La vita gioiosa e avventurosa delle panchine alfonsinesi incomincia con questa domanda:
'Ma negli anni cinquanta c’erano già
le panchine in Corso Matteotti?' Confesso la mia ignoranza: non lo so. Non lo so,
ma immagino che i nostri genitori fossero troppo indaffarati con la ricostruzione postbellica e che non avessero troppo tempo per
oziare sulle panchine. Negli anni sessanta c’erano di sicuro. Anzi, se
ben ricordo, Corso Matteotti era tutto un viavai di biciclette, motorini
ed utilitarie fiammeggianti come draghi.
Le panchine erano una specie di
tribuna d’onore o, per meglio dire, l’osservatorio astronomico
perfetto per lo studio e la contemplazione del mondo. Sulle panchine
c’era di tutto. C’erano quelli che volevano cambiare il mondo e
c’erano quelli che in questo mondo volevano fare i signori. C’erano
quelli che sognavano di lavorare alla Marini e c’erano quelli che
studiavano da dottore, da tornitore o da impiegato comunale. Sulle
panchine c’era di tutto, ma tutto rigorosamente al maschile. Di femmine
neanche l’ombra. Le ragazze stavano sull’uscio di casa, ed era lì che
bisognava andare per filare. Le ragazze potevano al massimo pedalare in
gruppo sui viali, ma sedersi sulle panchine proprio no, neanche per
mangiare un innocente gelatino. Il perbenismo cattolico e il perbenismo
comunista erano allora davvero implacabili. Non era facile ribellarsi a
questo andazzo, e farlo voleva dire provocare una lacerazione nel tessuto
della comunità. Questo negli anni sessanta, ma non è poi che negli
anni settanta le cose siano cambiate più di tanto. I motorini passavano e
ripassavano davanti alle panchine, le “cinquecento” e le
“giuliette” facevano altrettanto. E tutti sgassavano e sgassavano e
tutto questo sgassare era la cosa più dolce e naturale di questo mondo.
Su argomenti del genere c’è poco da scherzare, anzi, per essere più
precisi, credo proprio che commetterebbe sacrilegio chi osasse definire
rumore il rombo che esce dai motori. Forse per uno straniero questa cosa
può risultare un pochino bizzarra, ma per un romagnolo il rombo del
motore è la sola, unica, autentica ed inimitabile voce di Dio. Nel
dialetto romagnolo mutor e Dio sono sinonimi. Ragion per cui, caro
lettore, chi sgasa la sua vetturetta non è un maleducato, ma soltanto un
bravo mistico intento a pregare Gesù,
la Madonna
e tutti i santi del paradiso.
Il
boom delle panchine di Corso Matteotti, negli anni ‘80
Ma il vero grande boom delle panchine si è avuto nei
primi anni ottanta. Sulle
panchine c’era di tutto e quando dico di tutto intendo proprio dire di
tutto. Intanto c’erano i ragazzi e c’erano anche le ragazze. Tutti
liberi e indipendenti e con una gran voglia di prendere il mondo e di
metterselo in tasca. Passeggiando per Corso Matteotti, era un piacere
sfilare davanti ai punk, ai rocchettari, ai discotecari. Come in una
giostra si poteva passare dalla panchina dei ragazzi della parrocchia a
quella dei patiti del reggae e delle erbe officinali non convenzionali.
Passeggiando per Corso Matteotti, si poteva davvero incontrare di tutto e
in quel di tutto erano ovviamente compresi anche i tanti bravi cittadini
che semplicemente trovavano piacevole trascorrere un po’ di tempo sulle
panchine del loro paese.
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Anno 1960:
le prime panchine ad essere utilizzate da giovani ribelli alfonsinesi non
furono quelle di Corso Matteotti ma del giardino di Piazza Monti:
nella foto da sinistra Luciano Lucci, coperto Oberdan Savioli,
Roberto Montanari, Sergio Manzoni, Pietro Gessi (tagliato a metà) |
Adesso tutto questo è finito, morto e sepolto.
In corso Matteotti non ci sono neanche più le panchine. Per la verità,
tre o quattro sono rimaste, ma sembra una presa in giro. Prima di tutto
sono messe nei posti sbagliati, voltano le spalle alla strada e sono anche
brutte e scomode. Non sapendo
come finire questo scritto, direi che è nell’indifferenza generale che
vanno sempre a finire le storie troppo belle. E forse è giusto così.
