Il capostipite,
Luigi Rotondi (1830-1915) Luigiòn, di famiglia contadina, apprese da alcuni frati
i segreti delle erbe, e ne istruì anche tutti i figli: Augusto, Luigi,
Ernesta, Antonio, Alfredo e Achille. E tutti si fecero la fama operarono
come guaritori col nome "Zambutèn".
Luigi
nacque nel 1830 e morì a Villanova di Bagnacavallo nel 1915 a 84 anni,
nella sua casa in via Aguta. I suoi
facevano i contadini. Luigi, già da ragazzo, appariva svelto
ed intelligente e lo chiamavano Luigiòn.
Sull’origine
della sua esperta conoscenza delle erbe medicinali ci sono due ipotesi:
una che lo accomuna al botanico bagnacavallese Pietro Bubani (1806-1888)
che, provenendo da una ricca famiglia, possedeva terreni in Bagnacavallo e
Traversara, in cui è ancora presente la villa “Cagnazza", per cui
Luigi sarebbe stato un suo dipendente e da lui avrebbe appreso i segreti
delle erbe, seguendolo anche nei suoi viaggi nei Pirenei. Tale ipotesi
potrebbe riferirsi anche al fatto che una delle due figlie di Luigi,
Ernesta, avrebbe avuto una relazione col Bubani, anche perché visse in
una casa di sua proprietà in via Boncellino a Bagnacavallo ma niente è
provato.
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Luigi Rotondi (1830-1915) Luigiòn
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L’altra
ipotesi, più appassionante, che è anche quella raccontata, prima da un
suo nipote, il medico Dioscoride, poi riportata dal figlio di questi,
l’avvocato Roberto Rotondi di Lugo, è la seguente:
Luigiòn era perdutamente appassionato di ballo e si dice che
fosse molto bravo nel ballo “bergamasco”. Appena libero dai lavori dei
campi Luigiòn spariva. A Castel Bolognese c'era una scuola di danza,
aperta dai francesi, quando arrivarono in Romagna alla fine del '700 e, non
si sa come rimasta in esercizio, dopo la restaurazione.
Queste
continue fughe non erano molto gradite alla famiglia ma anche al
parroco di Villanova che lo voleva più presente alle funzioni come
“buon cristiano”, per cui fu rimproverato più volte: non andava a Messa e disertava le altre
funzioni religiose
Fu anche punito con una serie di “gnaccarelle”, che consistevano nel
far distendere il non devoto su una panca e, dopo avergli fatto calare
calzoni e mutande, somministrargli una serie di bastonate sui glutei
indifesi. La passione per il ballo era troppo forte e, visto che le
punizioni non servivano, il giovane Luigiòn fu invitato a lasciare il
paese che disonorava con i suoi comportamenti.
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Il
giovane Rotondi con le sue poche cose se ne andò incamminandosi
verso Castelbolognese e Imola. Trovandosi di notte fra Mordano e Bubano
(si noti l’assonanza della località con Bubani) chiese ospitalità a un
convento di frati e lì fu accolto.
La
cartolina documenta la chiesa di San Francesco, situata a poca
distanza dal centro del paese di Mordano. Sotto l’edificio attuale
esistono i resti di un antico convento, primo centro di culto
cristiano della zona, costruito con tutta probabilità nel 540 dai monaci benedettini.
Il
convento, dedicato Sant’Anastasio, fu menzionato per la prima
volta in una bolla di Papa Eugenio III nel 1145.
Successivamente
abbandonato dai benedettini, forse in seguito ad un’alluvione del
vicino fiume Santerno, l’edificio cadde in disuso. Nel 1478 ormai
fatiscente, fu però riedificato dai francescani, senza farne
un vero e proprio convento. Oggi il complesso è di proprietà della
Curia di Imola.
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Luigiòn,
cacciato dal clero di Villanova venne ospitato, anche perché i monaci
francescani non erano molti (da due a quattro) e lì si fermò per diverso
tempo, aiutando i frati nel lavoro e ricevendone in cambio ospitalità e
dimestichezza con le erbe officinali medicinali. Infatti questi erano specialisti in erboristeria, alambiccavano
nella loro piccola “officina” e confezionavano pillole lassative. A
quei tempi, pure la medicina ufficiale pensava che, liberando l'intestino
molti altri “disturbi” se ne andassero coi residui biologici espulsi.
La funzione fisiologica dello scarico era considerata tanto importante al
punto che l'andata al cesso veniva chiamata “beneficio”. “Il signore
(o la signora) ha avuto il beneficio? Deo gratias!”.
I
fraticelli lavoravano l'orto per procurarsi le erbe e, se qualcuno si
prendeva l'artrite, preparavano anche gli unguenti caccia-dolori. Luigi
imparò presto l'arte dei frati. Quindi li ringraziò per l'ospitalità e
gli insegnamenti ricevuti e, con una certa mentalità imprenditoriale, ritornò
a Villanova, nella casa natale di via Aguta, mettendosi in proprio. I
frati gli regalarono anche tre libri antichi con le loro ricette, così
lui iniziò la sua attività di erborista e “santone” ma non a scopo
di lucro, bensì per procurarsi il mantenimento e aiutare chi era
sofferente e non poteva disporre di grosse somme per curarsi.
