Fu
uno dei primi e principali eccidi di partigiani nella Bassa Romagna,
ad opera di Brigate Nere e tedeschi
‘Zanchetta’
e 'Palazzone'
"Il 23 aprile 1944 è
la data l’eccidio della ‘Zanchetta’ (2 partigiani e un prigioniero
slavo disertore) e del Palazzone (8 partigiani)
"
a
cura di Luciano Lucci
Accadde all'alba
del 23 aprile 1944 intorno ad alcune case coloniche, usate all'epoca come
basi partigiane, nella campagna tra Fusignano e Alfonsine. La zona era nota
come fondo 'San Tommaso', o podere “Palazzone”, e “Podere Zanchetta”.
Le case coinvolte
furono
quella dove abitava la famiglia Lanconelli, poi la casa dove abitavano i
Baratoni, il capofamiglia con la compagna Ave Fini e il figlio di due anni
Alfredo, e infine “Casa
Zalambani", allora detta anche 'Il Palazzone'
Quell'ambiente
coltivato “a larga” compreso tra il Canale di Fusignano e lo Scolo
Arginello appariva infatti un luogo sicuro ove far riparare i primi nuclei
di partigiani che di notte attentavano alle colonne di automezzi tedeschi in
transito sulla Statale 16 Adriatica.
Nonostante le
difficoltà iniziali, nella primavera del 1944 le azioni partigiane aumentarono
considerevolmente. Grande successo venne riscosso dalle giornate Gap, ideate
dai partigiani anche «per collaudare la volontà popolare: in
quel giorno tutti coloro che erano legati all’organizzazione […]
dovevano passare all’azione».
Nell’aprile del 1944 si registrò un
inasprimento dello scontro da parte di tutti i contendenti. Le disposizioni
partigiane parlavano di «sterminio» dei fascisti, ma già a fine mese si
comprese la necessità di regolamentare gli attacchi a questi ultimi perché
«ognuno che uccida si senta un giustiziere e non un assassino».
Secondo tale prospettiva, i fascisti di grado minore, prima di essere
assaliti, dovevano essere “giudicati” dal comitato provinciale di
Liberazione o dai tribunali partigiani per atti quali lo spionaggio,
l’accaparramento e per le violenze e i crimini commessi contro
antifascisti e civili.
Durante alcune
iniziative precedenti organizzate in quelle prime “giornate Gap” -
momenti simultanei di sabotaggio promossi in ambito provinciale per
intimidire gli occupanti tedeschi – i gappisti finirono per essere notati
dai fascisti locali, che individuarono in quella zona tra Alfonsine e
Fusignano le case di latitanza usate dai partigiani.
Una
persona dall’interno della Questura di Ravenna
fece sapere, il
sabato 22, che la mattina dopo ci sarebbe stato un
rastrellamento da parte dei fascisti nella zona tra Fusignano e
Alfonsine. Così i partigiani decisero, dopo una riunione
segreta tenuta presso una famiglia di via Nuova, di trasferirsi
in case più sicure, senza dire quali.
Revel
(il responsabile di zona del CLN)
mandò quindi la segnalazione
che l’indomani ci sarebbe stato un rastrellamento nella
“Zona de’ Palazôñ”.
I
partigiani Antonio Montanari, Aurelio Tarroni, Alfredo Ballotta,
per maggior precauzione, avevano prelevato dei disertori russi
(nove), già scappati dai tedeschi, e prima nascosti a "Casa
Lanconelli", li avevano trasferiti in località Passetto,
oltre la strada Reale, e sistemati in un rifugio.
Poi,
gli stessi, erano tornati indietro, avevano riposto le armi in
un posto sicuro ed erano andati a dormire nella stalla di "Casa
Lanconelli", che consideravano fuori dalla zona
pericolosa, dove si trovava anche un prigioniero slavo Repar
Janez, di cui non sapevano, e altra gente sfollata.
Oggi lì è rimasto il cippo ai caduti
un click o un tocco sulle foto per
averne un ingrandimento
Casa
Lanconelli
La mappa del
percorso dal podere Palazzone al podere Zanchetta
un click o un tocco sulla foto per
averne un ingrandimento
Il
capo della provincia di Ravenna, il dottor Franco Bogazzi,
dispose un’operazione di polizia nella zona compresa tra i
comuni di Fusignano e Alfonsine. Ordinò che carabinieri,
guardie repubblicane, alpini e soldati tedeschi, ai comandi del
tenente colonnello Ansalone Ferdinando, comandante il
gruppo dei carabinieri, e di un ufficiale tedesco, si recassero
ad eseguire un rastrellamento in quella zona poiché vi era
stata segnalata la presenza di partigiani, renitenti di leva e
disertori.
La
delazione aveva anche delimitato la località: Palazzone e Zanchetta.
Il questore
Neri Arturo inviò anche un nucleo di agenti di pubblica
sicurezza. Dopodiché, insieme al maresciallo Di Russo
Stefano, si recò a Fusignano a bordo di una Fiat 1100.
Non
vi presero parte gli agenti di pubblica sicurezza perché
arrivarono in ritardo. Ad eseguirlo, sotto il comando dell’ufficiale
tedesco dipendente dall’"ArmeeAbteilung von Zangen",
furono dieci militari tedeschi, numerosi militi della GNR e
alpini portati sul posto con autocorriere e autocarri.
Ridolfi
Giulio era l’autista di uno degli autocarri e come gli
altri si recò presso i vari presidi della GNR per caricare
alcuni militi. Questi furono tutti raccolti a Lugo e da qui
avviati a Fusignano per eseguire il rastrellamento.
Calderoni
Giuseppe faceva parte di un gruppo di militi giovani, al
comando di un caporale. Questa squadra non partecipò al
rastrellamento ma si fermò alle prime case del paese mentre l’azione
contro i partigiani fu condotta da tedeschi, militi anziani ed
alpini. I giovani furono fatti avvicinare a rastrellamento
finito.
Ulisse
Ballotta, era a circa 500 metri dalla casa dove era nascosto
un gruppo di partigiani, tra i quali il fratello Alfredo, quando
vide una colonna di macchine che trasportavano militari tedeschi
e fascisti. Si nascose in un fosso.
Era
ormai l'alba
del 23 aprile:
una corriera blu, di quelle da trasporto civili, seguita da due
camion arrivò per la strada d’argine del canale di Fusignano.
La corriera e
il primo camion, con i tedeschi e un cannoncino da campo,
fecero un largo giro, il secondo s’infilò deciso per
una carraia che portava alla Zanchetta, alle vicine case 'Baratoni' e
'Lanconelli', case agricole con stalla che restavano sotto il comune di
Alfonsine, seppur al limite.
Le
brigate nere irruppero nella stalla di casa Lanconelli
Alfredo
Ballotta
scappò ma fu ucciso nella campagna, Tarroni fu ferito a una
spalla, tutti gli altri furono tratti come prigionieri e legati nel
cortile. Tarroni,
arrestato con alcuni documenti compromettenti indosso. Secondo la
testimonianza di Antonio Montanari che era con lui e che si salvò
miracolosamente, venne sottoposto a tortura: gli bruciano i piedi e lo
calarono su e giù nel pozzo con una corda, volevano informazioni sul
movimento partigiano. Passò il tempo ma inutilmente perché Tarroni
non parlava, allora presero tutti gli uomini e partirono per il
Palazzone, dove certamente la corriera e l’altro camion erano già
arrivati.
Montanari
Antonio e i Lanconelli furono tradotti alle carceri di Lugo.
Al 'Palazzone' (casa Zalambani) i partigiani e coloni, assediati e
minacciati dal fuoco appiccato ai fienili, si difesero con le poche
armi leggere per diverse ore.
Casa
"Baratoni",
col pozzo e la grata dove fu torturato
Aurelio Tarroni
La
casa dei Baratoni
(foto Fanti del 1982)
La
casa dove abitava la famiglia Baratoni
(fot. del 2000)
Da
un racconto di Sante Vecchi, e di Clemer Zalambani, figlia di
Ettore pubblicata su "Il
Palazzone" 1995 Grafiche Morandi di Fusignano.
"Non
è ben chiaro quanta resistenza opposero i partigiani anche perché
l'allarme dato dal garzone giunse praticamente assieme ai fascisti
stessi. Due partigiani ' forzarono il cerchio dei fascisti: questi
erano Severino Faccani e Giovanni Ferri che vennero
colpiti dai fascisti e catturati vicino all'Arginello: furono
sommariamente medicati e riportati alla casa. Altri due, Giuseppe
Ballardini e Bruno Fiorentini cercarono di salvarsi andando
in cantina, ma da un simile numero di aggressori (più di cento) non
era possibile difendersi. Cercarono allora scampo dietro le botti. I fascisti che nel frattempo avevano preso possesso della casa.
I due
compagni dovettero uscire da quelle botti ("i butò) perché
semi-soffocati dalle esalazioni dell'acido usato per fare il solfato
di rame. Furono poi visti a causa delle scarpe che spuntavano da sotto le
botti'. Furono quindi catturati e portati all'esterno della
casa.
Giovanni
Faccani, aveva dormito la notte stessa nel fieno della
cascina. Quando fu incendiato, anche lui
bruciò assieme ad esso: in un primo momento, dato che non si riusciva
a trovare il corpo, si era pensato fosse riuscito a salvarsi.
Giulio
Argelli invece aveva dormito nella cascina e cercò di fuggire
buttandosi da essa, ma fu colpito dalla mitragliatrice seduta stante.
Francesco
Martelli fu anch'egli preso e messo in fila assieme agli altri.
Ettore
Zalambani
invece, essendo il padrone della casa, fu portato a
Ravenna per chiarimenti assieme alla moglie e al garzone Mario
Torricelli. In un primo momento anche quest'ultimo era stato
messo in fila con gli altri per essere fucilato, ma riuscì a salvarsi
sostenendo che non c'entrava niente essendo solo il garzone. Fu così
tolto dalla fila e caricato sul camion assieme a Zalambani e a sua
moglie.
I
fascisti che venivano con il camion dalla zona del podere detto "Zanchetta", erano
stati anch'essi protagonisti di una vile azione, in seguito alla quale
avevano fucilato e martoriato Alfredo Ballotta e Aurelio Tarroni.
A Tarroni, prima di morire, vennero anche bruciati i piedi." (ndr - c'è
un'imprecisione nella testimonianza in quanto risulta che il Ballotta
fu colpito a morte subito e che il Tarroni, dopo la tortura ancora vivo, se
pur agonizzante sul camion, fu portato a Ravenna e qui fucilato)
Ettore
Zalambani, il capofamiglia della cascina del Palazzone, mezzadro.
Fu
portato a Ravenna e fucilato.
UN
DOCUMENTO datato 22/4/44 in cui si relaziona dello scontro al
Palazzone iniziato il 22 notte e terminato alle 10 del mattino dopo.
(Istituto
Storico della Resistenza di Ravenna
Fondo 28°
Brigata Garibaldi
busta LXXXI
fasciscolo d foglio 3)
UN
DOCUMENTO DELLA QUESTURA DI RAVENNA
(fonte
http://www.straginazifasciste.it/) Così
la questura di Ravenna ricostruisce le dinamiche del
rastrellamento in una relazione stilata il medesimo giorno:
"Stamane in località Palazzone del comune di Fusignano è stata
eseguita azione di polizia con il concorso di alcuni militari
germanici per catturare gruppi di partigiani e comunisti della brigata
Garibaldi che dopo le azioni di rastrellamento svoltesi nelle
limitrofe province si erano infiltrati in questa. In seguito ad azione
di fuoco tre partigiani sono stati uccisi in conflitto e due feriti e
catturati unitamente ad altri due arresisi incolumi. Questi ultimi
quattro insieme al colono che li aveva favoriti sono
stati passati per le armi sul posto." (ndr. il colono
Zalambani fu portato a Ravenna con Tarroni e lo slavo Repar e lì
presso il cimitero tutti e tre vennero
fucilati).
"Contemporaneamente veniva eseguita un’altra
azione in località Fiumazzo del comune di Alfonsine dove venivano
ucciso in un conflitto un comunista ed altro ferito, non ché [sic]
catturato certo Repar Giovanni (ndr.