Per chi volesse approfondire l’argomento, si
consiglia la lettura di CROSSTOWN TRAFFIC dell’Alfonsinese-Bolognese
Mauro Baldrati, un gran bel romanzo delle ALLORI EDIZIONI che parla
proprio dei sogni e degli incubi di un gruppo di panchinari di provincia.
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Le
panchine sono la più bella isola democratica
di questo pianeta
Qualcuno ricorda quando qualche anno fa il
sindaco di Treviso fece segare tutte le panchine di una piazza
della sua città? E quando poco tempo dopo dei vigili armati di
sega fecero la stessa cosa in Piazza Venezia a Trieste?
A Treviso nessuno ebbe
qualcosa da ridire, a Trieste ci fu invece un po’ di
discussione.
Scrisse allora Beppe
Sebaste su LA REPUBBLICA: “La panchina è l’ultimo simbolo di
un qualcosa che non si compra, di un modo gratuito di trascorrere
il tempo e di mostrarsi in pubblico, di abitare la città. La
panchina è il margine del mondo, vacanza di chi non va in
vacanza, ma anche il posto ideale per osservare quello che accade:
ovunque sia è il centro dell’universo”.
Le migliori sono quelle
verdi a onda, di legno, oggi in via di estinzione. Le uniche
capaci di sopportare beatamente il peso di un cartello con la
scritta “vernice fresca”.
Ma come può venire in
mente a qualcuno di segare le panchine? Domanda retorica:
nell’Italia del terzo millennio succede anche questo. Dice
Claudio Magris, “le panchine sono quelle cose dove quasi
tutti, grazie a Dio, abbiamo passato momenti felici, e non certo
in compagnia di assessori o scrittori”.
In
les amoureux des bancs publics Georges Brassens dice: “le
panchine verdi non sono lì per gli invalidi e i pancioni, ma per
accogliere temporaneamente gli amori esordienti”.
Le
panchine sono il posto giusto, e sempre in prima fila, per
contemplare lo spettacolo del mondo.
E poi sulle panchine, oltre ai senza fissa
dimora e agli extracomunitari, siedono anche i sognatori, i
vecchi, le mamme con il pancione o il passeggino, per non parlare
degli studenti, dei disoccupati, degli sfaccendati e degli
innamorati. Le panchine sono la più bella isola democratica di
questo pianeta, un posto per cittadini e non per clienti o
consumatori. Ma noi oggi ci divertiamo a mangiare senza fame e a
bere senza sete, e per certi lussi non abbiamo più tempo. |
Nei
libri e al cinema
Nasce su una panchina il Primo amore del
romanzo d’esordio di Samuel Beckett, si chiude su una panchina
l’amore che Dostoevskij racconta ne le notti bianche. È su una
panchina che si incontrano Bouvard e Pecuchet di Flaubert, ed è
su una panchina che si svolge uno dei racconti più esilaranti di
Thomas Benhard. E poi c’è La panchina della desolazione di
Henry James, senza dimenticare il Marcovaldo di Italo Calvino. Ma
il capolavoro umano della poetica delle panchine lo scrisse
Georges Simenon in Maigret e l’uomo della panchina, noto ai
lettori come l’uomo dalle scarpe gialle. Anche il cinema è
pieno di panchine. Forrest gump racconta la sua storia seduto su
una panchina mentre aspetta l’autobus.
Storica la scena in cui Stanlio, seduto su
una panchina con Ollio, è confuso per aver compiuto più azioni
“aiutato” da braccia nascoste che sbucano dalla siepe alle sue
spalle. Ne La venticinquesima ora di Spike Lee, Edward Morton
passa le ultime ore prima della prigione sognando un’altra
chance nella New York post 11 settembre. C’è una gioiosa
panchina nel parco in cui si incrociano i destini dei futuri sposi
(e dei loro cani) ne La carica dei101. E poi, a pensarci bene, la
serie televisiva Friends (un bar di Manhattan che si alterna a un
appartamento) non è forse anche una grande metafora delle
panchine pubbliche? Indimenticabile poi la panchina di Sutton
Place che Woody Allen ha immortalato in Manhattan, dove lo si vede
in smoking seduto di schiena ad aspettare l’alba con Diane
Keaton sotto Queensborough Bridge, ammirando come il viandante del
romantico Friederich non le Alpi ghiacciate, ma lo skyline di New
York. |
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