Alfonsine


| Ricerche sull'anima di Alfonsine

 

 

Quijdlamarini

(storie della "fabbrica dei sogni" di Alfonsine)

(pagina in costruzione)

 

Introduzione

Il titolo "Quijdlamarini" vuole indicare tutti coloro che in un modo o nell'altro hanno avuto a che fare con la fabbrica di Alfonsine "Officina Meccanica Marini": quelli della "Marini".

Nel sottotitolo si è voluto introdurre il termine "la fabbrica dei sogni" come se varcando quel cancello d'ingresso in via Roma si avesse l'impressione di entrare in un sogno. Quasi fosse "Cinecittà", e tutto fosse come un film. 

Palazzo "Marini"                                                                            L'insegna con la G di "Giuseppe"

 

Il cancello d'ingresso alla fabbrica "Marini" dagli anni '30 agli anni '60

Ancora oggi il solo evocare quel nome "la fabrica d'Marini" ci riporta a un mondo fantastico, fatto di speranze e illusioni, di passioni, entusiasmo e di grandi professionalità. La Marini fu il luogo dove per gli alfonsinesi tutto era possibile, come uscire dal destino di poter essere solo contadini perché figli di contadini. 

Era raggiunto il sogno: diventare operai. 
E iniziare una vita con la possibilità di salire sempre più su: di reparto in reparto, specializzandosi qua e là, e imparare qualcosa di nuovo.

Una favola, accompagnata da una musica indimenticabile, come "e fisciò" la sirena che scandiva le entrate e le uscite dalla fabbrica.

I racconti che arrivavano a chi era di fuori sembravano come uscire da un film: storie di tutti i tipi, da far ridere, o da far incavolare, da mitizzare o da nascondere.

In queste pagine proveremo a ricostruire quel film.


L'inizio della storia

Giuseppe Marini, il fondatore dell'azienda Marini, poté rendersi conto delle possibilità (e delle necessità) connesse alla produzione di macchine per i lavori stradali proprio in relazione alle difficoltà che i corridori della sua squadra da competizioni sportive "Moto Marini" trovavano nel percorrere a tutta velocità strade non asfaltate, polverose e piene di buche. 

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«Circuito dei Tre Monti» di Imola, 1926. 
Il pilota Virgilio Finessi, in sella alla “Marini Super Sport”, 125 cc. dopo la vittoria, e il costruttore Giuseppe Marini (1884-1945)

Giuseppe Marini ebbe anche modo di osservare, nella seconda metà degli anni Venti, i lavori di asfaltatura che la ditta Puricelli eseguiva sulla «Reale», cioè la Statale 16 che attraversa Alfonsine: tutto veniva eseguito a mano, tranne che per l'uso del rullo compressore a vapore, il cui operatore, definito «rullista», viveva in una sorta di caravan che seguiva lo spostarsi del cantiere. Si impiegavano cavalli per il traino delle cisterne dell'acqua che doveva servire per bagnare la polvere; gli operai spargevano l'emulsione bituminosa con annaffiatoi, secchi, scope e spazzoloni. Il tutto, dunque, avveniva con sistemi lenti, faticosi e rudimentali. 

Alle soglie del 1929

Alle soglie del '29, anno della grande crisi economica, la ditta Marini si buttò nella costruzione di altre macchine, quelle per la costruzione di strade. Era accaduto che simili prototipi erano già apparsi sulla scena artigianale, ma agli occhi di quel geniale meccanico, erano lenti ed imperfetti e lui già vedeva come porre rimedio per migliorarli.

Per questo motivo, egli si appassionò, cominciando a trasformare ad uso industriale i motori prodotti dall'azienda, applicandoli alle prime macchine per la manutenzione stradale e registrando una gran quantità di brevetti (alla fine degli anni Venti, Marini possedeva ben 32 brevetti in questo campo). 

Giuseppe Marini sopra una delle sue moto in piazza Monti davanti alla sua casa. Anno 1923: il ragazzino con la maglia a strisce è Antonio Grilli, babbo della prof. Angela Grilli, che diventò uno dei primi operai della fabbrica Marini.

 

La realizzazione di questa  serie di brevetti coincise con la decisione di abbandonare la produzione delle moto che pure tanta soddisfazione gli aveva dato. 

Gli operai impararono a costruire i nuovi prodotti

Negli anni ’30 costruì un primo prototipo di macchina asfaltatrice che ebbe un immediato successo. 

La prima applicazione riguardò una "spruzzatrice" di emulsione bituminosa, che utilizzava la pressione dell'aria. A questo scopo tu realizzato un serbatoio di forma parallelepipedo, che però, sottoposto a pressione interna, tendeva a deformarsi; fu così modificato in forma cilindrica. Questa prima spruzzatrice è stata, con le ovvie modifiche, in produzione fino agli anni Ottanta. 

Nell'immagine seguente si vede Giuseppe Marini (qui era già la Ditta Marini) che stava rifacendo quel manto con le sue nuove tecnologie, come prova dimostrativa alla Ditta Puricelli.