Sicuramente
pensò: “Se è tanto importante far cagare la gente, ci penserò io”.
Seguendo l'esempio dei francescani, cominciò a fabbricare e a vendere
pillole e unguenti.
|
Questo
è proprio il suo mortaio
|
Le pillole fatte di erbe
(gialappa, rabarbaro cinese, genziana e aloe: tutti ingredienti
lassativi e rinfrescanti) impastate con la farina, buone per tutti i
mali si
chiamavano “Bcon o Pcon” - bocconi, anche perché le dimensioni non erano poi
tanto contenute.
Rotondi
Luigi, Luigiòn, sposò Lucia Barattoni ed ebbero sette figli, cinque maschi
chiamati con la lettera A (tranne uno che doveva continuare la tradizione
di famiglia, Luigi) e due femmine con la lettera E.
Una delle due
femmine, Eleonora (1878-1888), morì bambina, all'età di 10 anni. L'altra
la primogenita faceva di nome Ernesta
“la Zambuténa”, di cui non conosciamo ancora date di nascita e morte,
comunque nata pensiamo nel 1860/1864.
I cinque maschi:
Antonio chiamato anche Ignazio (1865-1919), Augusto “Tamòn”
(1868-1950). Alfredo (1871-1933), Luigi “Gigì” (1872-1942), Achille
“Chiloti” o “e’sgnòr Chileto” (1873-1965).
A tutti i figli,
tranne Eleonora, Luigiòn trasmise le sue conoscenze e i suoi sentimenti
di solidarietà coi poveri, dato che le loro preparazioni non si
discostavano molto dai prodotti che venivano forniti dai farmacisti ma
avevano un prezzo assai più contenuto. |
alcuni
suoi appunti |
Per ragioni di
“non concorrenza” i figli operavano in località diverse: Ernesta a
Bagnacavallo ma anche a Faenza, Imola e Bologna (fu l’unica a lucrare
sull’attività), Antonio ad Alfonsine, Augusto a Forlì, Alfredo a
Portomaggiore (FE), Luigi a Lugo e Achille a Ravenna.
Si legge nel «
Diario Forlivese » del conte Filippo Guarini in data 15 ottobre
1896:
«Luigi Rotondi, contadino domiciliato a Villanova di Bagnacavallo, é
notissimo col soprannome di «Zambutèn» esercita da qualche anno la
medicina, come ciarlatano od empirico e quando
viene a Forlì ha grande concorso per certe sue polveri e
pillole, che in verità hanno guarito varie persone. È uomo di
modestissima apparenza e senza chiacchiere; lo aiuta suo figlio Augusto».
Luigi Rotondi
fu il primo « Zambutèn » della famiglia. Appena si diffuse la voce
delle sue capacità di guaritore e gli ammalati cominciarono ad affluire
alla sua casa. Da allora ebbe inizio la sua vera attività che lo portò
ad esercitare verso i 65 anni anche a Forlì, con l'aiuto del
figlio.
A Forlì era
vissuta, in passato, una famiglia di medici e veterinari di origine
ginevrina (o francese), che avevano esercitato la loro attività, ricavandone
una certa notorietà locale:
la famiglia Bouttin, i cui nomi di battesimo erano spesso preceduti da “Jean”.
Siccome la pronuncia francese di "Jean Bouttin" risulta simile
in romagnolo a "Zambutèn", si pensa che in Romagna il
termine di "Zambutèn" si andò
diffondendo per indicare in genere un "abile
guaritore", ma anche 'medicastro'.
Erborista e
medico empirico, la figura di Luigi Rotondi
cominciò ad essere circondata da
un’aureola di mistero. Alimentava la suggestione, presso la gente del
popolo, l’aria assorta con cui, nella solitudine e nel silenzio della
notte, al chiarore dei raggi di luna, o a lume di candela, egli procedeva
alla raccolta delle erbe medicinali. Atteggiamento, questo, senza dubbio
spontaneo dal momento che era opinione comune che le virtù terapeutiche
delle piante dipendessero, in parte, sia dal tempo della raccolta, sia
dalle modalità che riguardavano la loro manipolazione a seconda che si
volessero ottenere infusi, decotti, pomate ecc.
|
|
Nel
cimitero di Villanova di Bagnacavallo ci sono le tombe (a sinistra)
della moglie Lucia Burattoni e della figlia Eleonora Rotondi
deceduta a 10 anni nel 1888, e di Zambutè Luigi Rotondi (a destra)
Visitatore
pietoso
sappi che qui vi dorme
Rotondi Luigi,
IL venerato Zambutino
che tante volte interpellasti nelle
tue sofferenze ed ei,
come seppe, ti aiutò sempre BUono e
disinteressato
N. 17 DICEMBRE 1830 - M. 30 GENNAIO 1915 |
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+
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Tutti i figli continuarono
il mestiere del padre, sparsi qua e là per la Romagna. Tutti furono dei Zambuten.
