Alfonsine

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IL MONUMENTO DI PIAZZA GRAMSCI

 

di  Loris Pattuelli

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Voi siete qui, dice il cartello turistico che sovrasta il mondo. Bene, noi adesso siamo in Piazza Gramsci ad Alfonsine, proprio davanti al municipio. 

Siamo in piazza o, per meglio dire, al centro del centro del centro del paese.

La piazza (in dialetto, “piaza” con una sola zeta) è un posto dove non succede mai niente, proprio come in paradiso. Esattamente quello che ci vuole per la gioia di noi umani. 

Al di là di tutte le strade, di tutti i quartieri e di tutte le frazioni che compongono questo paese, noi adesso siamo comunque in piazza (“piaza”), e da lì, ci puoi scommettere, non ci sposteremo per nessuna ragione al mondo.

Qui ci sono i bar, le banche, la farmacia, la chiesa, i negozi, il notaio e i geometri. Una volta, ma questa sembra una di quelle favole che si raccontano ai bambini, c’erano anche il cinematografo, la casa del popolo e la balera, per non parlare del tassista, del barbiere, del fiorista e della callista.

La piazza è l’unico pezzo di mondo, se si esclude casa nostra, dove è possibile sentirsi sempre tondi come un uovo e sempre quadrati come un portamonete.

In Piazza Gramsci c’è il monumento alla Resistenza, sicuramente la nostra creatura più sacra e più carica di presente, di passato e di futuro.

Sulla qualità di questo lavoro artistico, ovviamente niente da eccepire. C’è chi lo trova bello, c’è chi lo trova brutto, e c’è chi lo trova un monumento e basta. A me pare invece molto scomodo e ingombrante, direi quasi, esagerando, una via di mezzo tra una rotatoria e un TIR messo di traverso.

Se avessi la possibilità di rimescolare tutto secondo i miei capricci, credo che di quest’opera d’arte conserverei soltanto i tre frammenti riprodotti nelle foto qui sotto, e tutto il resto della piazza la riempirei di panchine, di pini e di altre meraviglie capaci di dialogare con l’acqua, il fuoco, la terra e l’aria.

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L’omaggio alla Resistenza non deve essere necessariamente un qualche cosa di voluminoso o di abbagliante; al mondo esiste anche la discrezione, per non parlare della leggerezza e della sottigliezza. Dice Callimaco: “L’esile spiga è, per Demetra, molto più pesante della grossa quercia”.

Sperando di non offendere la sensibilità di nessuno, cercherò adesso di spiegarmi meglio. Quello che vedete nelle foto qui sopra è, se non l’ombelico del mondo, certamente il capolinea delle mille anime alfonsinesi.

Tutto merito delle intemperie, del tempo e di tutti quei bambini che non hanno mai smesso di girargli intorno e di calpestarlo.

Ma è soltanto un trittico grande come un giornale, una cosa così minuscola che rischia di perdersi nell’immensità della piazza.

Credo di poterlo ammettere, è vero. Proprio così. L’importante è l’armonia con il cosmo e con la vita di tutti i giorni. E poi questi tre frammenti ci hanno messo una mezza dozzina di lustri per diventare parte del paese, più o meno lo stesso tempo che ci abbiamo messo noi per riconoscerli e capirne i bisogni.

Visto che ci sono, adesso confesso anche di non averli mai degnati di troppa attenzione. Erano lì da sempre e lì sarebbero sempre rimasti, proprio come il municipio, le scuole e il mercato coperto.

Dovendo azzardare un consiglio, suggerirei poi di guardarli in un modo non molto diverso da come si guarderebbe un album di famiglia o, che ne so, una bancarella del mercatino delle pulci. Sembra incredibile, ma in mezzo a questi frammenti potremmo trovarci il paese delle meraviglie, la terra desolata dei nostri bisnonni e dei nostri pronipoti, e forse anche, ma non è detto, la copia carbone di quel monumento che sta nella piazza del paese in cui ci troviamo a vivere.

Spero di essere stato abbastanza chiaro, anche se ci credo poco. Per un eventuale scambio di convenevoli, lui è comunque ancora qui al centro della piazza, sempre più gonfio d’umidità, di crepe, di smog e di ghirigori vagamente fangosi.

Come si dice in questi casi, i materiali devono subire la disgregazione dovuta al clima e all’inquinamento.
E’ il suo bello, e di sicuro anche la nostra più grande fortuna. ”Siamo di passaggio”, cantava Leonard Cohen.

 

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