Questa fu la prima macchina stradale che fu venduta nel 1930 alla ditta Puricelli che asfaltava la strada statale 16 Ferrara- Ravenna: era un rullo a vapore con emulsione con acqua.

 

Il quarto da destra potrebbe essere Giuseppe Marini che spiega a Puricelli il funzionamento della nuova macchina stradale.

Era già il secondo stadio dell'evoluzione, in quanto la macchina, che ancora negli anni '60 gli operai chiamavano "2 botti", era un'emulsionatrice, mentre il primo tentativo di asfaltare la reale veniva fatto con la stadia (staza).


Le prove della spruzzatrice "Marini" in corso Garibaldi ad Alfonsine. 
A sinistra il palazzo Lugaresi-Camanzi

Nel 1936 la Ditta Marini partecipò ad esposizioni importanti 
a Milano ed in Eritrea.

Da lì a poco sviluppò la produzione di queste macchine stradali che ebbero grande successo, stante anche la necessità di coprire le bianche strade attraversavano l'Italia, alla luce della diffusione delle prime automobili. Fu presente alla Fiera di Tripoli, e ottenne appalti per la costruzione di strade asfaltate sia in Italia che all’estero, tramite l’A.N.A.S.. La genialità di Giuseppe Marini migliorò ulteriormente i suoi prototipi, tanto che il suo nome divenne sinonimo più di macchine per far strade che di motociclette.  


Macchine Marini in una Fiera
a Milano degli anni '30

 


Macchine "Marini" alla Fiera di Tripoli 

 

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I primi operai

Nel 1941 c’erano circa 40 addetti all'Officina Marini

Giuseppe Marini (Titolare)
Maria Carolina (Carlina moglie di Giuseppe Marini) riparatrice macchine da cucire.

  1. Luigi Masetti (disegnatore e capo ufficio)

  2. Cesare Tazzari (Cesare di Mignacco) uomo forte della prima officina costruiva i telai e li saldava

  3. Adriano Minguzzi montaggio

  4. Gigiòt, (Luigi Calderoni) aggiustatore (dopo la 2° guerra divenne capo officina)

  5. Mario Dari montaggio e centratura ruote, magazziniere.

  6. Aldo Randi (Paveli) classe 1904, babbo di Allegro, era addetto alla limatura e finitura dopo la saldatura.

  7. Bruno Graziani addetto alla costruzione telai (padre di Franco Graziani)

  8. Giovanni Martini tornitore

  9. Ugo Casali aggiustatore e saldatore

  10. Mario Ballardini tornitore e rettificatore

  11. Giuseppe Bonsi (Lucamò, babbo di Walter) montatore e aggiustatore biciclette)

  12. Walter Bonsi (chitara) tornitore

  13. Muntagna

  14. Antonio Geminiani (Trappola) aggiustatore

  15. Antonio Grilli aggiustatore (babbo professoressa Grilli)

  16. Antonio Galvani (Totò) (marito Venusta Dradi) assunto nel 1943

  17. Gino Cantoni tornitore

  18. Domiziano Manzoli riparatore biciclette

  19. Luigi Bruni verniciatura e "cottura" dei telai verniciati

  20. Alberto Zorzi nichelatura parti bici e motori

  21. Mario Beltrami tornitore

  22. Cesare Morigi lucidatura mobili 

  23. Gennari Domenico (Pirmarea)

  24. Minguzzi Antonio (e Pinai), babbo del geom. Cecco

  25. Clemente Baldasseroni, (babbo della Marta e di Vittorio)

  26. Antonio Tarroni (Tugnaz) classe 1915, abitava alla Tosca

  27. Giuseppe Tarroni (Ino) uno dei primi operai, capo reparto aggiustatori, (babbo di Vittorio).

  28. Ragazzi di bottega:

  29. Manghesi

  30. Sergio Capucci, aggiustatore

  31. Stefano Guerrini

  32. Ugo Antonellini (aviator)

  33. Domenico Masetti figlio di Luigi Masetti e babbo di Giuseppe Masetti

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Assunti verso la fine anni trenta e 
nei primi anni '40

  1. Antonio Cortesi (Tonino) - babbo di Ugo - assunto fra il 1941 e 1942

  2. Secondo Guerrini (Teatar)

  3. "Bacello" (Minguzzi), fratello di "Pinai" Antonio, babbo di "Cecco"

  4. Ruboti (Montanari)

  5. Fenati "Baffò" (babbo di Leo)

  6. Gigiò (Santoni)

  7. Costanzo Faccani (Pacone), classe 1925

  8. Marino de Tito (Margotti)

  9. Pattuelli (e gagg)

  10. Gaetano Mercatelli (Ninela), babbo di Laura Mercatelli, classe 1923

  11. Angelo Contessi (Angiuloni), fratello di Giacomo

  12. Giacomo Contessi (Fariné), fratello di Angelo

  13. Nello Minguzzi (tornitore) classe 1924. Assunto il 15 aprile del 1939, lavorò per 3 anni e 6 mesi poi partì militare e ricominciò il 23 novembre del 1946. Lavorò alla Marini fino alla pensione.