Augusto
Rotondi ...
a Forlì
Augusto
Rotondi, o Agostino, il più noto 'Zambutèn'
o Zambutè, nato a Bagnacavallo, nel 1868 e morto a Forlì, 26 marzo
1950, sfruttando le orme del padre già
affermatosi a Forlì, divenne celebre e continuò ad esercitare in
proprio la
pratica di guaritore e speziale in questa città. Fu così un Zambutèn
anche lui, soprannome con cui era indicata la discendenza ma anche la
professione.
Augusto,
chiamato dagli amici “Tamon”, a Forlì comperò una casa
in Via Ravegnana, presso la chiesa di Santa Maria in Fiore.
Nel fabbricato vi era anche una trattoria, gestita dalla
famiglia Guidi e la figlia,
Spesso a cercare Rachele per corteggiarla, andava un
giovane con gli occhi spiritati e dai modi bruschi. Gli avventori lo
chiamavano “E mat”- il matto -. I genitori della ragazza non vedevano
di buon occhio questo corteggiamento.
Una sera era presente tra gli
avventori anche Tamon, il giovanotto di nome Benito, entrò in trattoria
con la rivoltella in pugno.
Era furente per l'ostilità dei genitori di
Rachele e minacciò di uccidere la ragazza e se stesso se alle riluttanze
della famiglia non si dava subito un taglio. |
"un
giovane con gli occhi spiritati e dai modi bruschi. Gli avventori lo
chiamavano “E mat”- il matto"
"... una bella ragazza, serviva i clienti.
Si
chiamava Rachele." |
Durante il fascismo, Augusto, ovvero Tamon, non venne molestato, pur
sapendosi in giro che non era fascista e che era il fratello di Alfredo.
"Zambuten", Tamon, alto, robusto, prestante, abile ballerino,
come il padre e tutti i fratelli in fondo. Una voce forte, roca, un
carattere brusco, ma pure gioviale ed estroverso.
Burbero in particolare
con le donne, specie quelle di Schiavonia; si dice che avesse avuto una
promessa sposa di quel rione, che al momento del matrimonio lo abbandonò.
Da allora per lui le donne erano "tutte puttane"! «Toti putan da Sciavanì» urlava, per
vendicarsi in qualche modo della fidanzata di quel quartiere.
Curava i poveri
chiedendo onorari modesti o addirittura per niente. Arguto e generoso era
così amato dai poveri.
Egli "faceva
ambulatorio" il lunedì ed il venerdì, la visita era una visita
breve, in uno stanzino spoglio, attiguo ad una sala d’aspetto sempre
sovraffollata, che era uno stallatico col voltone con qualche sedia mezzo
spagliata e un divanetto sgangherato. La sua casetta era in via Ravegnana, (allora era Sobborgo
Mazzini), presso la chiesa di Santa Maria in Fiore. Lui sentiva il polso,
guardava negli occhi del paziente e poi lo faceva parlare. Infine
formulava, con le sue argute battute, la diagnosi e la prognosi,
consegnando i rimedi che conservava sparsi nella stanza. La clientela,
numerosissima, veniva a lui da ogni parte della Romagna. Gli sarebbe stato
certamente facile arricchire, ma a chi gli chiedeva l'ammontare della
parcella, rispondeva sempre, senza esitare: «
Dasìm quel ch’ uv pé! ». E c’era chi gli portava un
coniglio, chi delle uova, chi niente. Nei giorni di mercato, non solo la
stanza, ma anche il cortiletto erano stipati di gente.
Le sue
pillole e i suoi intrugli funzionavano davvero. O almeno erano a un
prezzo abbordabile per quella povera gente che non poteva nemmeno
permettersi di rivolgersi al medico. Pagare Zambutè non era un
problema: credito, dilazioni, ‘sconti’ erano all’ordine del
giorno. Se qualcuno, particolarmente riconoscente, voleva dargli di più
lui quasi si arrabbiava e sibilava «S’et fat de marché nigar te?»
(hai fatto il mercato nero? cioè: hai troppi soldi fatti in modo
disonesto?).
«Alto, robusto, un poco
ingobbito, il volto raso sì da mettere in evidenza solchi e sporgenze
sbozzate d’impeto da uno scalpello vigoroso - così lo descrive
Antonio Mambelli - Zambutè si aggirava tra decine di pazienti in
attesa fiduciosa della sua diagnosi e della fatidica prescrizione di
pillole». Comprensivo e alla mano coi più poveri, era anche però
spesso burbero, stizzoso e crudele con qualche malcapitato.
A un giovanotto
pieno di foruncoli in viso Zambutèn suggerì il matrimonio come rimedio
sicuro per eliminare il fastidioso inconveniente che lo affliggeva.