Janez)
nato a Stugenez (Lubiana) fuggito da un campo di concentramento della
provincia di Arezzo, senza alcuna perdita da parte delle forze
operanti. Tanto il ferito che lo slavo Reparvenivano passati per le armi"
UN
DOCUMENTO CHE TESTIMONIA DI UNA DELAZIONE
Una
lettera anonima, scritta a mano, è spedita, “in un giorno senza
data”, al «signor segretario del fascio di Alfonsine»:
«Vengo
a vertirlo [sic] che un certo Balotta che sta dietro al corso
Garibaldi vicino al Teatro del corso: quello a la lista dei fascisti
che devono uccidere, e [sic] lui che spicca le bolette [sic] di morte
quel vigliacco tutti i suoi fratelli sono vigliacchi comunisti anche
il padre e la madre brutta razza. Le dirò anche due giovani
comunisti, che sono quelli che vanno lontano ad uccidere i fascisti,
che stanno di casa sul crocivia via Borse e Stropata, dove fa angolo
la via per andare a Lugo, lì ce ne sono due si chiama per sopra nome
Squarzena e quell’altro è suo Cognato [sic];
mi raccomando di
accifarli presto, e fare Caput tutti e tre il Balotta sparatigli
[sic] quando affissa [sic] i manifesti al muro, è quel biondo, che è
sempre i[sic] piazza, il suo mestiere è quello di afissare i
manifesti al muro, le darò più avanti disciarimenti [sic] sopra ad
altri comunisti, povero Dradi
e
povero Vassura, vendicateli fino che
siete in tempo. La saluto tanto. Evviva il fascio Repubblicano».
(ndr.
si riferisce a Dradi Fedele accusato come spia per i fatti del Palazzone ucciso
a mitragliate davanti a casa, estate ‘44) e Vassura Sante fu
ucciso tra via Valeria e Fiumazzo, nell'autunno ’44, mentre
tornava dal suo piccolo podere, (aveva qualche ettaro di
terra al Taglio). Era fascista e si dice coinvolto come spia per i
fatti del Palazzone)
Archivio Ist.St.Resistenza Provincia di Ravenna
PNF
Repubblica Sociale Italiana
Documenti lettera anonima
Un
documento che testimonia della condanna di sante vassura
decretata dal distaccamento gap di alfonsine e di un'esecuzione
attuata da un gruppo gap del settore n° 1
IL
BILANCIO TOTALE DELLA TRAGEDIA
Alla 'Zanchetta':
Uno rimase colpito a morte da una raffica mentre fuggiva tra i campi
1- Alfredo Ballotta di
anni 37, nato il 9/10/1907
In tre
furono fatti prigionieri
(due furono giustiziati)
1-
Aurelio Tarroni, di
anni 36 nato il 10/3/1907, ferito, fatto prigioniero e torturato, poi
portato a Ravenna e qui ucciso con un colpo di pistola alla testa
presso le mura esterne del cimitero, insieme a Janez Repar e Ettore
Zalambani
2- Janez
Repar,
nato a Lubiana, portato
a Ravenna e qui ucciso con un colpo di pistola alla testa presso le
mura esterne del cimitero, insieme a Aurelio Tarroni e Ettore
Zalambani.
3-
Baratoni
era
nella sua casa con la famiglia la compagna Ave Fini e il figlioletto di due
anni Alfredo e
Antonio Montanari,
detto
e' Gag, sposato con Emaldi Santa "La Sintina" , era
con Ballotta e Tarroni, nella casa dei Lanconelli. Portati poi
entrambi a Lugo si salvarono la vita: il Montanari giustificando la sua presenza in quella casa con il fatto che,
lavorando nell'azienda e avendo fatto tardi la sera precedente, aveva
preferito rimanervi a dormire,
mentre Baratoni fu 'risparmiato' su intervento del segretario repubblichino di
Fusignano, che lo conosceva.
Al 'Palazzone'
In due rimasero subito uccisi nell'irruzione a casa Zalambani
1-
Argelli Giulio
di
20 anni, nato il 13/08/1923 a Fusignano, bracciante, risulta
partigiano volontario nella 28ª Brigata Garibaldi dal 15/11/1943 al
01/03/1944.
2-
Giovanni
Faccani, fratello
di Severino Faccani, di anni 30, che aveva dormito la notte stessa dentro il pagliaio,
che fu incendiato dai nazi-fascisti e lì morì.
In tre
furono fatti prigionieri e portati prima a Lugo poi a Ravenna per
chiarimenti
(uno fu giustiziato)
1- Ettore Zalambani fu
giustiziato con un colpo di pistola alla testa presso le mura esterne
del cimitero a Ravenna, insieme a Janez Repar e ad Aurelio Tarroni.
2-
La moglie di Ettore Zalambani, se la cavò con 15
giorni di prigionia
3-
Mario Torricelli, il
garzone che pur essendo stato messo in fila al Palazzone per essere
fucilato con gli altri cinque, riuscì a salvarsi sostenendo che non
c'entrava niente essendo solo il garzone, e così anche trasferito a
Ravenna se la cavò con 15 giorni di prigionia
In
cinque furono messi al muro e fucilati
1 -
Severino Faccani,
di 32 anni, nato il 02/11/1907 a
Fusignano, autista, risulta partigiano volontario nella 28ª Brigata
Garibaldi dal 10/09/1943 al 23/04/1944.
2 - Giovanni Ferri,
di
53 anni, nato il 30/04/1891 a Fusignano, bracciante, risulta
partigiano volontario nella 28ª Brigata Garibaldi dal 02/11/1943 al
23/04/1944.
3 - Giuseppe
Ballardini di
20 anni, 10 maggio 1924 a Fusignano, mugnaio, risulta partigiano
volontario nella 28ª Brigata Garibaldi dal 02/11/1943 al 23/04/1944
4 - Bruno Fiorentini,
di 19 anni, nato
l'11/07/1923 ad Alfonsine, risulta partigiano volontario nella 28ª
Brigata Garibaldi dal 01/10/1943 al 23/04/1944.
5 - Francesco
Martelli,
di 21
anni, nato il 28/08/1922 a Fusignano, operaio, risulta partigiano
volontario nella 28ª Brigata Garibaldi dal 17/11/1943 al 23/04/1944.
Dopo
l'eccidio, che in tutto costò 11 vittime fra i resistenti, le due
fattorie coinvolte furono saccheggiate di ogni bene e date alle fiamme
dai fascisti, insieme alle stalle ed a tutte le vigne del campo, gli
animali della stalla venduti, e la famiglia Zalambani messa in miseria. La
strage impressionò considerevolmente non solo la popolazione ma anche
l’organizzazione partigiana. Bulow non riusciva a spiegarsi come fosse
potuto accadere. Tutti erano infatti stati avvertiti del
rastrellamento.
La
spia
Iniziarono
immediatamente le ricerche per individuare la spia che aveva fatto la
delazione.
Il
7 ottobre 1944:
(cliccare o toccare sull'immagine per averla ingrandita)
«dopo sette mesi di indagini si è venuti ufficialmente a
conoscenza che il Marconi
Francesco det urtlanaz abitante in Palazzone (Fusignano)
è complice del crimine avvenuto il 23/04/44 nel Palazzone a carico di
nostri sette gappisti.
Fondo 28° Brigata Garibaldi busta XXXVIII
fascicolo l Foglio 5
I gappisti di Fusignano si recano
alla casa della nota spia, la conducono sul luogo ove è avvenuto il
crimine. I membri del tribunale del distaccamento Gap S. Babini
hanno processato il Marconi dopo aver interrogato a lungo il
suddetto ed aver strappato a questo informazioni importantissime
tramite il tribunale condanna il Marconi alla pena capitale. La
sentenza di morte è stata immediatamente eseguita".
La persona indicata come
delatoresembra
sia stata una pedina usata, magari a sua
insaputa, in tutto quel contesto, anche se certamente aveva
conoscenza del luogo e della gente che vi abitava. Non c'è la documentazione in base alla
quale sarebbe stato considerato colpevole. Passata la guerra, dopo
diversi anni
i
figli del Marconi hanno tenuto a informare l'Istituto Storico
della Resistenza che il loro padre era un dandy, che
"frequentava" mogli di vari gerarchi fascisti, e che
potrebbe inavvertitamente essersi lasciato sfuggire, senza
rendersene conto, qualche informazione sui partigiani del
Palazzone. L'aspetto più interessante che scaturisce da tutto questo è che
c'è una documentazione scritta di una 'condanna a morte'
fatta da un tribunale partigiano. Solo per il caso di Vassura Sante di
Alfonsine si è trovata un'analoga documentazione. Non per altri analoghi
casi.
(cliccare o toccare sull'immagine per averla ingrandita)
Fondo 28° Brigata Garibaldi busta XXXVIII
fascicolo l Foglio 5
due zone segnate da una tragica vocazione
alla scomparsa.
Foto aerea zona Podere "Il
Palazzone", anni '30-40
1- Qui c'era il vecchio Palazzone, casa di
caccia su tre piani appartenuta ai Marchesi Calcagnini, poi acquisita, con
tutte le terre e le valli contigue dal
parroco di Bizzuno, Don Andrea Filippi (1735), e poi della famiglia Giugni.
Diede il nome a tutto il podere circostante detto così "il podere
Palazzone".
Particolare di una
mappa del 1735 dove si vede disegnato il 'Palazzone', e il nome "Sig.
D: Andrea Filippi
Oggi (2017) esiste solo un piccolo capannone, residuo di un
ex-cascinale.
2 -
Attualmente (2017) Centro Aziendale Cooperativa
"S. Anna", denominato anche lui comunemente "Il Palazzone".
Nella foto anni '30-40 era sede dei proprietari del podere "Pratolungo,
cioè della famiglia Vicchi, poi della Coop Braccianti di Fusignano, poi
venduta da questa ai coniugi Duranti-Longanesi. Fu riacquistata nel 1945
dalla nuova CAB di Fusignano
3 - In
questo punto della mappa c'era Casa Zalambani
(Ettore Zalambani era il
mezzadro che lavorava il podere nel 1944).
Qui avvenne l'eccidio di 7
partigiani.
Nella zona detta 'Zanchetta'
c'erano "Ca'
Baratoni" e
"Ca' Lanconelli"
La casa 'd'Baratò' col pozzo e la grata dove fu torturato
Aurelio Tarroni oggi anno 2022, non c'è più
Casa Baratoni, zona Zanchetta anno 2010
Casa Baratoni anno 2015
Casa
Lanconelli, zona podere 'Zanchetta'
un click o un tocco sulla foto per
averne un ingrandimento
Ma la memoria resiste
Aprile 2017. La signora nella foto è la figlia di Lanconelli,
davanti alla casa Lanconelli. All'epoca dei fatti aveva 2 anni.
Gli
imputati processati
e
le varie condanne, assoluzioni
e amnistie nei vari gradi di giudizio
Andreotti
Walter di Plinio e di
Bolognese Ersilia, nato nel 1924 a Migliarino, (Latitante)
Accusato
di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di
crimini tra cui il rastrellamento a Palazzone, e l'aver
causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone,
ritenuto colpevole di tutti i reati venne condannato a 30
anni di reclusione, e alla confisca di un quarto dei beni.
Secondo la dichiarazione di uno dei partecipanti, il Pirazzoli
Guido, l'Andreotti sparò con soddisfazione alla testa dei
moribondi e degli uccisi, e prese parte agli incendi e alle
rapine (conferme dal teste Cattani Carlo).
Bondoli
Bruno di Secondo e di Benaglia
Giulia, nato a Ravenna nel 1925, detenuto dal 23 maggio del 1945
Accusato
di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di
crimini come il rastrellamento nella Pineta di Cervia (uccisi
due partigiani), a quello di Rocca S, Casciano, dove avrebbe
ucciso un vecchio non identificato, ad uno in Bologna (come da
lui confessato al camerata Foschi Giuseppe), poi il
rastrellamento a Palazzone, e l'aver causato volontariamente la
morte dei partigiani di Palazzone, accusato di aver fatto parte
del plotone di esecuzione, composto da militi fascisti e da
tedeschi e comandati da un ufficiale germanico. ritenuto colpevole solo di
collaborazione, fu condannato a 20 anni, la confisca di
un quarto dei beni dei condannati.
Declaratoria 17.7.46 reato estinto per amnistia
Benedetti
Attilio, capitano
faentino della milizia. di Giuseppe e di Manzini
Giulia, nato a Modena nel 1907
residente a Faenza, (Latitante)
Accusato
di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di
crimini tra cui il rastrellamento a Palazzone, e l'aver
causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone, chiamato
in causa dal Pirazzoli
Guido, il quale testimoniò che dava ordini e disposizioni, ritenuto
colpevole solo di collaborazione fu condannato a 15 anni,
la confisca di un quarto dei beni dei condannati. In data
29.4.47 la Corte di Cassazione annulla senza rinvio per non
avere l’imputato commesso il fatto. Ordina la
scarcerazione se non detenuto per altra causa.
