio in
Africa. L'Italia aveva appena conquistato l'Etiopia e c'era bisogno
di manodopera per costruire strade ed infrastrutture. |
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Affondamento
della nave "Cesare Battisti"
(1936)
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Papaloni,
operaio in Etiopia, è il 2° da sinistra, con la fasciatura alla
gamba |
Si
imbarcò a Napoli, sul piroscafo ‘CESARE BATTISTI’, che arrivò a
Massaua, in Somalia, il 23 dicembre 1936. Appena cominciate le
operazioni di sbarco, si verificò una esplosione, nel locale
caldaie, con conseguente incendio. Per la falla apertasi nello scafo,
la nave si adagiò sul fondo del porto. Nell'incidente morirono in
tanti e la notizia arrivò subito in Italia, facendo molta
impressione e tenendo in apprensione le famiglie delle centinaia di
uomini che erano a bordo. Fortunatamente Papaloni si salvò e, così
poté raggiungere l'Etiopia, dove cominciò a lavorare alla
costruzione di strade. Purtroppo però si ammalò di ameba,
un'infezione tropicale intestinale, che gli provocò un'ulcera che
lo avrebbe tormentato per il resto della vita.
Tornato
a casa nel 1937, lavorò come camionista da Calletti, che fabbricava
piastrelle con cemento e graniglia.
Allo
scoppio della guerra, la sua classe (1902), fortunatamente, non fu
richiamata alle armi e Papaloni poté aiutare la sua famiglia (moglie
e figlio piccolo) a sopravvivere durante quel periodo difficile e
pericoloso.
Come
molti alfonsinesi, fu poi costretto, negli ultimi mesi del fronte
(situato proprio sul fiume Senio) a lasciare il paese ed i pochi beni
(mai più ritrovati) e a rifugiarsi ad Anita.
Alfonsine
era stata quasi completamente distrutta dai tedeschi, che avevano
minato e fatto saltare gran parte degli edifici e delle case, per
evitare che potessero far da riparo ai soldati inglesi ed a quelli
italiani della "Brigata Motorizzata Cremona", che fu quella,
che il 10 aprile 1945, sfondò il fronte a Rossetta e liberò
Alfonsine.
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Papaloni,
(al centro con la camicia bianca)
nella Cooperativa Braccianti
di Alfonsine
Dopo
la Liberazione, nel paese non c'era più niente: né case, né animali
da lavoro, né alimenti, né sementi. Il Comitato di Liberazione
organizzò delle squadre di fiocinini e pescatori per sfamare i
cittadini, con le anguille delle vicine Valli di Comacchio, e per
comprare, con i soldi ricavati dalla vendita del pesce, le cose più
urgenti e necessarie.
Papaloni
fece parte di una di queste squadre e insieme ad altri improvvisati fiocinini percorreva lunghe
distanze in bici fino alle valli di Comacchio; come al solito, si distinse per
la sua laboriosità e generosità.
Nel
1947 nacque un altro figlio, Piero, e quindi un'altra bocca sfamare.
Ma nonostante avesse l'opportunità di mettersi in proprio come
camionista (aveva una patente adatta ottenuta durante il servizio
militare), preferì, seguendo i propri ideali, contribuire alla
rinascita della Cooperativa Braccianti di Alfonsine, diventandone uno
dei più bravi capi-azienda.
Tornato al lavoro dei campi, come tutti raggiungeva il posto di lavoro in sella ad una bicicletta;
riuscì a trasmettere ad uno dei suoi figli quella vera e propria “malattia”, che qualcuno scherzosamente ha identificato così:
“l’a e’ bigat d’la bicicletta in t’la testa”.
Quando
era già in pensione fu colpito da ictus dal quale, con fatica,
riuscì a risollevarsi, ma poi un tumore (proprio nell'ulcera
procuratasi in Africa) mise fine alla sua vita all'età di 71 anni.
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Papaloni
a 60 anni
'Papaloni',
perché...
(dalla
testimonianza del figlio Piero Verlicchi, pure lui detto 'Papaloni')
L'origine del soprannome "Papaloni" è legata a un episodio capitatogli durante il servizio militare.
Mentre il capitano, che poi lo avviò
alla squadra sportiva, lo aveva preso a benvolere, il sergente (che si
chiamava di cognome Papaloni) lo aveva nel mirino, perché
aveva saputo che era di idee socialiste e rivoluzionarie.
Una notte, il sergente, che lo
aveva messo appositamente di guardia, dopo una giornata faticosissima di
30 km. di marcia con zaino e bicicletta in spalla, trovandolo
appisolato a causa della grande stanchezza, tentò di sottrargli il fucile.
(Da considerare, che a quel tempo, farsi
sottrarre l'arma durante il turno di guardia, portava dritti alla
Corte Marziale, che avrebbe sicuramente sentenziato il carcere militare ).
Svegliandosi, intravide, nel
buio e riconobbe il sergente che si allontanava con il fucile, realizzò
immediatamente il pericolo che correva, ed allora ingaggiò una lotta
violenta, che gli permise di tornare in possesso del fucile.
A quel punto il sergente, ferito e
malconcio, gli promise che lo avrebbe fatto rinchiudere nella Fortezza
Militare di Gaeta.
Antonio
Verlicchi si salvò perché sostenne di non
essersi mai lasciato togliere il fucile dalle proprie mani e di
non aver riconosciuto chi aveva tentato di sottrargli l'arma, ritenendo
quindi legittima la sua reazione contro chi aveva ritenuto essere una persona
sconosciuta.
A dargli una mano fu il capitano, che
riuscì, ad evitargli ogni sanzione.
Quando,
tornato dal servizio
militare, raccontò agli amici questo episodio, fu soprannominato "Papaloni", soprannome che gli è rimasto per tutta la vita.
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