Poiché era
convinto che non bisognava nascondere la verità ai malati, era pure
capace di impietose sentenze. Come quella rivolta ad un contadino di
Carpinello, che covava un brutto male ormai inguaribile. Rotondi se ne
accorse e glielo fece capire, rigorosamente in dialetto, prima in modo
“soft” (“sei venuto da me troppo tardi”) e poi, vista la sua
insistenza, in maniera a dir poco grossolana e feroce: “C’è un
falegname a Carpinello?”. Alla risposta affermativa del pover’uomo,
continuò con queste parole: “Allora torna a casa, ma prima fatti
fare una cassa da morto”
Poi, se gli girava male, deliziava i
presenti con una diagnosi pubblica del tipo «T’è na faza culor dal
scurez» oppure a chi lo pregava in ginocchio di dar fondo a
tutta la sua sapienza per l’ennesima miracolosa guarigione, magari
dopo essersi rivolto inutilmente a qualche medico famoso, Zambutè
poteva persino rispondere: «Trop tard e mi oman.. Tsi avnù da me dop
che lè stè stachè la buleta» (Troppo tardi, sei venuto da me dopo
che è stata staccata la bolletta, cioè è già stata segnata la
‘partenza’).
“
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Processi,
successi e riconoscimenti.
Ebbe frequenti grane con la giustizia e spesso, come fra l'altro i
fratelli e prima di loro il padre, fu colpito, sempre però blandamente,
dalla Legge per esercizio abusivo dell'arte medica. Una condanna per
esercizio abusivo della professione medica già nel 1896 così lo aveva bollato
: 'Zambutè, ciarltatano ed empirico’:
E pochi anni
più tardi, nel 1904, altri guai giudiziari per quello strano tipo. In
quel processo fu difeso dal sindaco di Forlì,
l'avvocato e futuro senatore del Regno Giuseppe Bellini; Zambutèn fu
condannato al pagamento di una multa. In effetti, però, le condanne
rimasero sempre inefficaci: il Rotondi continuò a operare secondo la sua
“professione”.
Fra i molti
ammalati che ricorrevano alle sue cure, alcuni spesso erano così gravi
che nulla era umanamente sperabile. « Sa m’aviv ciap par
Sant’ Antoni? », diceva burbero a coloro che l’imploravano di
fare 1’impossibile e a chi gli si presentava piuttosto malandato: «Un
gn’è un falgnam dal tu pert?»; ma poi concludeva, per
consolarlo: « Dì a e’ tu dutòr che e’ cancar u l’ha lò! ».
Sia per la
lunga pratica, sia per innata predisposizione, era divenuto un diagnostico
d’eccezione, così da eguagliare e a volte superare i medici anche
migliori. Riusciva a guarire talora mali ritenuti incurabili e a chi lo
ringraziava, profondamente commosso e insieme meravigliato, rispondeva,
quasi interrompendo l'interlocutore: « Us ved ch’l'aveva da guarì!
».
Clienti, anche illustri, non mancarono. Tra questi,
la moglie del medico chirurgo e anche Rachele Guidi, diventata moglie di
Benito Mussolini.
Alcune delle
sue guarigioni ebbero il clamore della notorietà: perfino la consorte di
un primario dell’ospedale Morgagni Sante Solieri
recuperò la salute per
opera di Augusto Rotondi.
Sante
Solieri
Rachele
Guidi Mussolini
Aurelio Angelucci,
che lo riforniva di ramarri per le sue misture segrete, ricevendone
in cambio due soldi, ricorda che ‘E Sgnòr Avgusto’ curò anche la moglie di
Mussolini. Per questo fu considerato di casa alla Rocca delle Caminate
dove ogni pomeriggio d’estate soleva recarsi colla sua motocicletta.
C'è poi
un racconto che assume i colori della leggenda: "Donna Rachele si rivolse a lui dopo aver consultato senza successo i
luminari dell’epoca per via di fastidiosi dolori di stomaco che la
tormentavano da mesi. A
Zambutè bastò guardarla negli occhi per arrivare alla diagnosi: voi
avete bevuto l’acqua di un fosso e nella vostra pancia si sono
sviluppate le uova di una rana!
Dalla prescrizione della pillola
giusta alla guarigione fu un lampo."
Per la
salvezza della moglie di Salieri o per la guarigione di Rachele (non
è ben chiaro chi gli fece l’omaggio) gli fu regalata una
motocicletta Guzzi, colla quale scorrazzava per Forlì e dintorni,
infatti andava spesso, invitato, alla Rocca delle Camminate dove
Rachele e Benito, ormai sposati, avevano una villa e si intratteneva
a pranzo con la loro famiglia; solo a pranzo perché non molto
pratico della guida e timoroso usava solo la prima marcia della sua
moto. Certamente per questa amicizia importante, pur sapendosi in
giro che non era fascista, non venne mai molestato.
Da quel
giorno la inforcò ogni giorno per far visita ai suoi pazienti e anche
per andare a ballare al sabato, visto che restò sempre ‘zovan’,
come si diceva allora, cioè celibe. C’è però da immaginare che non
facesse proprio un figurone come centauro: non aveva la patente e
viaggiava solo in prima.