Gatti
Edilio Gatti Edilio, di Mario
e di Costantini Solidea, nato a Brindisi nel 1924, residente a
Ravenna, latitante, deceduto.
Accusato
di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di
crimini tra cui il rastrellamento a Palazzone, e l'aver
causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone,
latitante, la corte ordina sospensione
del processo per gli opportuni accertamenti in ordine al suo
decesso, annunciato dal Pubblico Ministero. Non risulta
nell'album dei caduti della Repubblica Sociale, quindi non
sarebbe stato ucciso.
Nanni
Guido di Domenico
e di Paci Santa, nato a Ravenna nel 1925, detenuto dal 22 giugno
1945
Accusato
di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di
crimini tra cui il rastrellamento a Palazzone, e l'aver
causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone,
negò la presenza all'evento. A suo favore parlò Stefania Nanni
(consanguinea), che costruì l'alibi di Guido, incolpando della
partecipazione al rastrellamento il fratello Gaetano,
successivamente ucciso. Guido Nanni risulterà estraneo ai
fatti, e assolto per non aver commesso il fatto
Nanni
Gaetano (ucciso)
è
citato nella sentenza del 14/05/1946, dove fu accusato dalla
Stefania Nanni che scagionando suo fratello Guido Nanni,
incolpava lui della presenza al Palazzone.
Era comunque già stato ucciso (da chi?)
Pirazzoli
Guido di Umberto e fu Bezzi
Castellini Iole, nato a Ravenna nel 1927, detenuto dal 23 maggio
1945
Accusato
di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di
crimini tra cui il rastrellamento a Palazzone, e l'aver
causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone,
accusato di aver fatto parte del plotone di esecuzione, composto
da militi fascisti e da tedeschi e comandati da un ufficiale germanico,
ammisee la partecipazione, ma
tenuto conto dell'età minorile (all'epoca dei fatti aveva 17
anni), e delle attenuanti generiche fu condannato a 8 anni,
la confisca di un quarto dei beni dei condannati.
Nel 1962 da Bologna arriverà anche la riabilitazione,
con sentenza 18.5.62 della corte d’appello di Bologna.
Ricci
Silvio fu Fedele e fu Cassani
Giacoma, nato a Fusignano nel 1894, detenuto dall'8
giungo 1945.
Accusato
di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di
crimini tra cui il rastrellamento a Palazzone, e l'aver
causato volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone,
negò la presenza all'evento. Fu condannato a 20 anni, la
confisca di un quarto dei beni. Declaratoria 17.7.46 reato
estinto per amnistia
Bartolomeolli
Ezio
fu Gioacchino e fu Tommasi Beatrice, di Fusignano, classe 1899. (Latitante)
Accusato
(in contumacia) di reato di collaborazionismo partecipando a una
serie di crimini tra cui il rastrellamento a Palazzone, e
l'aver causato volontariamente la morte dei partigiani di
Palazzone, ritenuto colpevole solo di collaborazione fu condannato
a 15 anni, la confisca di un quarto dei beni dei condannati.
Il 17.7.46 ottenne la declaratoria per amnistia
Calderoni
Giuseppe
classe 1924 di Ravenna
Accusato
di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di
crimini tra cui l'aver partecipato al rastrellamento a
Palazzone, e l'aver causato volontariamente la morte dei
partigiani di Palazzone. Giudicato colpevole, viene condannato
a 18 anni di reclusione con sentenza del 10/07/45 n.
7.
Si era arruolato volontario da poco più di un mese, dopo essere
fuggito dalla caserma di Vercelli. “Per non andare in
Germania” disse. Rimase in Italia, a Mezzano, Bassano del
Grappa, S. Venanzio di Galliera (sotto i tedeschi), a Savigno di
Bologna, a Modena e di nuovo a Bassano e a Trento fino al maggio
1945. Luoghi dove non mancarono pesanti rastrellamenti condotti
dai nazisti. Calderoni dovette rispondere solo di quello del
Palazzone. Disse che era rimasto defilato, al margine. Nulla
egli aveva fatto o visto, tranne a strage avvenuta.
Il 2/07/1946 ottenne la declaratoria di amnistia.
Ridolfi
Giulio
Accusato di reato di collaborazionismo
partecipando a una serie di crimini tra cui l'aver partecipato
al rastrellamento a Palazzone e l'aver causato
volontariamente la morte dei partigiani di Palazzone. Giudicato
colpevole, venne condannato a 8 anni di reclusione con
sentenza del 18/10/45 n. 129.
Con sentenza 27.8.46, la Corte di Cassazione dichiara estintoil reato, per amnistia
ed annulla senza rinvio la sentenza.
Cavallazzi
Angelo
di Francesco e di Capra Maria, nato a Lugo nel 1924.
Accusato di reato di collaborazionismo
partecipando a una serie di crimini tra cui l'aver partecipato
al rastrellamento a Palazzone. Di professione meccanico, nella
GNR dal maggio del 1944, implicato nel rastrellamento del
Palazzone e in uno a Lavezzola, con morti ammazzati in entrambi
i casi. Non poté negare la partecipazione ai fatti e si nascose
dietro la giustificazione: semplice assistente autista e come
tale di guardia ai camion, mentre i camerati scorrazzavano nelle
campagne.
La Corte gli concesse qualche attenuante e lo condannò ad
anni 7 e sei mesi, con sentenza del 27/11/45 n. 163.
Il 9/07/1946 amnistia scontata e puntuale.
Rapidissima invece la riabilitazione dalle conseguenze
giuridiche della condanna da parte della Corte di Appello di
Bologna, avvenuta già nel 1952. Normalmente le riabilitazioni
arriveranno negli anni ‘60.
Capineri
Severino
(Latitante)
accusato di reato di collaborazionismo
partecipando a una serie di crimini tra cui l'aver partecipato
al rastrellamento a Palazzone. Giudicato colpevole, viene
condannato a 24 anni di reclusione con sentenza del
4/12/1945 n. 170. Con sentenza 8.12.1946 la Corte di Cassazione
rigetta il ricorso e condona 1/3 della pena, condanna alle spese
ed al pagamento di £. 2000 alla cassa delle ammende. Con
declaratoria 12.7.48 la Corte d’assise di Bologna condona
altro terzo di pena pel reato 9.2.48. Con declaratoria C. d’appello
27.2.50 ulteriormente condonato un anno di reclusione pel
decreto
Vistoli
Antonio,
detto Piretta, di Luigi e di Ghinassi Maria, nato nel
gennaio del 1905 a S. Agata, domiciliato a Lugo, via Mentana 52.
(latitante)
Nonostante la giovane età, era riuscito a
mettersi in mostra fin dalle origini dello squadrismo,
meritandosi tutte le onorificenze concesse dal regime diplomi di
Squadrista, Marcia su Roma, Sciarpa Littoria. Ciò incise anche
sul luogo di lavoro, il Consorzio Agrario di Lugo, che lo vide
passare da semplice manovale a custode, ad impiegato. Non pago,
il Vistoli continuò ad umiliare e a bastonare i “nemici”,
con gesta da vantare in osteria compiute a Fusignano, Cotignola,
Ravenna, Faenza, Massalombarda. Le vittime dovevano tacere e non
osavano recarsi dai Carabinieri, impediti ad avviare eventuali
procedure d’ufficio da compiacenti certificati medici
(compiacenti a favore degli aggressori), che attestavano sempre
lesioni guaribili in meno di 10 giorni. Fu quella una stagione
felice per il Vistoli, garantita dall’impunità, in apparenza
rinnovabile dopo l’8 settembre 1943.Faceva parte della Brigata
Nera di Lugo e fu accusato di molti crimini accaduti in zona,
tra cui l’eccidio di Voltana e dei Baffé, l’uccisione della
famiglia Bartolotti, la soppressione dei Dalle Vacche e il
saccheggio della loro abitazione, la violenza contro Venturini
Clelio, le delazioni in danno di Molinari Silvio, il
rastrellamento del Palazzone, l’uccisione di Isola Alfiero.
Partecipazioni di non facile dimostrazione, poiché, a
differenza del passato, il Vistoli non amò raccontare le sue
azioni né ai camerati, né ai superiori, trattenuto dal dubbio
sulla vittoria finale o forse da obblighi di famiglia o dal
timore, un domani, di perdere il posto. Arrivò al punto da
minacciare i testi che avevano riferito al Guerra (Segretario
politico del Fascio di Lugo) quanto visto. Si parla addirittura
della soppressione al nord di un commilitone troppo
chiacchierone, divenuto rivale per questo e forse per altri
motivi sconosciuti. Era accaduto che la sera del 16 marzo 1944
fosse fatto salire su un’auto con calci e pugni Isola Alfiero,
colpevole di avere distribuito dei volantini. Il milite
Timoncini Aurelio lo aveva fermato e sull’automobile in attesa
c’era il Vistoli. Il teste Lucchesi Giuseppe aveva notato la
scena, pur non riconoscendo la persona sequestrata, uccisa
subito dopo presso il cimitero di Lugo, e l’aveva raccontata
al Guerra. Fu rimproverato di ciò dall’imputato, che, volendo
stornare da sé l’accusa più grave, gli disse di essere sceso
dal predellino dell’automobile poco dopo, prima del cimitero.
Nel gioco strano dei tempi, i Carabinieri avevano indagato ed
erano arrivati al Lucchesi, convocandolo. Scattarono le minacce
e il Vistoli allora decise di condurre il teste da un
Maresciallo tedesco al fine di farlo interrogare prima che egli
comparisse di fronte al Sottufficiale dell’Arma. A sorpresa,
il tedesco, fregandosene del servo italiano, disse: “Dirà
quel che ha visto”. Seguirono altri inviti al silenzio e
pedinamenti. Quanto sopra, sarà riferito alla Corte di Ravenna.
Sulla stessa lunghezza la testimonianza di Isola Vasco, che
aveva indagato sulla morte del consanguineo. Decisiva infine la
confessione della solita Valenti Sandrina (questa volta
creduta), che completò il quadro dell’agguato aggiungendo i
nomi del milite Briganti, di un certo Ronchi e di Dal Pozzo.
Episodio in parte simile fu quello relativo all’uccisione di
Dalle Vacche Leo ed Ettore, in data 19 maggio 1944, a
Massalombarda. I famigliari raccontarono di avere saputo da
Patuelli Giulio, fascista, poi ucciso, che a comandare la
squadra assassina c’erano Renier Mario e il Vistoli stesso,
nemico giurato del Patuelli, fino a proporne l’eliminazione.
Meno convincenti per la Corte le imputazioni su altri fatti,
come l’eccidio dei Bartolotti, poiché i famigliari delle
vittime aggiunsero il nome del Vistoli solo in tempi successivi.
“Poca serietà” dell’accusa. Prima di ritirarsi, la Corte
ascoltò un altro repubblichino, Antonellini Demetrio, che
propose una storia inquietante, appresa a Castelletto di
Brenzone, sul Lago di Garda. Il Vistoli avrebbe ucciso un altro
testimone dell’omicidio Isola, un certo Vapore. Ma un milite
con tale nome era stato “assassinato” il 18 settembre 1944.
Dove? Da chi? Si direbbe da parte da partigiani. Le carte non
chiariscono. Ci dicono invece che il Vapore sarebbe stato
confuso con Baldrati Mario, detto Volpe.
Da ricordare infine che la Valenti inserì il
Vistoli anche tra i partecipanti alla strage del Palazzone.
Con sentenza dell'11/02/1947 fu giudicato colpevole
del delitto di collaborazionismo politico ed in particolare di
omicidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi di Isola
Alfiero, Dalle Vacche Ettore e Dalle
Vacche Leo, ma non dei fatti di Palazzone. La corte lo condannò
alla pena dell’ergastolo con le conseguenze di legge ivi
compreso il pagamento delle spese processuali. Nessuna
attenuante, dato l’animo malvagio e subdolo. Ergastolo.
Pena severa, ma presentata in modo subdolo, poiché il
Presidente Avezzana, con malizia, volle inserire in sentenza una
frase pericolosa ed equivoca, secondo la quale il verdetto era
frutto delle testimonianze dibattimentali e dell’ “eco
dell’opinione pubblica”. Inevitabile pertanto il
comportamento della Cassazione, che nel maggio del 1949
accogliendo il ricorso prodotto nell’interesse del condannato
dal difensore annullerà la suddetta sentenza, rinviando il
fascicolo alla Corte di Assise di Macerata.