  14. Domenico Folicaldi (La pizerda)

Una befana del 1942 per gli operai della Marini

Da una testimonianza diretta:

Nel 1943 arrivò da Messina la famiglia di Pierpaolo Mazzotti che si sistemò nella casa vicino a quella dove era sfollato Giuseppe Marini e dove viveva la figlia Marina sposata a Fausto Vecchi con la figlia Annamaria che sposerà poi l’ingegner Zaffagnini.

Il Mazzotti ebbe così modo di conoscere Giuseppe Marini.

 

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Dalla caduta del fascismo alla guerra

Alla caduta del fascismo Giuseppe Marini continuò la sua attività in fabbrica. Ma la guerra e i bombardamenti impedirono lo sviluppo della produzione.

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Durante l’occupazione tedesca operò con l’organizzazione TODT in attività che l’esercito tedesco richiedeva, e che non potevano essere rifiutate. Il lavoro con la “Todt” in Italia, e anche ad Alfonsine, fu per molte persone una vera fortuna, in quanto lavorando lì non sarebbero state deportate in Germania.  
La TODT  una struttura fondata dall’ingegnere tedesco Fritz Todt e dall'architetto Albert Speer, che gestiva servizi per l’esercito in Germania, e che durante le varie guerre estese questa attività in tutte le nazioni occupate.  

La fabbrica Marini fu messa così a disposizione della Todt italo-tedesca che diede supporto logistico all’esercito tedesco. 

Gli operai sotto la Marini furono salvaguardati dalle deportazioni in Germania.

Alcune macchine vennero chiamate V1 e V2: erano piccole macchine di pietrischetto bitumato.

Con la guerra la fabbrica viene spogliata e molti macchinari inviati in Germania. 

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Ma preventivamente i Marini ne avevano seppellite diverse che furono poi recuperate e riutilizzate per riavviare la produzione nell’immediato dopoguerra.

Giuseppe Marini a liberazione avvenuta cercò di riaprire la fabbrica. 

Ebbe la richiesta di acquisizione da parte di una cooperativa di suoi ex-operai, ma rifiutò di vendere.

Non risulta che Giuseppe Marini aderisse alla RSI.

L'esecuzione di Giuseppe Marini, 

dei due fratelli Santoni e di Stefano Mingazzi

La sera del 5 maggio 1945 Giuseppe Marini, padre di Marino e di Roberto, mentre era in casa con la moglie Carolina (la Carlina) e tutta la famiglia, fu prelevato dalla “Polizia ausiliaria partigiana” per ‘essere portato in Questura a Ravenna’ (così dissero i tre che si presentarono armati e in divisa a casa Marini in via Roma). Fatto scomparire insieme ad altri tre, furono ritrovati assassinati con un colpo di pistola alla nuca solo nel 1961, in un campo al Passetto, vicino ad Alfonsine.

Su tutte le persone di Alfonsine "fatte scomparire" alla fine della guerra, per non volerne dare ‘ufficialmente’ le motivazioni giustificative, si è imposta fin da subito un’obliosa memoria storica, integrata però da una narrazione comunque divulgata che ha esageratamente demonizzato le persone colpite, per poter inculcare nella gente della comunità alfonsinese, che quelle esecuzioni, se pur sommarie, erano giustificabili. 

Così per Giuseppe Marini l’accusa fatta girare ad arte, e che ancora viene tramandata da molti che l’hanno decisamente fatta propria e tutt’ora gira, è stata di essere stato filonazista e di aver mandato, obbligandoli, giovani operai nel cosiddettoBattaglione di volontari’ che operò in Africa. 

La prima accusa si basa sul fatto che la fabbrica Marini fu utilizzata dalla Todt, e quindi anche Marini poté essere considerato ‘collaborazionista' dalla “Commissione di epurazione dai fascisti” istituita anche ad Alfonsine negli immediati giorni seguenti alla liberazione. 

Poi qualcuno ha fatto girare la voce che sarebbe stato sentito pronunciare la frase “Il fascismo è stata una buffonata in confronto al nazismo”, frase che se anche fosse stata pronunciata la potrebbe dire chiunque altro, a tutt’oggi, senza per questo dover essere accusato di filonazismo. 

La seconda accusa (cioè la questione del Battaglione di volontari che operò in Africa) non è chiara ma si è sentita più di una volta in giro, e ciò significa che la si è usata proprio per convincere la gente ad addebitare un’altra colpa al Marini. 

Si sa che il cosiddetto "Battaglione" era fatto di volontari e chi ci andava era un fascista o un avventuriero o un giovane che sperava di fare fortuna in qualche modo, comunque un volontario, e non obbligato da nessuno. 

Sulla questione della Todt basterà citare il caso Valletta direttore della Fiat che fu destituito a Torino nel dopoguerra con l’accusa di collaborazionismo (la fabbrica aveva lavorato per i tedeschi). 

Poi reintegrato perché non sapevano come andare avanti, subì un processo essendo stato deferito dalla Commissione per l’epurazione, e fu assolto. 

Giuseppe Marini avrebbe potuto subire lo stesso percorso, ma gli è stato impedito.