Non fu mai
fascista e per lui i Mussolini erano soltanto i signori delle Caminate,
clienti come gli altri bisognosi delle sue cure. Una volta fu denunciato
per un aborto che si diceva procurato dalle sue pillole. Mussolini,
informato, ne rimase sorpreso: « Ma come, un uomo come lui? Non è
possibile ». Fece indagare: la denuncia l'aveva fatta il medico
che era il vero responsabile dell’aborto.
Passata la
guerra egli non si adeguò al valore mutato del denaro e continuò a farsi
pagare come una volta; finì così per ridursi in estrema indigenza,
povero più di quei poveri che tante volte aveva soccorso e non solo colle
sue medicine, i suoi « b’côn ».
Non fu però
abbandonato dalla gente, ebbe grandi dimostrazioni di affettò, specie dai
suoi poveri che gli furono vicini negli ultimi anni.
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ZAMBUTEN CONDANNATO
Augusto Rotondi, detto Zambuten, medico ben noto, non munito del
brevetto governativo, è stato condannato mercoldì dal nostro tribunale a
L. 500 di multa per contravvenzione. Era difeso, nientemeno, dal nostro
Sindaco Bellini. Si fanno dei commenti, ma Zambuten sa bene che al ciacar
‘d Furlé al dura tri dé e spera di non perdere i suoi amici.
Augusto Rotondi
Il
manifesto funebre lo scrisse Adler Raffaelli
Una
caricatura di Augusto Rotondi
|
Il terribile
bombardamento del 19 maggio, che portò distruzione e lutti in tutta Forlì,
danneggiò gravemente la casa dove abitava. Sarebbe stato troppo costoso
per lui rimetterla in sesto e il
1 giugno 1944, Zambutèn decide di venderla. Si riservò una
stanza.
Quando mori, il
26 marzo 1950, il manifesto composto da Adler Raffaelli ed il necrologio
di A.P. Piraccini pubblicato sul « Pensiero Romagnolo » ci dicono
dell’uomo buono, generoso come un romagnolo antico, benefattore dei
poveri ed anche « signore della generosità verso i sofferenti ».
Si spense in assoluta povertà e dietro al
suo feretro sfilarono praticamente tutti i forlivesi.
Ad Augusto Rotondi il Comune di Forlì
ha dedicato una via.
La
testimonianza di Aurelio Angelucci
Zambuten l’éra un parsunag rumagnôl che e’ staséva a Furlè e
ch’e’ curéva tota la zenta cun agli erbi. L’éra ecezjunêl par
indvinê al malatì che e’ curéva cun dal pèlul ch’ e’ praparéva
da par lo. E’ staséva int la Vi Ravgnâna, döp e’ “Pont de’ vapór”,
drì a un stalàtich che a e’ lon e a e’ vènar l’éra pin ad zenta
che la-s faséva curê da lo cun du bulen: tot i j avléva ben, fura che i
dutur. Cun e’ mi amigh Farnéti, che e’ staséva pröpi int la ca d’Zambuten,
a i purtegna i mër [ramarri] e al lusértal ch’a ciapegna int la mura
de’ campsânt, e lo u-s daséva du suld par cumprê una matunëla ad gelè da De Fanti. U-s ciaméva Augusto Rotondi. Durânt al visiti i-l
ciaméva Sgnór Avgusto, mo par tot l’éra Zambuten (da e’ nom d’un
frê franzés, Jean Butin, ch’u j avéva lasê al rizëti segréti). Par
i puret e par i cuntaden l’éra e’ màsum dla midsena: e’ gvaréva
cvési tot e u-s faséva paghê pôch o gninta. L’ambulatôri, u-s fa
par dì, l’éra un camaron che e’ funziunéva nenca da sêla d’aspët;
Zambuten u-t gvardéva int j oc, senza smanêt, e ut daséva
la midsena; e’ scuréva seri, mo in manira aligra… (“Va-t a ca
ch’l’è finì la gvëra!”, “ Dat una böta!”, “Toti putan da
S-ciavanì!”, “ T’è una faza culor dal scurez!” … Acsè al vìsiti agli éra nenca un
divartiment par cvi ch’ taséva d’asptê e’ su tùran. L’avéva
una batuda par tot, còma ch’l’avéva un rimegi par tot i mél.
L’éra
famos in tota la Rumâgna, mo e’ dvintep grand quant che e’ fasè gvarì
la moj ad Muslen, Donna Rachele, ch’la javeva dbu dl’acva int un fòs,
e la javeva di grènd dulur ad pânza che incion l’éra stê bon ad
gvarì.
Sicoma u n’avleva ësar paghê, e’ Duce u i rigalè una “Moto Guzzi
500” e lo, sicòma ch’u n’avéva la patenta, u la mandéva sól in
prèma, cvânt ch’l’andéva a visitê in campâgna o a balê e’ sàbat
sera, parchè l’éra un “zòvan”, cioè on ch’u n’éra spusê!