Ronchi
Antonio
fu Ugo e di Mingazzini Teresa, era nato a Riolo Bagni nel 1905 e
risiedeva a Lugo in via Baracca 31.
(latitante)
Accusato di reato di collaborazionismo
partecipando a una serie di crimini tra cui l'aver partecipato
al rastrellamento a Palazzone (per il quale non fu condannato)
Da giovanissimo (nel 1922) si era iscritto al
Partito Fascista ed era riuscito ad ottenere onorificenze per le
azioni di squadrismo. Se a sedici anni si era fatto le ossa a
menare i rossi, a poco più di 20 anni si era specializzato in
crimini contro i neri d’Africa. Dovette esagerare, visto che
nel 1930 fu rimpatriato da Asmara per motivi di pubblica
sicurezza. Ritornato in patria, fu premiato con una professione
di prestigio, agente del R.A.C.I. (Regia Automobile Club
Italiana). Gli anni erano passati, ma ciò non gli impedì di
provocare lesioni a qualche compaesano durante il 1943. Forse
prima del 25 luglio o forse dopo l’8 settembre, se si
considera che le vittime preferirono non presentare querela,
consentendo così ai Carabinieri di ritenere le lesioni
“lievissime”, quasi carezze. Con la Repubblica di Salò gli
sembrò che il passato lontano e glorioso ritornasse.
S’iscrisse subito al partito e si mise in divisa, quella della
Brigata Nera (dopo una parentesi nella GNR), divenendo Capo
Squadra. Fu accusato della cattura di Orsini Aristide ed altri,
dell’uccisione di Isola Alfiero, della cattura di Ricci
Giuseppe e Ferrieri Aldo, del rastrellamento di Voltana (cinque
morti), di quello del Palazzone di Fusignano, dell’eccidio
della famiglia Bartolotti, nonché di altri fatti di violenza.
Una figura secondaria, a detta della Corte. Ma era pur sempre un
caposquadra della Brigata Nera, obbligato o libero di muoversi
nel territorio con licenza di uccidere o di commettere altri
misfatti. La citatissima Valenti Sandrina (insuperabile per
memoria) raccontò di avere appreso dall’amante Ricciputi, in
quel di Bussolengo ( Verona), la dinamica dell’omicidio di
Isola. Il 12 marzo 1944 due militi, Vitali Antonio, detto
Piretta, e il Ronchi, indicarono a Dal Pozzo la figura di Isola
che si trovava al Caffè Motoclub di Lugo. I tre lo attesero
fuori, dove gli chiesero i documenti. Poi lo colpirono al capo,
fino a stordirlo. Subito lo caricarono su un’automobile e lo
condussero per un vicolo del cimitero. Sparò Briganti di Forlì,
per ordine del Piretta e di Ronchi. Indizio o prova? Credibile o
no la Valenti? I soliti dilemmi, in questo caso catalogati come
“vago indizio”. La stessa teste incolpò l’imputato
latitante anche per l’eccidio Bartolotti e per quello di
Voltana, versione in parte difforme dalle dichiarazioni della
vedova di Bartolotti Olindo, Tarlazzi Armanda, che aveva
indicato il Nostro tra i partecipanti solo al saccheggio e
all’incendio, Un’altra donna, la fidanzata di Luciano Orsini,
Renza Gallignani, riferì la scena della cattura degli Orsini,
avvenuta il 22 agosto 1944. Erano sette i brigatisti neri su un
autocarro che si fermò davanti alla casa del fidanzato. Tra
loro il caposquadra Ronchi, che chiese del padre Aristide e, non
trovatolo, aggiunse: “Se non c’è il vecchio, prendiamo il
giovane”. Il che stava a dimostrare che l’accusato non
eseguiva soltanto un ordine, ma aveva possibilità di agire a
suo arbitrio.
A conferma.
Giulio Savorani vide
l’autocarro in piazza a Lugo. Sopra, tutti gli Orsini e il
caposquadra Ronchi. Ad analoghi risultati era pervenuto Antonio
Pasotti, che a nome del Comitato di Liberazione di Lugo aveva
svolto un’indagine sul fatto.
Giudicato colpevole, venne condannato con sentenza del 26/02/1947
n. 206. La Corte, nonostante i dubbi sparsi per l’intera
sentenza, si convinse della colpevolezza dell’imputato, con
l’esclusione del rastrellamento del Palazzone. Niente
amnistia, dati gli omicidi premeditati e lo scopo di lucro. Pena
equa l’ergastolo, ridotto a 20 anni per le attenuanti
generiche.
Con sentenza in data 5.6.48 la Cassazione annulla senza
rinvio la sentenza dichiarando inesistente il concorso di Ronchi
in fatti di omicidio e il fine di lucro nel reato di
collaborazionismo politico a lui ascritto e conseguentemente
estinto il reato stesso per amnistia. Revoca il mandato di
cattura emesso a carico del Ronchi. Scandaloso? Non del tutto,
se si pensa che nelle prime righe della sentenza era possibile
leggere frasi minate: la difficoltà dell’acquisizione delle
prove non può essere di “ostacolo” all’affermazione di
colpevolezza, cui si perviene per la pressione dell’opinione
pubblica sui giudizi di “questo Collegio”! Nessuno scandalo
quindi, anche se più logico ed equo sarebbe parso
l’annullamento della sentenza e la richiesta di un nuovo
processo.
P.S. A Sasso-Gargnano (prov. Brescia), in
data 13 maggio 1945, era stato ucciso un Ronchi Antonio,
squadrista e brigatista nero. Identici pure luogo e data di
nascita.
Pasini
Vitaliano
nato a Imola da ragazza madre Vitaliano Dora, classe
1926, residente a Ravenna in via Matteotti 47, componente della
Brigata Nera di Lugo, detenuto dal 31 gennaio 1946
A leggere i capi d’imputazione c’è da
rabbrividire: ci sono tutti i misfatti più tragici del
territorio lughese e dintorni, tra cui di aver partecipato
al rastrellamento a Palazzone.
Dall’uccisione della famiglia Bartolotti al rastrellamento di
Voltana, dall’eccidio dei Baffé al rastrellamento del
Palazzone, dalla cattura degli Orsini all’uccisione di
Carlo Landi, ecc. Altri reati gli furono contestati in sede di
dibattimento. Il che fa pensare ad un protagonista, un sicario
sempre a fianco dei capi. Ma così non era.
In
molti casi nessuno lo vide, in altri ebbe un ruolo assolutamente
marginale. In dibattimento sorse persino il dubbio di un
clamoroso equivoco, poiché al Vitaliano non si potevano
attribuire delitti avvenuti prima che egli si arruolasse nella
Brigata Nera, in data 6 settembre 1944. Principio logico, che
forse avrebbe richiesto ulteriori indagini, visto che a 17 anni
risultava iscritto al PFR. Una domanda su tutte: dove aveva egli
trascorso l’estate del 1944?
L’imputato,
da parte sua, riconobbe solo due colpe. Avere
accompagnato (25-10-44) i tedeschi alle case di Tasselli Luigi,
Berdondini Renzo e Ballardini Luigi; avere invitato Fantinelli
Norge (il 20 ottobre) a recarsi nella sede della Guardia
Nazionale. Aggiunse che il 15 settembre 1944, allorché si
verificò la strage di Ca’ di Lugo, egli si era recato a
Bologna, con Italo Geminiani, per prelevare prodotti di
monopolio. Partenza alle 6 del mattino, ritorno alle 4 del
pomeriggio. Ad accusarlo la supertestimone Valenti Sandrina,
vera protagonista in tante pagine. La Corte, sempre combattuta
di fronte ai suoi ricordi, questa volta decise di dubitare di
una memoria tanto portentosa. E con ciò caddero anche le
accuse per il Palazzone e per Voltana. Quanto alla cattura
degli Orsini, in data 22 agosto, cioè prima dell’arruolamento
nella B.N., emerse soltanto che il Pasini li aveva
trasportati a Ravenna, su ordine del Ferruzzi. Poca cosa. Eccidio
Baffé. Nessun testimone oculare aveva fatto il suo nome.
La
Corte, in assenza di fonti, giustamente si meravigliò di tale
accusa. Meno apprezzabile invece il rilievo filologico
sull’affare Ca’ di Lugo, cassato solo perché la località
era stata indicata diversamente: Ca’ di Longo. La Corte non
doveva essere in forma quel giorno, tant’è che nella
ricostruzione d’alcuni episodi, già acquisiti nella loro
dinamica (Baffé- estorsione in Banca), ne modificò nettamente
il rilievo penale. Per cui, l’eccidio sarebbe stato opera
esclusiva dei tedeschi e la rapina in Banca tutta addebitabile
ad Andreani, dimenticando le recenti sentenze contro Renier e
Ferruzzi. Per inciso, l’impiegata di Banca, Tazzari Giovanna,
dichiarò di avere riconosciuto l’imputato. Il processo si
concluse con una testimonianza drammatica, che molto impressionò
la Corte, quella di Montanari Ada, che ricordò le paure, le
speranze e la disperazione provate. Arresto di due figli
(Floriano d’anni 23 e Giovanni di 17), la diffida del terzo,
il minore, Alfio. Le promesse del Ferruzzi. Il ritrovamento dei
cadaveri nel Senio. E il ruolo del Pasini? Li portò in
carcere, dove fra l’altro non furono neppure registrati, per
ordine tedesco (testimonianza del guardiano). Contro di lui le
parole di Dal Monte Bruna, che, al momento degli arresti, sentì
Pasini esclamare: “Questo è niente, quello che gli
faremo…”.
La Corte, convinta
dell’esistenza di una correlazione tra alcuni sequestri e i
successivi omicidi, pervenne ad un verdetto di responsabilità.
Fu giudicato
colpevole di
collaborazionismo politico e di concorso nell’omicidio dei
fratelli Montanari, con sentenza dell'11/03/194721 anni di
carcere, ridotti a 9 e 4 mesi, date le attenuanti, con le attenuanti della minima importanza del
concorso, del la giovane età e dell’avere agito in
ottemperanza ad ordini superiori.
Nel
febbraio del 1948, la Cassazione annullerà tale sentenza ed
ordinerà “l’escarcerazione”,
se non detenuto per altra causa.
Bartoletti
Innocente
fu Domenico e fu Antonellini Luisa, nato nel lontano 1893 a
Fusignano.
Piccolo e dal naso storto, cui si aggiungeva
“personaggio insignificante”. Questi i connotati per
indicare un altro di Fusignano, anch’egli presente al
Palazzone.
Fu arrestato di ritorno dal nord, l’11 luglio
1945, con due imputazioni:
1) partecipazione al rastrellamento del Palazzone
2) responsabilità diretta nella deportazione in Germania di un
compaesano, Aldo Ballardini, da lui accusato di adesione al
movimento partigiano.
Quasi certamente di
condizioni miserevoli, si era iscritto al Fascio solo nel 1926.
Dopo l’8 settembre volle invece essere tra i primi di
Fusignano ad aderire al Partito Fascista Repubblicano e ad
arruolarsi nella GNR. Contro il Bartoletti, due i testi, e uno
indiretto. Aldo Fiorentini dichiarò di averlo visto al Palazzone
armato di mitra, in compagnia d’altri due militi, davanti alla
casa Zalambani, nella zona d’operazioni congiunte tra
fascisti e tedeschi. Una testimonianza quasi inutile, se è vero
che il rastrellamento era avvenuto in grande stile, con la
partecipazione di quasi tutti gli uomini in arme di Ravenna.
Sarebbe stato stolto escludere i locali, gli unici esperti dei
luoghi. Per il secondo episodio, testimoniò una donna,
la moglie del deportato, Elda Minardi. La donna, per riavere il
marito, si era rivolta in alto (ad un personaggio non citato),
che si premurò di contattare il Maresciallo tedesco. In
risposta: “Se dipendesse da me, sarebbe possibile, ma un
fascista piccolo e dal naso storto ha detto: Sta bene dentro”.
Forse il Bartoletti era l’unico con quelle caratteristiche,
ma il valore probante di un colloquio riferito non pare
convincente. Anche la Corte ebbe lo stesso dubbio, pensando
che il tedesco forse aveva voluto mostrarsi generoso a spese
degli altri. Ma, d’altronde, perché non incolpare
genericamente i repubblichini, senza offrire indicazioni così
precise contro un individuo noto? Problema comunque secondario
ai fini della pena, poiché la pena minima prevista per il
collaborazionismo scaturiva senza equivoci dall’altra
imputazione. Pertanto, la Corte (18-10-45) sentenziò
“Sta bene dentro”. Giudicato colpevole, venne condannato
10 anni, ridotti a 5 anni, sei mesi e venti giorni di reclusione
con sentenza del 18/10/1945 n. 127. Dopo un anno di carcere, ottenne la declaratoria di
amnistia il 9/07/1946.