Sarebbe pertanto giusto riabilitarne la figura, (senza per questo farne un 'santino'), se non altro in nome dell’enorme e sproporzionata ingiustizia che dovette subire, sia fisica che morale.   

In ogni caso, dato che i responsabili della sua morte non furono mai ritrovati, l'uccisione restava in parte avvolta dal mistero; certo è che Alfonsine e la Romagna perdevano uno, degli imprenditori meccanici di maggior talento.

Il sequestro di Giuseppe Marini finì con il paralizzare completamente l'azienda. 

Due settimane dopo, una parte degli operai

 ne occupò i locali e si costituì in

 cooperativa, con il beneplacito del CLN.

Contemporaneamente, però, anche i figli dell'imprenditore, Marino e Roberto, presero in mano le redini dell'impresa e fecero uscire la Cooperativa operai dalla loro fabbrica, e ciò consentì di riprendere pieno possesso delle strutture aziendali.

Il rapido fallimento della cooperativa operaia (che intanto aveva provato a continuare l'attività in proprio, in un capannone oltre la via Reale, dopo il Ponte nuovo sul Senio) permise poi di riassumere personale qualificato. 

Nel 1948, poi, esauritesi le speranze di ritrovare Giuseppe Marini in vita, la società fu rifondata dai figli con il nome di "Officina meccanica Marini". 

Solo nei primi anni Cinquanta, grazie alla riavviata produzione di macchine stradali, la ditta poté dirsi sostanzialmente uscita dai lunghi e profondi traumi del conflitto e dell'immediato dopoguerra. 

In quegli anni, le maestranze raggiunsero le ottanta unità, mentre i contatti con importanti clienti garantirono un più elevato numero di commesse. 

A tal proposito, è importante sottolineare come i crediti maturati nei confronti della pubblica amministrazione o di aziende statali potessero essere riscossi in tempi ragionevolmente brevi, anche se "in natura", sotto forma, cioè, di attrezzature belliche dismesse, che potevano essere sfruttate per la componentistica o altrimenti avviate alla fonderia." (tratto dal libro dell'Istituto Storico della Resistenza "L'eredità della guerra a Ravenna- Fonti e interpretazioni per una storia della provincia di Ravenna dal 1940 al 1948”)

Nel 1950  

Lentamente, anche il settore tecnico-produttivo cominciò a riprendere vigore, e ciò coincise con le prime commesse di natura statale. Agli inizi degli anni Cinquanta, infatti, la Marini cominciò a intrecciare o a rafforzare legami con le autorità governative: la costruzione e la vendita del primo impianto per la produzione di conglomerati bituminosi ad un'azienda di Trieste (zona sottoposta al controllo da parte del Governo Militare Alleato, che appaltava anche tutti lavori di manutenzione stradale) immise la Marini nel circuito delle aziende che godevano della fiducia delle autorità. La consapevolezza dell'importanza della commissione coinvolse in quella circostanza l'intero paese. 

Tutta Alfonsine infatti assistette, nella centrale piazza Monti, al lavoro sul voluminosissimo impianto, del quale vennero provati diversi assemblaggi e al quale vennero scattate le fotografie che dovevano servire per favorire le successive commercializzazioni. Nuovi brevetti e nuove macchine cominciarono a vedere la luce. 

Nel 1954 fu realizzata la prima vibrofinitrice per la stesa del conglomerato bituminoso, montata su un trattore cingolato. Non fu un successo, e quel prototipo rimase tale, finché, due anni dopo, la stessa macchina non fu montata su pneumatici. 

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Altre macchine invece trovarono immediatamente il gradimento del mercato. Come conseguenza del rinnovato rigoglio di progetti, anche le strutture aziendali si adattarono dotandosi di uffici tecnici per la progettazione totale all'interno dell'impresa. La Marini cresceva e con essa anche il Paese, che usciva dagli anni più neri per approdare a un'epoca del tutto diversa. Agli inizi degli armi Cinquanta l'Italia cominciava a lasciarsi alle spalle le distruzioni della guerra. Le ferrovie, i ponti, gli stabilimenti erano in gran parte ricostruiti; le riserve auree erano ricostituite; il pareggio dei conti con l'estero sarebbe stato raggiunto nel 1953. Ora le energie e le risorse umane e materiali che avevano compiuto la ricostruzione erano disponibili per un balzo in avanti della produzione industriale. Anche a Ravenna, laddove, cioè, i legami con la perdurante vocazione agricola rimanevano comunque forti e dominanti. Nonostante i rapidi processi di industrializzazione ed inurbamento che coinvolsero anche la nostra provincia, Ravenna mantenne, fino al 1971, un tasso di ruralità della popolazione attiva ben superiore a quello complessivo dell'Emilia-Romagna.

Erano iniziate da qualche anno nuove assunzioni di operai (oltre a tenere tutti i vecchi ancora sotto contratto) e nel 1952 gli occupati erano 80.

Agli inizi degli anni ’50 inventarono una macchina detta di stabilizzazione terre, una tecnica che ebbe grande successo nel meridione.