Nenca döp a la gvëra e’ cuntinuè a fês paghê pôch o gninta, tânt
ch’ e’ murè senza un bajöch i 26 d’mêrz de’ 1950, parò unurê
da tot e’ pöpul ad Furlè, da tota cla zenta gvarida dal su érb e dal
su pèlul. Ânzi e’ frê suparior ad Sânta Marì de’ Fiór, Padre
Ireneo, e’ fasè un grând scórs e u-l cumemurè dgènd ch’l’avéva
fat de’ ben a tot e’ pòpul: “Un pueta dagli érb, brosch e
benëfich,
môrt int la su ca bumbardêda, in puvartê còma Sa’ Franzesch”. Furlè
u j à intitulê una strê pr’arcurdêl a tot: “Via Augusto
Rotondi”. Purtröp scvési incion e’ sa chi ch’l’éra, parchè par
tot l’éra sulament Zambuten.
|
Luigi Rotondi
(Gigì) ... a
Lugo
Luigi Rotondi
(Gigì), l’unico maschio che non fu battezzato
con la lettera A e che portava il nome del padre, nacque a
Bagnacavallo nel 1872 e, nella spartizione del territorio, per non
farsi concorrenza, si spostò a Lugo di
Romagna, 'int la veja de’ Pér', via del Pero, (ove poi esercitò, fino a qualche
decennio fa, un celebre chiropratico detto Supremo).
Gigì si sposò con
Elvira Pattuelli ed ebbe un figlio a cui imposero il nome di
Dioscoride (dal medico, farmacista e botanico greco Dioscoride
Pedanio, 40-90 d.c.) che divenne poi medico condotto ed esercitò a
Lugo. Dioscoride a sua volta ebbe due figli, di cui uno medico
ospedaliero e l’altro avvocato, sempre operanti a Lugo; del padre
racconta:
(dal libro
"Don Piren" a pag. 84)
«Era un uomo
generoso. Credeva nel suo lavoro, nelle sue erbe, nelle ricette di
Dioscoride. Era di idee socialiste. Ricordo che un giorno a Bologna
comprò il giornale l'Avanti! all'edicola. Lo ripiegò, se lo mise
in tasca, lasciandone, com'era solito fare, una parte fuori con la
testata in vista. Eravamo sotto i portici di via Rizzoli, vicino
all'angolo dove si gira verso il Pavaglione. Si chiama ancora l'angòl
d'i'imbezél!
Incontrammo un gruppo
di fascisti, che notarono l'Avanti!, emergente dalla tasca della
giacca del mio babbo. Gli diedero tante botte. lo rimasi lì,
impotente, atterrito, mi pareva di sognare. Lo portarono al pronto
soccorso del S. Orsola, il dottore di guardia che lo medicò era
Romeo Galli, un imolese. Mio padre, a causa di quella bastonatura,
in seguito morì. Non era ricco».
Luigi
morì nel 1942.
Dioscoride
Rotondi, «Mio nonno m'ha dato anche il nome: Dioscoride. Era il
maggiore farmacologo dell'antichità, nato presso Tarso, in Cilicia,
nel I secolo dopo Cristo. Siamo pochi in Romagna, e forse in Italia,
con questo nome. Nei suoi pcôn c’erano gialappa, rabarbaro
cinese, genziana, aloe: ingredienti lassativi, rinfrescanti. Niente
di dannoso alla salute. Anzi erano medicine antiche e salutari, mi
creda, glielo dice un medico.”
Dioscoride fu medico a Lugo, ebbe due figli:
uno medico nell'ospedale di Lugo e l'altro Roberto Rotondi
avvocato a Bologna.
Dioscoride rimase in
possesso di tre antichi tomi
ricevuti dal padre, che ora sono custoditi dal figlio Roberto.
Le pagine sono
ingiallite, punteggiate da quelle macchioline color ruggine, che il
tempo fa fiorire nelle vecchie stampe. Ogni volume si compone di due
libri. Dunque sono sei libri e in gran parte raccolgono le ricette
chissà quante volte compulsate da Luigi Rotondi, il vecchio
Luigiòn, capostipite dei guaritori che portarono il soprannome di
Zambutèn.
|
Luigi
(Gigi), figlio di Luigiòn e padre del dottor Dioscoride Rotondi.
La
copertina e una pagina di uno dei tre libri antichi regalati dai
frati
Sul frontespizio del
primo tomo si legge:
«Dei discorsi di
M. Pietro Andrea Mattioli, Sanese, Medico Cesareo et del Serenissimo
Principe Ferdinando Arciduca d'Austria etc., nelli sei libri di
Pedacio (Pedanio) Dioscoride Anazarbeo della materia medicinale - In
Venezia 1604 ».
Sono le pagine segrete
dei Zambutèn, la fonte del loro sapere, le sacre scritture. |
Achille
Rotondi (Chìloti) ... a
Ravenna
Achille
Rotondi (Chìloti o anche e’ sgnór Chileto), nato
a Bagnacavallo nel 1873 fu
l'ultimo superstite di questa « dinastia » di erboristi, morto a
Ravenna nel febbraio del 1965 a 91
anni.