Gasperoni
Giovanni
fu Giovanni e di Longanesi Trinità, nato a Fusignano nel 1914.
Accusato di reato di collaborazionismo per
aver partecipato
al rastrellamento a Palazzone. Era sposato e la sua consorte
aveva avuto più volte occasione di lamentarsi per il terribile
vizio del gioco, amaramente confermato anche in sede processuale
da una condanna. Le bische, che durante la guerra erano
sopravvissute a fatica, erano sparite del tutto, o quasi, con la
Repubblica Sociale. Di qui, l’inattività completa del nostro
uomo, che viveva con le rendite delle campagne. Un agricoltore,
un fortunato in mezzo alle migliaia di braccianti e ai molti
fittavoli e mezzadri. Pertanto, mosso anche dall’istinto di
classe e per nulla impressionato dai proclami socialistoidi di
Mussolini, nell’aprile del 1944 decise di scommettere sulla
vittoria dell’Asse. La posta era ardita, ma il Gasperoni era
abituato a rischiare e a perdere.
S’iscrisse al PFR e subito dopo fu visto a
spasso per le sue contrade con la divisa della GNR. Le avventure
non si fecero attendere. Nello stesso mese, il 23, si
verificarono i fatti del Palazzone, con otto fucilati. Lui
era presente, come esperto dei luoghi, a sorpresa, secondo le
sue dichiarazioni. Non cercò neppure di nascondere ai
compaesani la sua partecipazione e, da spavaldo come molti
padroni, commise l’errore di informare Giovanna Mari che i
suoi due figli erano stati uccisi. Ma forse capì l’azzardo
commesso e dal quel giorno operò lontano dal paese, a S. Pietro
in Vincoli, a Ravenna e infine a Brescia.
A guerra finita, avrebbe potuto restare
in giro per l’Italia, non mancandogli le disponibilità
economiche, ma dopo un mese di purgatorio volle giocare la
scommessa di ritornare a casa, a rischio della vita, forse per
verificare i danni provocati al suo patrimonio dagli ultimi
giorni di guerra. Un gesto da spericolato, nato da sicura
sottovalutazione delle sue responsabilità per i fatti del
Palazzone e dal ricordo di ben più cruenti disfide, vissute
altrove. La ruota gli girò a sfavore e fu arrestato in giugno
dai Carabinieri del posto. Al processo il Gasperoni cercò di
minimizzare, “comandato dai tedeschi”, ma la Corte non lo
ritenne credibile, tanto più che dopo Fusignano, nonostante
avesse famiglia, aveva scelto di restare con la GNR, in Romagna
e in Lombardia. Con sentenza del
20/09/1945 fu condannato ad anni 12, senza attenuanti per
quella vecchia questione del gioco d’azzardo.
Ma la partita non era finita a Ravenna. Nell’aprile
del 1946, infatti, la Cassazione annullerà la sentenza, per
mancanza di motivazioni, e spedirà gli incartamenti a Bologna
per un nuovo dibattimento. Dopo due mesi arriverà il
Decreto d’amnistia e per Gasperoni la libertà.
Sangiorgi Elviro Lino
di Battista e di Bedeschi Erminia, nato a Lugo nel 1916,
residente in via Cento 25.
(Latitante)
Elviro, residente in via Cento 25 a Lugo,
proveniva dalle organizzazioni giovanili del regime
(Avanguardista, GUF?) ed era poi passato al Partito Nazionale
Fascista. Propagandista, infine, del Fascio repubblicano. In
istruttoria Elviro viene definito “violento e feroce”; era a
Cà di Lugo alla casa colonica dei Bartolotti, il 15 settembre
1944. Scelse il più giovane della famiglia per farlo parlare,
il diciottenne Silvio. Voleva sapere da lui i nomi e i
nascondigli dei partigiani e gli piantò dei chiodi nelle mani.
Giunse poi l’impiccagione per Silvio, per il padre Adolfo e
per un fratello maggiore. L’altro fratello cercò la fuga, ma
fu raggiunto e freddato con un colpo di pistola alla nuca. Anche
suo fratello Luigi Sangiorgi fu della partita, a spingere
i Bartolotti sul camion per portarli sul luogo
dell’esecuzione. Per non essere da meno del fratello, chiese
del sapone per lubrificare la corda che doveva servire per
l’impiccagione (teste Pompeo Lippi).
Elviro fu accusato anche dell’uccisione di
Carlo Landi, del rastrellamento del Palazzone di Fusignano,
dell’eccidio di cinque persone a Voltana, della cattura di
Ricci Giuseppe e Natali Valentino, dell’estorsione in danno di
Corrado Capra, della cattura di Norge Fantinelli. La nota
Valenti Sandrina testimoniò su Fusignano. Norge sul suo fermo,
20 ottobre 1944, e successiva deportazione in Germania. Capra,
sospettato di aiutare i partigiani, ricostruì l’estorsione di
lire diecimila e il sequestro del camioncino. Il Brigadiere di
Pubblica Sicurezza Natali Valentino ricordò le minacce a mano
armata ad opera di Elviro perché egli, nell’esercizio delle
sue funzioni, procedeva ad indagini sulle minacce del fascista
Pasini Vitaliano contro Tampieri Sauro. Tasselli Luigi lo inserì
nell’omicidio Landi e il repubblichino Ravaioli Alfredo
nell’eccidio di Voltana. Questa ultima testimonianza, resa
alle autorità di PS di Lugo, non fu ritenuta valida, perché
prodotta in copia.
Per la Corte (17-7-46) indubitabile il reato di
collaborazionismo politico (art.58 del Codice Militare di
Guerra) e inevitabile la condanna, senza i benefici del condono
previsto dal Decreto di amnistia, per la latitanza
dell’imputato. Condannato ad anni 20 di reclusione e tre
anni di libertà vigilata. Confisca della metà dei
beni.
Con provvedimento in data 2.1.54 il Tribunale di Ravenna
dichiarò interamente condonata la pena di anni 20 di reclusione
inflitta a Sangiorgi Elviro Lino inflitta con la su estesa
sentenza e ordinò la revoca del mandato di cattura emesso in
esecuzione della citata condanna. Con declaratoria 6.10.59 a
favore di Sangiorgi Elviro Lino, il Tribunale di Ravenna, veduto
il decreto del PR 11.7.59 n.460 art. 1 lett. a dichiara estinto
il reato per amnistia. Latitanza fino a 40 anni di
età.
Sangiorgi
Luigi di Battista e di
Bedeschi Erminia, nato a Lugo nel 1906, residente in via
Cento 25.
(Latitante)
Luigi Sangiorgi
fu accusato perché era a Cà di Lugo il
15 settembre 1944 alla casa colonica dei Bartolotti, dove
collaborò all'esecuzione di Bartolotti padre e tre figli,
insieme a suo fratello Lino Elviro. Spinse i Bartolotti sul
camion per portarli sul luogo dell’esecuzione. Per non essere
da meno del fratello, chiese del sapone per lubrificare la corda
che doveva servire per l’impiccagione (teste Pompeo Lippi).
Fu accusato anche della cattura di Orsini Aristide e Nello, poi
uccisi, dell’eccidio Baffé e Foletti in Massalombarda, del
rastrellamento del Palazzone e dell’uccisione di Mario
Baldrati. Quest’ultimo era un fascista che ad un certo punto
si dimise. Un traditore per i repubblichini, e fu fatto fuori. A
puntare il dito contro Luigi una certa Erminia Capucci, ma le
sue parole non risultarono del tutto convincenti: solo sospetti.
Calzanti, invece, e convergenti, le testimonianze sugli altri
crimini. Elena Ricci fu precisa nel motivare il rancore dei
Sangiorgi contro gli Orsini (“vi farò finire male”) e
certa di avere visto il Luigi sul camion che li
trasportava. Ravaioli Alfredo e Aurelio, repubblichini, accusarono Luigi
dei misfatti più gravi, salvo poi ritrattare. Con versioni
simili, però, a quanto riferito da tale Filippi e dalla Valenti
Sandrina (la donna del Ricciputi).
Sangiorgi Luigi fu coinvolto anche nell'esecuzione di Carlo
Landi, un ventenne partigiano di Lugo, catturato nell’ottobre
del 1944, tipografo. Fu preso e condotto alla Rocca, sede delle
Brigate Nere. Torturato. Il 26 ottobre fu accompagnato fuori,
all’aperto. Tra quelli che lo condussero verso la rampa della
Rocca c'era il Sangiorgi Luigi (testimonianza al processo fatta
dal camerata Serafino Saviotti che dirà: “Vidi scendere dalla
Casa del fascio il Landi Carlo tenuto ai lati sotto braccio da
Reggi Giulio e Sangiorgi Luigi che lo condussero verso la
rampa della Rocca; io pure li seguii e poco dopo vidi il Landi
cadere sotto colpi di mitraglia. Credo che l’uccisione sia
stata commessa dal Reggi Giulio perché era il solo in quel
luogo armato di mitra”.
La Corte (30 luglio 1946) ravvisò nei comportamenti di Luigi
Sangiorgi il reato più grave, quello di collaborazione
militare, punito, alla luce del Codice di Guerra, con la fucilazione.
Dati i buoni precedenti, la pena fu ridotta a 30 anni di
carcere, cinque di libertà vigilata e totale confisca dei beni.
Incoerentemente, rispetto ai criteri seguiti con il fratello
Elviro, la latitanza non impedì a Luigi di beneficiare del
condono di un terzo della pena. Quindi: 20 anni di carcere
per entrambi i latitanti.
Una sentenza della
Cassazione del 9-6-52 rigetta l’istanza di revisione del
processo. Una Declaratoria del 23- 1-54 riduce la pena di due
anni.
Infine, nel 1959, provvedimento di estinzione del reato,
latitante fino a 53.
Saviotti
Serafino
di Ido e di Pironi Luigia, nato a Fusignano, classe 1910,
detenuto
Come milite della Guardia Nazionale
Repubblicana aveva operato nei presidi di Faenza e di Solarolo,
come componente della Brigata Nera, dall’agosto del 1944,
aveva condiviso quasi tutti i crimini commessi dalle squadre di
Lugo, agli ordini del Segretario politico Ferruzzi e del
Centurione Ferretti.
Lunghissimo il capo d’imputazione.
Si va dalle catture alle sevizie, dagli omicidi singoli alle
stragi, dalle istigazioni ad uccidere ai rastrellamenti (compreso
quello del Palazzone), dai saccheggi alle estorsioni di
denaro, ecc.
Vasto più del solito il campo d’azione, da Ravenna a
Fusignano, da Voltana a Massalombarda.
Fu senza soste il suo attivismo e coprì l’intero periodo
della Repubblica di Salò. A leggere le carte della Questura si
ritrovano nomi di località e di personaggi già incontrarti
accanto ad altri del tutto nuovi: Palazzone, Voltana, Baffé,
Bartolotti, Bosco Baronio, Orsini. Tralasciamo per un
momento i fatti più gravi, per fermare l’attenzione su un
aspetto di solito trascurato e cioè sul come i repubblichini si
procuravano il denaro. Si sa che i militi ricevevano lo
stipendio, che i brigatisti neri percepivano di più di quelli
delle GNR, che nei saccheggi spesso arrotondavano, che prima di
lasciare la Romagna svuotarono le Banche. Episodicamente,
invece, si è parlato dei cosiddetti contributi volontari da
parte di finanziatori. Questa operazione aveva più finalità:
ricattare gli ex fascisti, minacciare i benestanti, punire i
sostenitori occulti dei patrioti, rovinare economicamente
famiglie e imprese. Varie anche le forme. Si comunicavano i
bisogni della patria, della città e dei sinistrati e si diceva
di contribuire versando, non in Municipio come sarebbe stato
giusto, ma presso la sede del partito. La comunicazione quasi
mai avveniva per iscritto o tramite le poste. Si preferiva che a
bussare alle porte fossero uomini in divisa, minacciosi e in
armi. Chi non aveva liquido a disposizione avrebbe potuto
provvedere l’indomani presentandosi al Fascio. Talora si
arrestava, in attesa dell’obolo spontaneo. Ecco alcuni
episodi. Olindo Baldrati, arrestato e rilasciato in cambio di
lire 200.000; Mario Verni, costretto a consegnare un camioncino
e lire 300mila; Corrado Capra, un camion e lire 10mila; Carlo
Ricci, lire 100mila in cambio della libertà. Il
Saviotti a volte visitava a casa, a volte consigliava, a volte
riscuoteva in sede, a volte faceva sconti.