Marino divenne il direttore tecnico e Roberto il direttore commerciale.
Marino non voleva licenziare nessuno (e mai lo fece)

Nel 1958 fu chiamato a dirigere l’Ufficio tecnico Fausto Vicari, che lavorava da Roncuzzi. Fu lui l’artefice delle innovazioni alla MARINI e del rilancio in grande della produzione.

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Nella foto sopra provano un additivo bituminoso caldo. 

Spruzzato sulla strada  veniva poi coperto con ghiaia piccola  con il spandigraniglia, sempre della "Marini".  

Intanto come Capofficina dopo Gigiòt (Luigi Calderoni) arrivò Minghì (Domenico Minguzzi).

 

Inizio anni '60

Quando fu deciso di costruire l'Autostrada del Sole agli inizi degli anni '60 la Marini partecipò a pieno titolo a quell'impresa. Le sue macchine e i suoi tecnici furono molto apprezzati dalla dirigenza della Società Autostrade.

In quegli anni ci fu il boom dell’asfaltatura delle strade, che durò fino ai primi anni '70. La Marini ebbe una notevole espansione delle vendite in Italia, ma guadagnò soprattutto quote sempre più ampie di mercato estero: Europa dell'Est, Egitto, Francia, Svizzera, Germania, Olanda, fino a una prima commessa in Cina nel 1966. Nel corso degli anni '70 il 90% del fatturato fu realizzato grazie alle commesse estere.

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Vibrofinitrici C 300 con braccio di 12 metri, nella bretella di Santià (Foto)

 

Potrebbe sembrare un assurdo, ma il maggior sviluppo della Marini si ha nello stesso periodo in cui iniziava la crisi energetica e petrolifera dei primi anni ’70. 

 

E gli operai?

 

Erano 80 nel 1958 e diventarono 1050 negli anni '70 e '80, solo nello stabilimento centrale di Alfonsine. Poi ci fu la crescita delle cosidette "fabbrichette satellite", con a capo ex-operai della Marini, che producevano autonomamente per la Marini singole componenti, con altri 500 operai.

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Il clima socio-politico degli anni '50, che ereditava nella zona di Alfonsine il largo seguito avuto dai partiti di sinistra e in special modo dal PCI, e il diffuso concetto di "lotta di classe" contro i "padroni", determinò strane situazioni.

Gli operai venivano assunti tramite colloqui individuale. Molti nuovi operai i Marini li assunsero tra i vecchi amici o tra coloro che durante la Resistenza avevano avuto dei morti attribuibili a forze partigiane.

 Ma molti che si presentavano ai colloqui per l'assunzione erano di area social-comunista per tradizione, altri erano stati addirittura partigiani durante la guerra. Molti altri venivano indicati e raccomandati dal Parroci delle due due chiese di Alfonsine.

Tali divisioni rimasero sempre presenti sottotraccia tra gli operai.

Il primo scontro fu politico e culturale, ma avvenne al di fuori della fabbrica.

Alla fine degli anni '40 il Consiglio Comunale governato da una giunta social-comunista indicò di non costruire per due anni un altro cinema ad Alfonsine oltre all'Aurora, che Ottorino Gessi stava costruendo nel paese nuovo, alla sinistra del Senio. Marino Marini per amore del suo paese vecchio di Destra Senio scavalcò, grazie ad appoggi in chiave politica nazionale, tale decisione riattivando il vecchio cinema Corso di Corso Garibaldi, utilizzando la costruzione di Luigiò (Luigi Randi), ristrutturandola e trasformandola in un cinema che fu detto da allora "Cinema Corso".

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Lo scontro fu durissimo e si ripropose, con una certa forzatura, la contrapposizione che, già durante il fascismo, c’era stata fra il cinema del Corso e il vecchio cinema “Aurora”. 

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La realizzazione di avviare un secondo cinema, richiesta fatta da Ernesto Contessi (Marino Marini aveva sposato sua figlia Federica), fu presentata da comunisti e socialisti alla cittadinanza come uno sfregio al piano di ricostruzione che aveva stabilito la presenza di un solo cinema nel nuovo centro del paese in piazza Gramsci e cioè l’“Aurora”.

Per far ottenere il permesso il Prefetto di Ravenna il 12 maggio 1949 commissariò, per alcuni mesi l’amministrazione comunale, solo su questa questione.

I militanti dei partiti di sinistra (socialisti e comunisti), al governo del paese di Alfonsine, invitarono la gente a non frequentare il cinema Corso, ma solo l’Aurora.

UNA MOSSA SPIAZZANTE DI MARINO MARINI.

Dall’altro lato, fatta acquistare la costruzione da Federica Contessi, sua moglie, Marino Marini, con una mossa spiazzante, a nome della moglie, fece dare in gestione il cinema a una cooperativa di operai della loro fabbrica, un suo impiegato Luigi Masetti, e alcuni operai a tenere l'amministrazione, e Romano Centolani e Iorio Lasi Pietro a fare i proiezionisti, Fernando Galletti e Mario "Buracina" come maschere a rompere i biglietti, altri operai a ritirare l'incasso serale, Linda Lucci (mia madre, da sempre amica di Federica e Marino) come bigliettaia e cassiera, e redattrice del borderò serale, con altre aiutanti varie (Sandrina Natali, sposata a Walter Bonci, "chitara", Cenza Bosi, Ivonne Melandri).