A dispetto delle
apparenze (era poco bello) e del suo matrimonio con Anita Babini,
e’ sgnór Chileto fu molto apprezzato dal gentil sesso e,
in virtù di questo dono, pare si sia trovato con diversi figli
avuti da relazioni illegittime.
Tipo
alquanto strano ed originale nella vita privata e pubblica, fu appassionatissimo di ballo fino a pochi anni prima di
morire. La passione per il ballo era stata ereditata dal padre, che fu un bravo e
noto ballerino.
Non rendendosi conto dell'età, frequentava le balere ed invitava
al ballo, riuscendoci, donne molto più giovani di lui. Faceva meraviglia
vedere Chiloti volteggiare nelle sale da ballo con quelle
leggiadre ragazze giovani che, nonostante la
differenza d'età, apprezzavano ugualmente le capacità danzanti del
cavaliere.
Aveva casa e bottega
a Porta Serrata, in un
edificio (già casa di contadini) all’angolo fra la Via di
Sant’Alberto e la Circonvallazione San Gaetanino.
La casa si
trovava a qualche decina di metri dalla strada maestra e giaceva vari
metri sotto il piano stradale.
Lì convenivano i pazienti in numero tale
che e’ sgnór Chileto spesso durava a visitare fino a notte inoltrata.
Esistono ancor oggi persone che possono testimoniare di aver ricevuto
benefici dalle sue cure che si fondavano principalmente sulla convinzione
che gran parte dei malanni dipendesse dal cattivo funzionamento
dell’intestino. Per questo elargiva a piene mani bcon (bocconi) o
pillole che confezionava lui stesso, avvolta in un’ostia e che
si deglutiva col sussidio di un bicchier d’acqua. |
Il
coccodrillo in metallo che serviva a stringere i tappini da mettere
alle bottiglie con liquidi
Disegno
che illustra la demolizione della casa di Achille Rotondi a Ravenna.
|
Dopo la
scomparsa del fratello Augusto a Forlì, aveva visto notevolmente
accrescersi la sua già numerosa clientela ed addossarsi sul suo
capo tutto il peso della tradizionale attività familiare.
Ed egli
continuò a curare i malati collo stesso spirito disinteressato che
aveva sempre caratterizzato la sua famiglia.
Fisicamente imponente,
era poco bello e rude nei modi come pare la tradizione imponesse a chi
esercitava quell’arte; sul lavoro vestiva solitamente
un lungo grembiule grigio che gli arrivava alla caviglia e incuteva
alquanta soggezione a coloro che ricorrevano alle sue cure.
Aveva il
coraggio di dichiararsi impotente di fronte ai mali più gravi che
pure riusciva a diagnosticare con precisione, avendo sempre un
chiaro concetto dei propri limiti e dei propri compiti, senza mai
avventurarsi in diagnosi di malattie che non gli erano note, ma
dedicando tutte le sue cure a quelle affezioni che gli erano
familiari e che riconosceva a prima vista.
Curava
specialmente le malattie intestinali, i
raffreddori, alcune affezioni epatiche con i miracolosi
« b’con » preparati nel suo piccolo laboratorio di via San
Gaetanino. Ma anche dolori reumatici,
i
foruncoli, nonché la psoriasi; e contro questo fastidiosissimo malanno
qualche volta ebbe partita vinta là dove tanti medici avevano
regolarmente fallito.
Prodigioso
anche un suo « ont ‘d manéla »
per i calli e la cicatrizzazione delle
ferite e un preparato contro la caduta dei capelli.
Fra le
erbe di cui si serviva maggiormente vi erano i fiori « ad gata
pozla », il ranuncolo d’acqua, l'ortica, i
rametti di « pimpinela » e tante altre piante che troviamo
indicate nel commento del Mattioli ai libri di Dioscoride ed anche
nel libro « Le piante medicinali della Romagna » di P. Zangheri e
V. Nigrisoli.
Anch’egli,
come i fratelli, amava parlare sempre in dialetto, la stessa lingua
della maggior parte dei suoi clienti, gente umile che avvertiva
nella bonaria competenza di questi erboristi un calore umano di gran
lunga preferibile alla soggezione ed al timore da cui si sentivano
prendere di fronte ai discorsi dotti, ma tanto distaccati, di medici
anche illustri nei loro freddi ambulatori.