Tra gli altri addebiti: avere obbligato un vice
brigadiere (Natali Valentino) a consegnare una pistola
sequestrata a Pasini Vitaliano; avere catturato e seviziato
Costa Agenore, Drei Giulio e Ravaglia Emilio; avere catturato
Tesselli Luigi, Berdondini Renzo, Ballardini Luigi, Facciani
Domenico; avere partecipato all’uccisione di Landi Carlo, alla
cattura dei fratelli Travaglini; avere istigato un fascista ad
uccidere Geminiani Emilio; avere partecipato alla cattura e alle
violenze in danno di Laghi Mario, Fantinelli Norge e Lippi
Pompeo, alla cattura e all’uccisione di Montanari Giovanni,
Dalmonte Giovanni, Berdondini Enzo ed altri; come sopra nei
confronti di Mario Baldrati. Tra i reati minori anche l’
asportazione a forza di un’automobile di proprietà di
Grillandini Enrico e la cattura di Tonino Golfari. Al processo
testimoniarono mogli, fidanzate, figli, padri, amici, camerati.
Tutti precisi e concordi nell’evidenziare la ferocia e la
costanza del Saviotti. Elena Ricci, cui l’imputato aveva
arrestato figlio, padre e nipote, ebbe questa risposta: “In
Jugoslavia ho ucciso gente di ogni colore”. Il Saviotti, al
dibattimento, ammise la cattura degli Orsini e dei Travaglini,
le retate in Lugo di renitenti e l’invito al Verni di
presentarsi alla sede del Fascio. Nient’altro.
La Corte (30 luglio 1946)
ritenne il
Saviotti passibile della pena di morte, ma, viste le
attenuanti generiche, lo condannò ad 30 anni (di cui un
terzo condonato), cinque anni di libertà vigilata e la
confisca dei beni.
Nel 1950 La Corte di Appello di Bologna condonò
un anno,
Nel 1954 il Tribunale di Ravenna abbonò
altri due anni.
Nel 1960 la riabilitazione da parte della Corte
di Appello di Bologna. Sembrerebbe quindi, salvo errori od omissioni,
che il Saviotti abbia pagato con il carcere più di tutti. Circa
15 anni.
Santucci
Ercole
fu Luigi e di Dradi Colomba, nato nel 1891 a Forlì, ivi
residente, arrestato il 6 giugno 1945.
Accusato
di reato di collaborazionismo partecipando a una serie di
crimini tra cui l'aver diretto il rastrellamento di
Palazzone.
Era Colonnello della GNF. Come
ufficiale non aveva superiori in grado quando dirigeva il
presidio di Massalombarda. Come Comandante della 71a Legione GNR
non prendeva ordini da nessuno durante la permanenza a Faenza.
Come ufficiale superiore
spettava a lui incontrare di tanto in tanto i Comandanti
tedeschi e i capi delle Brigate Nere, per concordare il da farsi
nella lotta contro le bande partigiane, in pianura e su per le
montagne tosco-romagnole. I luoghi dei rastrellamenti sono noti,
Conselice, S. Cassiano, il Palazzone di Fusignano, e note
sono le tragiche conseguenze.
Meno conosciuta la Val di Fusa
(?), dove il Santucci avrebbe comandato un Battaglione della GNR
e dove i partigiani subirono la perdita di 200 uomini fra morti
e feriti. Operazioni militari che di per sé comportavano il
reato di collaborazionismo con il tedesco invasore. Ma il
Santucci era accusato anche di fatti specifici di carattere
poliziesco e criminale, compiuti dai suoi uomini e da lui in
persona, nonché di avere autorizzato tutte le nefandezze delle
Brigate Nere agli ordini del Raffaeli Raffaele. Autorizzato o
tollerato o subìto? Il Colonnello, come responsabile
dell’ordine pubblico e delle investigazioni di polizia, era
imputato anche di avere posto una taglia sul comunista Nino
Cimatti, ucciso il 2 novembre del 1943 nei pressi della Pineta
di Ravenna, di avere premiato con lire 25mila gli uccisori di
Violani Pietro, di avere partecipato all’uccisione di Leonilde
Montanari, al tentativo di omicidio nella persona di Domenico
Monti e all’eccidio di Chiarini e Dalle Vacche (in
Massalombarda), nonché ad altri fatti di violenza in provincia
di Ravenna.
Il processo fu un
susseguirsi di sorprese.
Stando alla relazione finale,
ad accusare il Santucci erano stati “esclusivamente” due
militi della GNR, Valerio Lombardi e Giovanni Marzocchi. Ma il
primo aveva ritrattato in istruttoria e il secondo non si
presentò al dibattimento, poiché, mosso unicamente da rancore
personale, non avrebbe avuto nulla da dire. Strano che nessun
partigiano, salvatosi dai rastrellamenti, si sia fatto vivo e
che nessuna prova cartacea risultasse acquisita agli atti.
Strano, ma in parte spiegabile, se è vero che al Santucci era
giunta a suo tempo la richiesta di passare tra le fila
partigiane, proposta respinta, potendo egli rendere migliori
servigi in divisa di ufficiale superiore della Guardia
Nazionale. La cosa andrebbe approfondita alla luce della
documentazione e dei rapporti delle Brigate partigiane ed anche
dalle relazioni su di lui dei Comandi regionali e nazionali
della Guardia stessa.
Era un fascista moderato o
un collaboratore del movimento di liberazione? Alternativa
di non poco conto, alla luce di quanto stabilito dal Decreto
Legge del 22-4-45, articolo 1, che stabiliva la responsabilità
oggettiva di collaborazionismo in coloro che avevano ricoperto
importanti ruoli militari e politici. Altra sorpresa. I testi,
elencati con puntiglio, non distinti tra fascisti e patrioti,
giurarono sui sentimenti antitedeschi del Santucci, sulla sua
moderazione, sugli interventi per ridurre rappresaglie e
saccheggi, per la liberazione di prigionieri, per sottrarre i
cittadini alle persecuzioni e alle deportazioni in Germania.
Questi i loro cognomi: Turicchia, Sciottola, Gabi, Brussi, Lesi,
Borghesi, Scardovi, Baldini, Marinelli, Marangoni, Benassi,
Cassani, Testi, Dal Monte, Preti, Sinigallia, Rava, Lanzoni,
Congia, Bordoni, Molinari, Cicognani, Zappi e Magnacavacca.
Mancano i nomi e ciò rende difficile stabilire la loro
collocazione durante il conflitto. Difficile ma non impossibile.
Alcuni li abbiamo già incontrati sul banco degli
accusati.
Al Palazzone sarebbe
arrivato dopo la strage, per impedire altro sangue. In Val
di Fusa a comandare il Battaglione romagnolo sarebbe stato il
maggiore Del Greco. Inoltre, il Santucci risultò infaticabile
nell’opera di soccorso alla popolazione a seguito dei
bombardamenti, sia a Massalombarda, sia a Faenza, sia a Verona,
dove era ripiegato.
Tutto ciò consentì alla Corte
di concludere che le accuse erano senza fondamento e che,
viceversa, il Santucci andava additato per la “rettitudine ed
onestà” e per la moderazione dimostrata, fino al punto da
essere malvisto dal famigerato Raffaeli. Peccato che agli atti
manchi la tesi del PM, che nelle conclusioni della sua arringa
mantenne l’iniziale accusa. Con queste premesse, per una
sentenza favorevole, restava pur sempre lo scoglio della
responsabilità oggettiva, ma essa poteva considerarsi una
presunzione relativa, richiamata dalla giurisprudenza e smentita
dai fatti.
Assoluzione con formula
piena, in data 25 settembre 1946con sentenza n. 138.per
non aver commesso il fatto. Merito dello Spizuoco o
sentenza unanime? Autorevoli raccomandazioni? Un bel filone di
ricerca, che tenga conto anche degli echi politici e
giornalistici.
Il Santucci, dopo un anno di
carcere, uscì da trionfatore. Di sicuro avrebbe potuto
vanificare ogni ulteriore indagine della Commissione per
l’epurazione e, volendo, rientrare nei ranghi militari,
accompagnato, perché no, da benemerenze resistenziali. Questo
solo si può aggiungere. I Podestà, ossia i Commissari
prefettizi, il Questore, i componenti dei Tribunali
Straordinari, i Generali dei Tribunali Militari, il Comandante
della Guardia Nazionale, tutti adulti, passarono quasi indenni
dal giudizio della Corte di Ravenna, meno benevola con i
giovanissimi subalterni, più o meno costretti ad
ubbidire.
Reggi
Libero
di Giulio Augusto e di Rossi Ersilia, nato e residente a Lugo,
classe 1923
(Latitante o
morto?)
1) Fu accusato di essere conduttore del camion
che arrivò nell’aia dei Bartolotti, per procedere agli
incendi, ai saccheggi e alla cattura dei maschi di casa.
2) Altri testi accusarono il Reggi
dell’eccidio del Palazzone
e del saccheggio della casa di
Ricci Bartolini, da cui i brigatisti avevano asportato, fra
l’altro, 200 bottiglie di vino e di liquori.
Parlarono contro Alessandro Marangoni, Angelo Cavallazzi ed un
altro Ravaioli, Aurelio.
3) Provata, infine, l’accusa di avere concorso alla cattura
del dottore Giulio Drei, noto antifascista, e di avere concorso
alle sevizie su di lui, dopo il consueto saccheggio
dell’abitazione.
Restò indimostrato, invece, l’impianto
accusatorio relativo all’eccidio di Voltana. Stante i fatti,
Reggi Libero, di Giulio Augusto e di Rossi Ersilia, nato e
residente a Lugo, classe 1923, contumace, fu condannato, senza
potere beneficiare dell’amnistia, non ammissibile a fronte del
saccheggio, né del condono, non previsto in caso di latitanza
(criterio però non sempre seguito dalla Corte).
Condanna a 15 anni di reclusione e alla
confisca di un terzo dei beni (8-10-46). Bisognerà
attendere il 12 gennaio 1954 per trovare un nuovo
provvedimento su di lui: pena interamente condonata.
Latitante o morto il Reggi? Un omonimo
compare tra i caduti della RSI, “prelevato dal carcere ed
ucciso a Lugo il 6 luglio del 1945”.
Secondo questa sito
di destra (ma che non cita i documenti) "...
il 7 marzo del 1949 furono denunciati a piede libero, per via
sempre di quella legge che impediva l’arresto di
ex-partigiani, gli agenti ausiliari di Lugo, [ndr. ho omesso
i tre nominativi] accusati di duplice omicidio, occultamento
di cadavere e di falsità in atto pubblico. Insomma, avevano
massacrato di botte due lughesi, Libero Raggi (o Reggi?) e Bruno
Faccani, arruolatisi nella Brigata Nera alla fine della guerra.
Li avevano massacrati il 7 (o il 6?) luglio del ’45."
Ferretti
Guglielmo fu Giordano e di
Rizzoni Caterina, classe 1900, nativo di Portomaggiore ed ivi
residente
Nominato Commissario Prefettizio a Bagnacavallo,
in carica dal 26 ottobre 1943 al giugno 1944, un periodo
relativamente calmo nella lotta antipartigiana, e dimostrò
tanto attivismo da non essere dimenticato neppure a guerra
finita.
Uomo d’ufficio, con una particolare vocazione
per le finanze, tentò in tutti i modi, nonostante le avversità
belliche, di riempire le casse dell’amministrazione (per
qualcuno anche le proprie). Chiedeva ed imponeva soldi a tanti,
senza le relative deliberazioni. E per raggiungere meglio lo
scopo chiese ed ottenne il Comando del locale presidio della GNR:
Sindaco e Carabiniere ad un tempo. Era difficile sfuggirgli.
Queste le sue tecniche. Visitare gli uomini danarosi, specie se
con trascorsi fascisti e un presente dubbioso, e offrire loro la
tessera del Partito Fascista Repubblicano. Se rifiutavano era
meglio, dato che li obbligava a versare cifre consistenti o li
associava per qualche tempo alla prigione, onde essere libero di
visitare le loro dimore o negozi.