OTTORINO GESSI ABBANDONÒ L’IMPRESA DELL’AURORA

Dopo alcuni anni di gestione Polli-Gessi, quest’ultimo abbandonò tutto e decise di vendere l’edificio. 

Subentrò nella gestione del cinema Aurora il sig. Errani di Savarna, un ex-partigiano, nome di battaglia “Gim”.

MA ALLA META' DEGLI ANNI '60... 

Alla "Marini" avevano fatto il "socialismo" senza saperlo

Complice un padrone paternalista e giovani operai strampalati e anche un po' ribelli, si creavano in fabbrica durante il lavoro situazioni personali e collettive, e che poi venivano raccontate al bar, creando così mitologie varie e felici su come si stava alla “Marini”.

Erano storie e aneddoti di tutti i tipi, da far ridere, o da far incavolare, da mitizzare o da nascondere.

Il "padrone" Marino.

Intanto va detto che tutti sapevano che Marino Marini non voleva licenziare nessuno (e mai lo fece). Ciò contribuì a creare tra gli operai un clima di non paura, di vivere la loro condizione di fabbrica in modo rilassato, e ciò contribuiva forse a favorire una maggior produttività.

In fabbrica si riprese la tradizione (di epoca fascista) della befana per gli operai e di varie feste e veglioni.

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Ad esempio quando fu introdotta nel cortile della fabbrica la macchinetta di distribuzione delle bevande nacque una vera rivoluzione.

Molti operai si allontanavano dal lavoro e si trovavano contemporaneamente lì: ne approfittavano per fumare una sigaretta, bere una bibita e fare quattro chiacchiere.

Marino Marini che ogni tanto era abituato a fare un giretto in bicicletta per la fabbrica accompagnato da un suo cagnolino arrivò in zona ma preceduto dal cane.

Diversi operai si erano “staccati” dal lavoro e raggruppati presso il distributore di bibite a chiacchierare.

Quando videro il cane capirono che stava arrivando anche Marino e iniziarono a “fuggire”, ciascuno verso il proprio posto di lavoro. 

Al ché Marino, visto quel fuggi fuggi, disse loro a voce alta “Guardate che il mio cagnolino non morde mica!

Un'altra volta per una situazione simile un operaio di quelli più "coscienziosi" andò in ufficio dal "padrone" Marino a denunciare il fatto che diversi operai se ne stavano a bighellonare. Al ché Marino, un po' infastidito, rispose: "Perché ti preoccupi, non li paghi mica tu!?"

 

(in attesa di altre storie simili...)

 

ALLA FINE DEGLI ANNI '60 QUALCOSA ANDAVA CAMBIANDO...

Il PCI locale decise di intervenire in fabbrica. La classe operaia era diventata l'interlocutore principale di tutta la sinistra comunista ed extra-parlamentare. 

Si costituì una sezione (semiclandestina) del PCI dentro la fabbrica, la chiamarono "Che Guevara", in onore del rivoluzionario da poco assassinato. Ci fu l'ok del segretario comunale del partito che era "Banditó", alla riunione costitutiva venne Giuliano Paietta (fratello di Giancarlo). Diedero vita ad un giornaletto ciclostilato "La Fabbrica" con Giorgio Lolli, Bruno Nanni,  Angelo Minguzzi, Mauro Pizzolati, Germano Bedeschi col supporto di compagni storici come "la Pizerda e "Pacona".

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In quegli stessi anni si sviluppò il dibattito sulla democrazia sindacale (avviato dalla Fiom all’interno della confederazione), sulla necessità di avere dei rappresentanti delle confederazioni eletti direttamente dai lavoratori e non più nominati dai sindacati provinciali (com'era stato fino ad allora con la commissione interna e poi sostituite delle sezioni sindacali). 

La CGIL cercò di dare alle sezioni sindacali aziendali (organi che non furono mai unitari) un tipo di struttura che si occupasse maggiormente della condizione operaia e che fosse realmente espressione della base – anche attraverso l’elezione diretta dei suoi membri mediante voto segreto dei lavoratori e non più nominati dal sindacato provinciale.

Ma esse si avviarono al tramonto, che arrivò alla fine degli anni Sessanta,  e, parallelamente, i cambiamenti strutturali avvenuti nell’organizzazione della produzione (con la fabbrica divisa in reparti completamente autonomi gli uni dagli altri) portarono alla necessità di una rappresentanza diretta più articolata di quanto potesse essere la commissione interna. 

Le lotte operaie alla Fiat per il rinnovo del Contratto Nazionale dei Metalmeccanici del 1969 negli anni della contestazione portarono alla crescita anche di gruppi extraparlamentari (tra i quali "il Manifesto" di Alfonsine) che intervenivano alla Marini, in concorrenza con gli operai del PCI. 

Arrivò quindi il momento dei consigli di fabbrica, e dell'assemblea generale retribuita, strutture molto popolari  che concretizzavano il crescente movimento dei delegati. Inoltre con lo Statuto dei Lavoratori e con la Medicina del Lavoro in fabbrica si arrivò a toccare uno dei punti più delicati della fabbrica "Marini": e cioè l'ambiente di fabbrica e la difesa della salute.

