Jimi Hendrix (27 novembre 1942 – 18 settembre 1970) |
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'Il blues è facile da suonare, ma difficile da sentire' Jimi Hendrix |
a cura di Loris Pattuelli
I suoni del deserto (Mike Bloomfield) Dovevamo
suonare in un concerto allo Shrine di Los Angeles. Lui e io eravamo tra le
quinte con le nostre chitarre; io suonavo e suonavo. Sento dei suoni
allucinanti. Era Hendrix che giocherellava con l’interruttore del toggle.
Lo staccava dalla chitarra, battendo leggermente sul collo, e otteneva il
vibrato con la mano, muoveva il toggle, batteva sul collo e usava il
vibrato e il suono era quello dello scirocco che viene dal deserto. E io
son qui che suono, piegato in due, suono tutte queste note La prima volta lo sentii suonare come Jimmy James e i Blue Flames. Suonavo con Paul Butterfield ed ero il miglior chitarrista del gruppo, o almeno pensavo di esserlo. Non avevo mai sentito parlare di Hendrix. Qualcuno mi disse: “Vai a sentire il chitarrista che suona con John Hammond. Io ero al Café Au Go Go e lui al Nite Owl o al Café Wha?, attraversai la strada e andai a vederlo. Hendrix sapeva chi ero, e quel giorno, davanti ai miei occhi, vidi volare missili infuocati, non so dirti quali e quanti suoni riuscì a estrarre da quello strumento. In quel piccolo locale, con una Stratocaster, un amplificatore Fender Twin Reverb e un fuzztone Maestro, otteneva ogni suono che potessi immaginare. Perlopiù lavorava ad alto volume. Vorrei sapere come riusciva a fare tutto ciò. Mi riversò addosso tutti quei suoni e pensai che per almeno un anno non avrei più avuto voglia di toccare la chitarra. (…) Non avevo mai udito nulla di simile. Non capivo neppure quali basi musicali avesse, perché non suonava musica sua. Faceva cose tipo Like A Rolling Stone ma le suonava in modo inconsueto. Non era solo un cantante e neppure solo un musicista. Quel giorno Jimi Hendrix mi offrì qualcosa che definirei “suoni” anziché “melodie”. Ma dopo averlo ascoltato due o tre volte mi accorsi che la melodia pura e il lirismo lo interessavano quanto i suoni. Infatti, era riuscito a fonderli in una miscela perfetta. (…) Quando suona, sento veramente Curtis Mayfield, Wes Montgomery, Albert King, B.B. King e Muddy Waters. Jimi è il chitarrista più nero che abbia mai ascoltato. La sua musica ha radici profonde nel pre-blues, nelle più vecchie forme musicali come i fieldholler e le melodie gospel. Ne ho dedotto che non c’è musica nera che egli non abbia ascoltato o studiato. (…) L’approccio musicale di Jimi, così mi ha spiegato, è tracciare lo schema di una canzone e decidere come dovranno suonare i vari strumenti, fiati, strumenti a corde e così via, e quale sarà il risultato finale. Accenna il ritmo della batteria con un pedale wah-wah, il basso con le corde basse della chitarra e lo scheletro della melodia solo con il pedale wah-wah. Poi riempie la traccia con accordi e sincopi.
Non è cambiare: è passare attraverso dei mutamenti. L’evoluzione funziona così. A piccoli colpi. E’ il motivo per cui il numero sette viene dopo il numero sei. Hai sei morbidi urti, poi all’improvviso un piccolo colpo. Purple Haze Jimi Hendrix
Il feedback melodico (John Perry, Electric Ladyland – No Reply – Euro 12) A
un livello elementare, il feedback non è altro che lo stridio di un
microfono tenuto troppo vicino a un altoparlante o l’urlo involontario
che affligge le chitarre semiacustiche suonate a volume alto. Ma l’uso
deliberato del feedback melodico è un’altra cosa. E’ l’impiego di
un effetto elettronico accidentale per scopi musicali.
Quando si suona al volume dell’Experience, tutta la scena diventa sensibile al feedback, e il musicista esperto sa che ogni movimento sul palco – anche il più semplice guardare in certe direzioni – cambierà la qualità e la stessa tonalità del suono. Si pensi alle illustrazioni che utilizzano il colore per evidenziare le variazioni nei campi magnetici. Quando si è in grado di controllare il feedback come Hendrix, si può letteralmente “suonare il palco”: ogni movimento determina il suono che verrà prodotto. Come ha scritto Tom Nordilie su Spin, “il linguaggio del corpo di Jimi era impossibile da separare dalla sua tecnica”.
Vorrei che fosse ancora vivo (Bob Dylan) Da autore di canzoni, è sempre una cosa imbarazzante sapere che ad altri musicisti piacciono i tuoi pezzi, sopratutto se li rispetti per davvero. Pubblico e critica ti rimandano stimoli importanti, ma non c’è niente come un altro musicista che rifà quello che stai facendo tu per farti capire se quello che stai facendo è valido oppure no… Forse vale sempre la pena ed è un problema. Nonostante tutti gli anni che ho passato su un palco per me è ancora molto importante cosa pensano gli altri musicisti del mio lavoro. Jimi era un grande artista. Vorrei che fosse ancora vivo, ma c’è finito dentro ed è stato il crollo di tanti di noi. Credo che abbia pagato un prezzo troppo alto. Non mi stupisce tanto che abbia registrato le mie canzoni quanto che ne abbia registrate così poche, perché sembravano tutte fatte per lui.
Tutto in uno sguardo (Gino Castaldo, Il buio, il fuoco, il desiderio, Einaudi Stile Libero, Euro 11,50) Il punto cruciale di questa storia è in uno sguardo. Quello di Jimi Hendrix mentre suona Star Spangled Banner in quella livida, disastrata alba da Il fatto decisivo avviene circa sessanta secondi dopo l’inizio del pezzo. Per un breve velocissimo istante Hendrix guarda nell’obiettivo e tutto sembra fermarsi. Perfino la musica, perfino quella sensazionale mescolanza di inno americani e di suoni che mimano un bombardamento in Vietnam sembra poca cosa di fronte a quello sguardo. Mettete il fermo immagine e godetevi l’improvviso silenzio. Hendrix è lì, ma è anche altrove. E’ uno sguardo serio, calmo, definitivo, di lucida consapevolezza. In quel momento Hendrix vede tutto quello che c’è da vedere, vede se stesso morire, vede le guerre che ci sarebbero state, vede la fine della musica, la fine del tempo, e vede noi che lo stiamo guardando, ora.
Per saperne di più: Enzo
Gentile, Jimi Santo
Subito!, Shake Edizioni, Euro 15 |
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