Non soddisfatto, il Ferretti se la prese anche
con chi non aveva un passato mussoliniano, con estorsioni e con
saccheggi, sicuramente arbitrari ma con qualche parvenza di
legalità, di giorno e di notte. Talora faceva l’inventario di
parte del maltolto, in assenza del proprietario, e rilasciava
qualche ricevuta. Insomma, era un fuorilegge a metà. Una volta,
arrivò persino a rendere ufficiali i prelievi, imponendo ai
coloni una tassa di lire 60 per ettaro ed indicandone lo scopo,
la ristrutturazione della Biblioteca Comunale. Entrata lire
350.000. La cultura al primo posto! Peccato, che poi si sia
parlato d’appropriazione del denaro incassato. Accusa in parte
falsa, poiché il responsabile primo del Comune e della caserma
distribuiva in più direzioni, all’Ufficio Esattoria, alla GNR,
ai suoi militi, ai fascisti locali con donne partecipanti
all’asporto di merce, ai preti. Comunque fosse, non era
proprio elegante vedere un Sindaco entrare nelle case armato di
mitra ed uscirne soddisfatto.
Nessun dubbio venne al Capo Provincia, Bogazzi,
sicuramente subissato da lettere più o meno anonime. Perplessità
vennero invece al Ferretti stesso, che, trasferitosi il 10
giugno 1944 in una vicina e più importante località, Lugo,
trattenne per sé solo la carica di Comandante del presidio, ma
senza dimenticare gli sperimentati metodi. Altre estorsioni, in
ufficio e fuori. Talora si fingeva partigiano e, se l’altro
abboccava, pretendeva cifre esorbitanti, in cambio di mancata
carcerazione o di deportazione in Germania. A Lugo aveva più
tempo libero, per cui cominciò a dare la caccia ai partigiani,
spesso in collaborazione con i repubblichini di Faenza e di
altri comuni. Se non trovava la persona ricercata, si
accontentava di un famigliare.
Ebbe un bel daffare la Questura di Ravenna,
ad arresto avvenuto (13 gennaio 1946), a stendere gli infiniti
capi d’accusa. Guai anche per la Corte, riunitasi il 20
ottobre del 1946, subissata da richieste d’altre
testimonianze. Per fortuna, altri si erano rassegnati al danno
subito. Vediamo alcune imputazioni, con nomi e cognomi delle
vittime, ma non sempre con indicazioni precise della località
di provenienza:
1) preso come ostaggio il Col. Luigi Peruzzi,
2) arresto di Luigi Mazzotti e saccheggio della di lui casa (a
Bagnacavallo, danno lire 500.000),
3) cattura del comunista Alberto Pirazzini, poi ucciso,
4) ricerche del rag. Tullio Martini e arresto della moglie (a
Bagnacavallo),
5) saccheggio del negozio di due commercianti ebrei, Vittorio ed
Umberto Vita,
6) ricerca di Antonio Belloni e cattura del fratello Francesco,
con estorsione di lire 40mila,
7) cattura di Domenico Savorelli perché ascoltava le
comunicazioni inglesi e sequestro dell’apparecchio
radiofonico,
8) appropriazione di lire 100mila versate dai cittadini (di
Bagnacavallo?),
9) estorsione di lire 25mila ad Achille Belloni,
10) cattura di Angelo Poggi,
11) estorsione di lire 100mila ai coloni lughesi,
12) saccheggio casa Bartolotti,
13) partecipazione ai fatti del Palazzone,
14) come sopra, per Voltana,
15) diretto un rastrellamento a Faenza,
16) estorsione ai danni di Roberto Botti, lire 30.000,
17) come sopra, lire 5mila a Tommaso Ravagli,
18) violenze a Alfredo Porisini,
18) sequestro del fucile da caccia a Gino Guerrini ( Villanova
sul Lamone),
19) come sopra, a Guido Lorenzi,
20) cattura e soppressione di Domenico Bisca.
L’imputato negò tutto, tranne il
prelievo di denaro agli industriali e agli agricoltori, che, però,
non aveva tenuto per sé. Poi sfilarono i testi. Mazzotti
raccontò la sua storia. Non voleva iscriversi al partito e il
Ferretti disse: “Farò in modo che tu resti molto tempo in
prigione, così via tutto, anche la casa”.
Testimoni contro:
I fratelli Vita
aggiunsero che fu fatto sì l’inventario, ma a metà del
saccheggio, dopo che il Ferretti stesso, in compagnia di una
donna, aveva prelevato più volte, servendosi di valigie, ogni
ben di Dio. Belloni testimoniò sulla beffa del finto
partigiano, costata lire 40mila in cambio della vita. Tale
Silvio Staffa confermò la partecipazione al rastrellamento di
Conselice, dove fu ucciso Brini.
Il Ridolfi, un camerata, quando il 15 settembre 1944 furono
trucidati i Bartolotti,ricordò che il Capitano Ferretti mandò
i militi a svuotare la casa degli assassinati.
Da ultimo, parlarono i testimoni a favore.
Giuseppe Melandri (di Bagnacavallo) assicurò che in quel
periodo erano entrati in Municipio più soldi del solito e due
sacerdoti, don Giulio Ridolfi e don Rambelli, di avere ricevuto
aiuti da destinare all’assistenza.
A parte i reati più gravi, era evidente per la
Corte che gli ordini di prelievo erano illegittimi e che il
primo scopo, pure cadenzato da qualche lodevole azione,
consisteva nel lucro personale e dei camerati. Pertanto, essendo
il lucro ostativo alla concessione dell’amnistia, il Ferretti
era meritevole d’anni 18 di reclusione. Quindi, viste
le attenuanti, la pena fu ridotta a 15 e, concedendo il
condono di un terzo, previsto dalla legge d’amnistia, si
ridussero altri 5 anni. Pena da scontare, anni 10,
con l’aggiunta del sequestro del 50% dei beni.
La Cassazione, maggio 1947, trasferirà il fascicolo a Modena,
per un nuovo processo. (?)
Sciottola
Gaetano Ruggero
di Cosimo e Leone Angela, nato a Ravenna alla fine del 1925
Contro di lui pendevano tre capi di
imputazione.
1) Aver partecipato al rastrellamento del Palazzone
(ironia della sorte, va ribadito, diretto dal Col. Anzalone, con
tedeschi, militi della GNR, Carabinieri, Alpini e Agenti di PS).
Partecipazione non generica, poiché, viste le deposizioni di
due camerati, Pirazzoli Guerrino e Cattani Carlo, Sciottola sarebbe
stato tra i componenti del plotone di esecuzione che fucilò 8
partigiani catturati,
2) Avere sparato, per uccidere, contro Salti Luigi il 31 gennaio
del 1944, in via Girolamo Rossi. Una ronda fascista entra in
osteria, chiede i documenti e perquisisce. Il Salti cerca di
svicolare. Partono dei colpi che lo raggiungono. Ferite da
pistola calibro 12, lo stesso in dotazione a Sciottola (quali le
pistole degli altri militi?).
3) Concorso nell'omicidio di Romolo Ricci che era stato ucciso
il 3 maggio del 1944 nel Borgo S. Rocco. Al rapporto della
Questura su questo assassinio aveva contribuito anche il
Colonnello dei Carabinieri Anzalone (colui che aveva diretto il
rastrellamento italo-tedesco del Palazzone di Fusignano!!).
Sciottola fu condannato a 30 anni di
reclusione e a quattro di libertà vigilata con sentenza del
18/06/1946 n. 101.
Con sentenza 13.9.48 la Corte d’Appello di Bologna ha
dichiarato condonati nei confronti dello Sciottola, anni
10 per il decreto 22.6.46 n.4 ed altri anni 10 in data
9.2.48 n.32, determinando la pena residua ad anni 10.
Estratto conforme per uso di liberazione condizionale.
Poi con declaratoria 27.2.50 della Corte d’Appello a favore
dello Sciottola, fu dichiarato ulteriormente condonato un
anno di reclusione della pena inflitta allo Sciottola.
Concessa liberazione condizionale e sottoposto a libertà
vigilata con decreto del giudice di sorveglianza di Ravenna del
6.4.51 fino al 29.8.52. Con decreto del Tribunale di Ravenna in
data 28.11.52 fu dichiarata estinta la pena inflitta allo
Sciottola e revocata la misura di sicurezza della libertà
vigilata e le altre misure di sicurezza personali ordinate in
sentenza.
Della
Cava Giovanni
di Angelo e fu Barbara Callegati, nato e residente a Lugo,
classe 1912
Fu imputato dei seguenti fatti.
1) Rastrellamento del Palazzone
2) Eccidio della famiglia Baffé e Foletti di Massalombarda,
3) Eccidio della famiglia Bartolotti,
4) Uccisione di Carlo Landi,
5) Estorsione di lire 200.000 in danno dei fratelli Baldrati di
Lugo. Egli riconobbe solo la presenza al Palazzone, impegnato ad
allontanare le donne di Fusignano che reclamavano i loro mariti,
e di avere ricevuto dal Comando lire 21.000 (soldi Baldrati) per
sfollare al nord. Testimoni contro: la nota Sandrina Valenti (ex
amante del Ricciputi Angelo), sempre precisa anche quando non
godeva della simpatia dei Giudici, lo collocò tra i
rastrellatori del Palazzone; Leopoldo Baldrati: “Fu
lui” ad ordinargli di presentarsi al Partito (conoscendo lo
scopo); Anna Capucci ricordava i complimenti del Ferruzzi
al Della Cava per l’abilità nello scoprire il rifugio dei
Baffè e Foletti; Mario Caravita, mentre si trovava dal
maniscalco a circa 500 metri dalla casa del Bartolotti, vide
passare una “Topolino” con tre brigatisti armati di mitra,
tra cui il Della Cava, dopo 15 minuti udì degli spari e dopo
un’ora seppe dell’impiccagione sopra il Ponte di Ca’ di
Lugo; Luigi Tanelli e Lando Valenti raccontarono che il
Lando era stato ucciso dal Reggi alla presenza dell’imputato.
Non fu dimostrato che il Della Cava avesse materialmente ucciso
nelle “macabre” operazioni.
Con sentenza del 23/04/1946 il tribunale lo giudica colpevole
dei reati ascrittigli e perciò condannò il Della Cava a
20 anni di reclusione, alle spese processuali e alle altre
conseguenze di legge. Ordinò la confisca della metà dei beni
del condannato.
Giacometti
Clemente
di Luigi e di Domenica Giansteni, nato a Lugo nel 1920,
apparentemente detenuto.
Fu imputato dei seguenti fatti:
1) Rastrellamento del Palazzone;
2) Cattura e uccisione di Orsini Aristide e Luciano;
3) Cattura e uccisione Gaudenzi, Zirardini e Lolli (in
Ravenna);
4) Rastrellamento a Voltana (con molte uccisioni)
5) Rapina alla Banca d’Italia di Lugo (lire un milione e
seicentomila)
6) Estorsione in danno di Pietro Stefanini (lire 200 mila)
7) Uccisione di Carlo Landi (26-10-44)
8) Eccidio famiglia Bartolotti
9) Cattura di Giovanni Montanari (anni 17, barbiere)
successivamente ucciso
10) Uccisione di Isola Alfiero (anni 30, tipografo)
11) Violenze alla famiglia di Reggi Ilo e sequestro di una radio.
12) Arbitrario sequestro di gomme per auto ai fratelli Minardi.
Il Giacometti, a differenza del Della Cava, ammise qualcosa di
più: il rastrellamento di Voltana, l’arresto degli Orsini e
di altri tre e una perquisizione in danno di Minardi. Testimoni
contro: Guerrino Pirazzoli lo indicò tra i partecipanti al
Palazzone; Gallignani Renzo, Ricci Emma e Ravaioli Alfredo
dissero che negli omicidi degli Orsini non era stato modesto il
suo ruolo. Un certo Guido dichiarò che il Giacometti stesso gli
aveva confessato la sua partecipazione alla strage Bartolotti;
Lippi Pompeo lo vide diritto sul camion che ritornava dal
rastrellamento di Lugo; i derubati, vivi, non ebbero dubbi. I
famigliari dei trucidati non esclusero che egli fosse stato tra
gli aguzzini.
Per le altre imputazioni ciò che emerse non era molto
convincente.
La Corte (23 aprile 1946, Presidente il Vicchi) fu più pesante
con il Giacometti, “violento e sanguinario”, collaboratore,
correo in molti crimini, esecutore materiale in alcuni omicidi.
Fu condannato ad anni 30, alle spese processuali e alle
altre conseguenze di legge, con la confisca della metà dei beni
del condannato. ll fascicolo termina qui.
Come andò
a finire il
capo della provincia di Ravenna,
il dottor
Franco Bogazzi,
fu Federico
e di Vannucci Adelaide, nato l’8 marzo 1908 a Carrara, residente a
Verona, medico chirurgo,
che dispose
l’operazione di polizia del Palazzone e Zanchetta
Queste erano le
imputazioni della Questura di Ravenna, ma il processo si svolse a
Verona. Perché?