I medici della medicina del lavoro ebbero il via libera dai Marini per intervenire nei vari reparti della fabbrica, individuando i punti critici per la salute e attuare gli interventi necessari.

La questione più grave fu individuata nel "reparto verniciatori". 
Le macchine venivano verniciate senza protezione con vernici a base di piombo (Minio) creando un rischio di malattie per gli addetti ai lavori. 
Si decise così di cambiare la tipologia di vernice e di areare il capannone dei verniciatori.

Un altro problema fu individuato nelle polveri di amianto che potevano spargersi dall'eternit con cui era coperti i capannoni. Anche questo problema venne affrontato con la collaborazione dei Marini.

Il maggior sviluppo della Marini

Potrebbe sembrare un assurdo, ma il maggior sviluppo della Marini si ha nello stesso periodo in cui inizia la crisi energetica e petrolifera dei primi anni ’70. In quegli anni ci fu il boom dell’asfaltatura delle strade.

Intanto nel 1973 viene costituita una nuova società di proprietà della famiglia Marini, la MARINI COSTRUZIONI ECOLOGICHE snc, con Sede legale in Alfonsine in Via Roma, 28 presso i vecchi Uffici della Marini SpA e Stabilimento in San Biagio d’Argenta, in un Ex zuccherificio dell’Eridania, acquistato a tal scopo e ristrutturato. 

La Marini Costruzioni Ecologiche inizia come supporto alla Casa Madre, se così si può chiamare, anche se trattasi di due realtà ben distinte fra di loro e con una loro autonomia gestionale. Le prime produzioni sono riferite a macchinari ecologici quali i depolveratori in via umida ed i filtri a maniche di tessuto, per poi passare alla costruzione degli ultimi spandigraniglia ed alle finitrici per la distesa di conglomerati bituminosi.

In questi anni la Marini SpA, nello Stabilimento di Alfonsine perfeziona gli impianti per la produzione d’asfalto ed ottiene buoni risultati con gli impianti a mescolazione continua dove, all’interno dello stesso cilindro, avviene pure il processo di mescolazione. La qualità del prodotto Marini, con una componentistica di primo ordine, viene riconosciuta in tutto il mondo, consolidando così il primato sui mercati divenendo Leader mondiale del settore. 

In questo periodo si ha pure la riorganizzazione dell’assistenza post-vendita, che è stata il fiore all’occhiello dell’azienda ed ha contribuito a rafforzarne il nome. Basti pensare che se un cliente telefonava chiedendo l’intervento per una riparazione o lo sblocco di un impianto fermo, partiva immediatamente l’ispettore o il tecnico ed il giorno dopo, in qualsiasi parte del mondo, c’era la presenza di una persona della Marini.

A quel tempo c’erano circa 40 persone addette a questi servizi su una rete mondiale di interventi. Caletti, Melandri, Masino, Cananao, Pattuelli, Momo, Montanari, ecc... L’Azienda era presente con agenti, rappresentanti o procacciatori in 70 Paesi del mondo, anche sconosciuti, come St. Pierre e Michelon, piccole isole al largo della costa orientale del Canada vicino a Terranova, dove, come in altri paesi sperduti, la Marini già aveva collocato propri macchinari. Marino Marini sosteneva che prima di tutto bisognava soddisfare le esigenze del cliente e risolvere i suoi problemi in qualsiasi modo. Tanto era la sua “cura” del cliente che, in mancanza di pezzi a magazzino, faceva smontare gli stessi dalle macchine finite per poi inviarli ai richiedenti.

 

La crisi iniziò nel 1978.

 

La crisi del petrolio di anni prima e l’aumento della competitività, (fino ad allora la Marini aveva operato quasi in situazione di monopolio mondiale), avrebbero dovuto portare a drastiche scelte sul terreno dell’aumento della produttività. Mentre infatti il prodotto era a livelli alti, la produttività era a livelli bassi e veniva frenata  dall’assenteismo, dagli sprechi, da un livello organizzativo della produzione poco efficace e molto dispersivo. Quindi alti erano i costi  di produzione. Tutto ciò stava portando la Marini sull’orlo di un indebitamento eccessivo con le banche.

Si tentò di diversificare la produzione. La Marini Costruzioni Ecologiche si specializzò in quei fine anni ‘70 nella progettazione e costruzione di impianti per il trattamento di rifiuti solidi urbani. Come prima sperimentazione fu prodotto un inceneritore che ottenendo una prima commessa a Lagos (Nigeria) ed una seconda all’inizio degli anni ’80 a Derna (Libia). Altri impianti furono prodotti ma non vi fu un mercato sufficiente.

 

L’impianto in Nigeria non fu un affare poiché, dopo il montaggio, ci fu un cambiamento di governo che dai militari (che lo avevano acquistato) passò ai civili i quali non vollero mai riconoscere l’operato dei militari e quindi non pagarono il saldo, che per quei tempi era una cifra consistente.