1) stretta
collaborazione con comandi tedeschi,
2) attiva opera di
propaganda,
3) azioni di rastrellamento e di persecuzione,
4) responsabilità nella fucilazione di tre persone, Livio Rossi, Romolo
Cani e Armando Marangoni, avvenute l’11 febbraio 1944,
5) organizzazione del rastrellamento del “Palazzone” e
conseguente uccisione di otto patrioti,
6) cattura del Generale di Corpo d’Armata, Raul Chiariotti.
Verona era stata la
città simbolo del secondo fascismo. Lì si era svolto il raduno per
battezzare la nascita del neonato movimento, il Partito Fascista
Repubblicano. In questa area si erano concentrati non solo i capi
assoluti del regime, ma anche, chiamati o convenuti spontaneamente,
burocrati, ufficiali dei vari corpi, dirigenti delle province liberate
dagli alleati, fascisti delle numerose strutture soppresse, ex
profittatori, collaborazionisti, spie, fuggiaschi generici in cerca di
sicurezza e di quiete. Intenso e costante fu il flusso immigratorio,
prima e dopo liberazione di Roma e della Toscana. Esso non
s’interruppe mai, neppure sotto i bombardamenti della città stessa.
Un fenomeno però abbastanza ordinato, in genere programmato dalle
autorità locali, su cui pesava il compito di ospitare migliaia di
militi e dei loro famigliari. Tra questi, dall’estate del 1944, anche
i fascisti romagnoli.
A riceverli, una
vecchia conoscenza,
Franco Bogazzi. Il Bogazzi, toscano
di Carrara, veniva dal vecchio partito fascista, come componente del
Consiglio nazionale. Nell’aprile del 1944 era il Capo Provincia di
Ravenna, nominato il 25 ottobre 1943, in sostituzione del Prefetto
Rapisarda Salvatore, collocato a disposizione a due mesi dalla nomina
(conferitagli dal Governo Badoglio). Fu poi promosso con analogo incarico nella sede più prestigiosa di Verona,
dove rimarrà fino alla liberazione. Sempre
al suo fianco il vice Questore Arturo Neri, da lui chiamato da Genova,
ed Emilio Valcurone, responsabile stampa del fascismo ravennate e poi di
quello veronese, già processato in stato di latitanza nella prima
udienza della Corte Straordinaria di Ravenna. Un camerata, un complice
ed un amico il Valcurone, forse fuggito sulle Alpi in compagnia del
Bogazzi stesso.
Bogazzi aveva Lasciato
Ravenna, nel maggio del 1944, dopo otto mesi di permanenza, sostituito
da Emilio Grazioli, e raggiunse Verona, ove trascorse gli ultimi 11 mesi
di guerra, occupando il posto di Pietro Cosmin, dirottato alla
prefettura di Venezia. Più fortunato o più furbo dei colleghi e del
suo superiore diretto,
Bogazzi il 24 aprile del 1945, dopo avere svuotato le casse dello Stato,
svaligiando in sequenza Banca d'Italia, Banco di Roma e Banca Nazionale
del Lavoro, e in auto e sotto protezione tedesca guadagnò le montagne
del Trentino e dell’Alto Adige, rendendosi irreperibile per mesi e
anni.
Per sé il Bogazzi si era
preso oltre cinque milioni, dimenticando gli spiccioli nel
cassetto, forse nell’affanno della fuga. Sua anche la firma che
ordinava, nelle stesse ore, la consegna immediata di 25 milioni al
Colonnello Galliano Bruschelli, Comandante Militare provinciale e della
GNR. Incasso arbitrario e non giustificato da compensi dovuti, ma reso
possibile da un reparto armato della GNR.
Fin dall’agosto del
1945 contro Bogazzi si era attivata la Questura di Ravenna.
Trascorsero mesi senza
che da Verona giungesse documentazione alcuna, relativa ad eventuali
crimini perpetrati colà.
Solo nel marzo del 1946
si mise in moto la locale Prefettura di Verona, con un rapporto
sulle attività del Bogazzi, cui fece seguito una pronta richiesta di
celebrare il processo sulle rive dell’Adige, ove si era conclusa
l’attività criminosa del Capo Provincia.
Secondo diritto, giusto e naturale, se a Verona si fossero verificati
fatti di particolare gravità. Ma così non era. Contro Bogazzi a Verona: nessun fatto di sangue, nessun
rastrellamento, nessun arresto e fucilazione di partigiani, nessuna
collaborazione coi tedeschi, nessun invio di italiani in Germania,
nessuna deportazione di ebrei, ecc. Incredibile.
Improvvisamente la città
chiave del regime veniva presentata come una meta turistica di sfollati,
vissuta per 11 mesi sotto la saggia tutela del Prefetto, che,
sventuratamente, alla vigilia della liberazione (il 24 aprile) era stato
colto da un raptus, con il prelievo forzato del denaro della Tesoreria,
svaligiando la Banca d’Italia, il Banco di Roma e la Banca Nazionale
del Lavoro. Somme consistenti, in parte destinate all’alimentazione
della popolazione o soccorso dei danneggiati dalle offese aeree.
Comunque con un
simile capo di imputazione, la competenza a giudicare sarebbe toccata a
Ravenna, ma ciò non accadde. Cedimento dopo contenzioso? Non è chiaro.
Emerge invece che la Corte d’Assise di Verona, non paga di avere
ottenuto il caso, attenderà altri 12 mesi prima di celebrare il
processo contro il latitante Bogazzi, mettendolo in calendario per il 15
marzo del 1947, termine ultimo per le Corti d’Assise, straordinarie o
speciali. Casuale?
Vediamo i fatti.
A Faenza, l’8 febbraio
1944 era stato ucciso un allievo della Scuola Ufficiali, Ariosto Macola.
Due giorni dopo, nella notte tra il 10 e l’11 febbraio, si era riunito
il locale Tribunale Speciale, che rapidamente aveva concluso i lavori
con tre condanne a morte (Rossi, Cani e Marangoni) e due alla
reclusione, Edgardo Bezzi ad anni 30 e Mario Casadei ad anni 24, tutti
imputati di sovvertimento dell’ordine pubblico e di concorso diretto
od indiretto nell’omicidio del Macola. Poche ore dopo, le
esecuzioni.
Quali le colpe del Bogazzi? 1) Il 10 febbraio, il Capo di Gabinetto della Prefettura, il
dottor Passananti, si era precipitato nell’ufficio del superiore, il
Bogazzi, per mostrargli un telegramma urgentissimo inviato dal Ministro
dell’Interno, il Buffarini Guidi. In esso si ordinava l’immediata
sospensione dei Tribunali Speciali locali e il trasferimento delle
competenze a quello regionale. Naturale, quindi, la conseguente
richiesta del funzionario di intervenire per via telegrafica, onde
bloccare ogni procedimento in corso. Ma con “affettata indifferenza”
così rispose il Capo Provincia: “Ebbene, questo telegramma
potrebbe anche essere arrivato domani”. Infine, solo per le
insistenze del Passananti si procedette per le normali vie postali. Un
ritardo che costò la vita a tre giovani.Pigrizia o
corresponsabilità cosciente? Non ci sono dubbi. Basta riflettere su quel “domani”, unicamente
spiegabile con la conoscenza di quanto stava per succedere nella notte a
Faenza.
Ma la Corte di Verona (Presidente il dottor Giuseppe Girotto) fu
di diverso avviso. Insufficienza di prove. Motivazione:
l’indomani, il Bogazzi, quando aveva saputo delle fucilazioni, si era
dimostrato “sorpreso e preoccupato per l’accaduto”, come recitava
la testimonianza del suo più stretto collaboratore, il citato Valcurone,
mai indicato in sentenza per le sue specifiche funzioni. Del resto, se
il Bogazzi veniva accreditato come uomo “non fazioso”, perché
dubitare del suo collaboratore, già direttore de “La Santa
Milizia”, già condannato a Ravenna per fanatismo, odio ed esaltazione
delle repressioni.
2) La vicenda del
Palazzone di Fusignano (23 aprile 1944). Decine di processi
celebrati a Ravenna avevano già chiarito tutto, dinamica e
responsabilità italo- tedesche. Ma la Corte di Verona, capovolgendo
ogni certezza, dichiarò che “non era il caso
di soffermarsi molto sul cosiddetto rastrellamento di Fusignano”,
giacché era dimostrato (da chi?) la prevalente responsabilità dei
nazisti, cui i nostri avevano offerto qualche reparto “per la
bisogna”. Notare il linguaggio. Fonte di tali assurde tesi fu il Ten.
Col. Santucci, che testimoniò di essere stato spedito sul posto dal
Bogazzi per controllare che i tedeschi non esagerassero. Pertanto:
nessun concorso nell’omicidio degli otto partigiani, non ravvisandosi
vincolo di causalità fisica o psichica nell’accaduto.
3) Il Gen. Chiariotti,
in un giorno imprecisato del gennaio 1944, era stata arrestato a
Palazzolo di Toscana dai fascisti di Casola Valsenio, al comando di
Lino Dall’Osso, e condotto al Carcere di Firenze, con l’accusa di
generico antifascismo. Prosciolto, egli si era dato alla macchia, ma i
fascisti faentini si erano vendicati, colpendo i suoi beni e i parenti.
Poca cosa.
4) Restavano le
imputazioni veronesi: sottrazione di denaro destinato a scopi
assistenziali. Nessuna attenuante e giustificazione, poiché il
motivo non era politico, bensì di lucro personale.
Per concludere. Ad
avviso della Corte (Girotto, Calvelli, Mazzon, Biancotto, Bernardinelli,
Speri Tito e Menegazzi), prima di sentenziare, era opportuno ricostruire
la personalità e i comportamenti quotidiani del Bogazzi.
Uomo rispettoso, rigido nell’adempimento dei doveri, corretto, senza
servilismo. Meno benevolo il giudizio del camerata Pini (Sottosegretario
Ministro Interno di Salò), che così si era espresso nei suoi
confronti: “aspetto pesante, atteggiamenti svagati, espressione
dell’uomo sicuro di sé”.
Lontanissimo da quanto
percepito dai ravennati. A vantaggio del Bogazzi giocavano anche
le onorificenze fasciste guadagnate in Spagna, due medaglie d’argento
e due Croci di guerra, dovute “all’eroico e generoso
comportamento” quale ufficiale medico in servizio accanto alle
Camicie Nere.Sta scritto proprio così.
5) Restava il
collaborazionismo politico-militare con l’invasore tedesco,
indubitabile data la carica rivestita. Un reato non soggetto ad amnistia
per coloro che avevano rivestito “elevate funzioni di direzione civile
e politica o militare”. Il caso del Bogazzi. Nessun problema per la
Corte scaligera, poiché sotto la “repubblica sociale” i
“prefetti” o “capi provincia” (scritti tutti in minuscolo) non
contavano nulla e l’elevata funzione era solo teorica! Poco mancò
che anche la latitanza fosse ritenute teorica.
Pertanto, Franco Bogazzi,
fu Federico e di Vannucci Adelaide, nato l’8 marzo 1908 a Carrara,
residente a Verona, medico chirurgo, ex Capo Provincia di Verona
(saltata Ravenna) incensurato, latitante, fu assolto per le
imputazioni più gravi ed amnistiato per il reato di
collaborazionismo.
Fu condannato
invece ad otto anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai
pubblici uffici per peculato continuato. Nessun condono, come
previsto dalla legge, per il reo in contumacia.
Nella stessa giornata (il
15 marzo 1947), i difensori, Sancassani di Verona e Pezzotta di Bergamo,
presentavano ricorso in Cassazione. Rapido fu il dibattimento di Roma, in
data 21 novembre 1947. Parlarono a favore del Bogazzi, “reduce
della guerra di Spagna”, il relatore Majorano, il difensore Ungaro, il
Sostituto Procuratore Berardi.
La Corte, presieduta da De Ficchy, non ebbe nulla da aggiungere. Eliminò
la formula dubitativa per il concorso in omicidio e tolse il dolo nel
reato di peculato. Infine, concesse ampiamente l’amnistia e il
condono, poiché l’imputato nel frattempo si era fatto arrestare.
Quindi, il Bogazzi sia immediatamente escarcerato. Resta un solo dubbio,
se il dispositivo sia stato comunicato a Verona in giornata, per via
telegrafica o telefonica, o con calma, per vie postali.
Il reduce morirà a Pietra Ligure (Savona) nel dicembre del 1981