Questo settore fu poi abbandonato per non disperdere forze e risorse tecniche necessarie al settore degli impianti per asfalto. 

Nel 1981 si ha la fusione per incorporazione nella Marini SpA della Marini Costruzioni Ecologiche di San Biagio (FE) e della Marini Macchine Stradali di Cassino (FR). Il Gruppo così consolidato conta nel giugno 1981 circa 1520 dipendenti di cui circa 1050 nel solo Stabilimento di Alfonsine.

Ma proprio in questi anni comincia a sentirsi la crisi di mercato proveniente da quella energetica di circa un decennio prima.

Mai prima di allora la ‘Marini’ aveva conosciuto sospensioni di lavoro o cassa integrazione, diversamente da altre aziende collocate nelle maggiori zone industriali italiane dove la CIG ormai era diventata una normalità, mentre ad Alfonsine veniva considerata come un “dramma”.

 Nel luglio del 1982 iniziò la cassa integrazione a rotazione, per garantire, in un certo qual modo, la temporaneità del lavoro a tutti i dipendenti. 

Il governo e i sindacati per dare la cassa integrazione chiesero e ottennero che tutta la fabbrica avesse un unico direttore.

 

Fu inviato un tal Troiano tra l’83 e 84 che ebbe il pieno sostegno di una parte dei dipendenti degli operai e del sindacato, ma non dei dirigenti.

Ben presto il Troiano si rivelò un bluff e dopo sei mesi i fratelli Marini ne chiesero l’allontanamento. Al suo posto venne un altro che non riuscì a combinare nulla. Intanto Marino Marini si era gravemente e improvvisamente ammalato e nel 1985 morì. 

A quel punto la fabbrica Marini era precipitata in enorme crisi.

La produzione dei rulli compattatori nello stabilimento di Cassino diventò sempre più pesantemente negativa per l’Azienda, stante la mancata remunerabilità del prodotto per perdite derivanti prima di tutto da attrezzature produttive obsolete e da un alto costo di gestione della struttura.

Così lo Stabilimento di Cassino venne ceduto (gratuitamente) ad altro gruppo industriale, che si accollò pure la totalità del personale dipendente (circa 130 unità). 

La crisi dei mercati aumentava e le disponibilità finanziarie si assottigliavano, anche se la proprietà immise per più volte nell’azienda capitali freschi. Molti dipendenti, non accettando di buon grado la messa in CIG, lasciarono l’azienda, e per altri furono trovate soluzioni alternative al licenziamento (prepensionamenti, incentivazioni e/o passaggi ad altre aziende metalmeccaniche). 

Furono gli anni in cui i bilanci si chiudevano in perdita, i mercati andavano su e giù ed il personale era in sovrannumero per una struttura produttiva che più di tanto non poteva realizzare. La proprietà iniziò a prendere contatti con gruppi industriali nazionali ed internazionali al fine di poter trovare sinergie di mercato ed anche possibilità di ricostituire un nuovo assetto societario che oltre alla famiglia Marini, comprendesse nuovi azionisti in grado di apportare in primo luogo disponibilità finanziarie per ricapitalizzare l’azienda.

Mentre diversi tentativi fallirono, l’azienda si assottigliava di personale, i sindacati erano sempre più esigenti nella richiesta del mantenimento dei livelli occupazionali, le Banche riducevano gli affidamenti ed in pratica si viveva alla giornata.

Nel 1988 la situazione diventò molto delicata con il rischio di un probabile fallimento della società. Alcuni ex dirigenti della Marini dopo serrati contatti con gruppi industriali locali ed esteri e pure in concerto con i sindacati dei lavoratori ed il supporto del Ministero dell’Industria, convinsero il Gruppo Francese Fayat ad intraprendere trattative con la famiglia Marini per il subentro, il rifinanziamento ed il rilancio dell’azienda.

L’operazione preliminare andò a buon fine nel luglio 1988, con il subentro ufficiale del Gruppo Fayat nella compagine societaria nel settembre dello stesso anno. L’attività transitoria di due mesi, l’allora situazione debitoria e patrimoniale confermarono che se non ci fosse stato l’immediato intervento della Holding francese, la Marini sarebbe fallita il mese dopo, con tutte le conseguenze negative che ne sarebbero derivate per l’economia locale e la comunità alfonsinese.

Da rilevare che, diversamente da quanto più volte è stato detto da tanti e da quanto molti pensano, la Marini non ha mai avuto finanziamenti a fondo perduto o interventi statali d’aiuto, ma è stata sempre gestita con apporti finanziari diretti sia dalla vecchia che dalla nuova proprietà, a volte anche con la vendita di patrimoni personali.  

Nel 1992 muore anche Roberto Marini che dopo essere stato nominato Presidente Onorario nella nuova compagine della Fayat, se ne uscì, e dopo aver tentato di realizzare una ditta sua di produzione macchine stradali era rientrato in Marini Fayat group come presidente. 

In quegli anni la dirigenza Fayat assume diversi ex-dipendenti Marini soprattutto degli uffici tecnici e commerciali come liberi professionisti (Ugo Cortesi, Pietro Cesti, altri…)

  

   

 

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