La
ca d’ Zambuten d'Ravenna
(scritto da Vincenzo Rubboli) |
La casa
di Zambuten di Ravenna
(scritto da
Vincenzo Rubboli) |
A jò vest
ajr, pasènd par Pórta Srê, \
ch’i butéva zo la ca d’ Zambuten \ e u
m’è pêrs
ch’i purtes vi a scariulê \ i mi ricurd ad quând a séra
znen. \\
Quand che la mi mâma, la pureta, \ la-m mandéva a
cumprê da e’
sgnór Chilet \ du french ad bcon \ e una scatuleta \ d’un ont ch’l’avéva
un fjê, cun bon
rispët… \\
Lo e visitéva in grambjalon barten dri a la
stuva econömica,\
in cusena òman, dòn, zùvan, vec e burdel znen \
e par
ignon l’éva la su mingena, \ parché lo l’éra un cvël eceziunêl, \
l’éra dutór e l’éra nenca pzjêl. \
Casia, tamarend, sóifna, pimpinëla, \
gramegna,
urtiga, ziga-sorgh e ont d’Manëla… \
Tota röba fena cvela
t’a j mititja! mo e’ fjê,
sit banadet, \ d’in do’l tulitia? |
Ho visto ieri, passando per Porta Serrata, \
che buttavano giù
la casa di Zambuten \ e mi è sembrato
che portassero via a carriolate \ i
miei ricordi di quando ero bambino. \\
Quando la mia mamma, poveretta, \
mi mandava a comperare dal signor Chiletto \ due lire di pozione \ e una
scatoletta \ di un unguento che, aveva un puzzo, con buon rispetto… \\
Lui visitava con un grembialone grigio accanto alla
stufa\
in cucina uomini, donne, giovani, vecchi e ragazzini \
e per ognuno aveva la
medicina adatta, \ perché lui, cosa eccezionale, \ era dottore e anche
farmacista. \
Erba cassia, tamarindo, zolfo e pimpinella, \ gramigna,
ortica, pungitopo e unguento di Manëla… \
Tutta roba fina gli
ingredienti che ci mettevi! \ ma quel puzzo, – che tu sia benedetto! –
da dove lo ricavavi? |
Ernesta
Rotondi (la Zambutèna) ...
da Bagnacavallo
fino a Bologna
Ernesta
Rotondi (la Zambutèna), la primogenita, data di nascita e
morte sconosciute, abitava a Bagnacavallo, prima in una casa in
via Boncellino, poco prima del Fosso Vecchio, di proprietà del
medico e botanico Pietro Bubani (Bubani era molto attratto dalle
donne e si sussurrava che fosse una sua amante).
Fu
l’unica a dare un’impronta imprenditoriale al lavoro di
speziale tradendo un po' i princìpi di solidarietà della
famiglia.
Coi guadagni della sua attività, infatti
aveva fatto costruire una casa in via Canale Sinistra
Inferiore, verso Villa Prati. (foto sotto)
In alcuni giorni della settimana si
recava a Faenza, Imola e Bologna,
in via S. Donato, dove possedeva una casa e qui riceveva i pazienti. Faceva le diagnosi e
distribuiva pillole, unguenti e sciroppi purgativi, ma si dice che fosse specializzata
soprattutto in aborti.
A Faenza
l'Ernesta riceveva in una stanza al primo piano di una abitazione in via
Filanda Vecchia, oltre il cavalcavia verso Ravenna.
A Imola
chi voleva farsi «visitare» dalla Zambutèna, doveva andare in una casa,
forse ancora oggi esistente, in fondo a via Piave, col lato a est che
s'affaccia sulla Selice a pochi metri dal sottopassaggio della ferrovia.
Si presentava
come una signora anziana,
avvolta in tanti scialli, una testa candida di capelli ricciuti, da
sembrare un personaggio tolstoiano. La sua voce aveva un forte timbro, a
tratti dolce e a volte autoritario.
Era sposata
con Luigi Della Casa e con lui ebbe un figlio che, ironia della sorte,
divenne farmacista e si trasferì per lavoro a Modigliana.
In via
Boncellino Ernesta riceveva i pazienti e guariva i mali del tempo: il mal
della pietra (calcoli), le emorroidi, la gotta, il mal di fegato, il mal
del piscio, l’artrosi, il sangue grosso, i bigatti (vermi intestinali);
si rivolgevano a lei anche donne che non erano fertili o non avevano avuto
il latte dopo il parto. Pare che per il mal di denti consigliasse l’uso
dell’urina di una giovane donna vergine.
Di fronte alla
casa della Zambuténa, dall’altra parte della strada, abitava la
famiglia Pezzi e un loro discendente il prof. Emilio Pezzi, in una sua
pubblicazione, ha scritto dello zio Michele che, assieme ad altri ragazzi,
nei pressi di un pilastrino con Madonna di fianco al ponte sul fosso, ebbe
un’esperienza straordinaria guidata da Ernesta che diede loro dei “pcòn”
particolari, inghiottiti i quali provarono delle sensazioni bellissime e
spossanti, tanto che si risvegliarono sull’argine del Fosso Vecchio,
dopo alcune ore, completamente svuotati.
Sicuramente
Ernesta conosceva il potere di alcune erbe allucinogene come lo Stramonio,
la Digitale e la Belladonna, che sono senz’altro velenose ma usate nel
modo giusto sono curative e allucinogene; lo stesso zio raccontava di
averla vista, di notte, lungo l’argine del fosso mentre raccoglieva erbe
usando un randello di legno al posto dell’abituale falcetto.
Antonio
Rotondi ...
ad Alfonsine
Antonio
Rotondi (per
alcuni Ignazio) nato nel
1865 a Bagnacavallo, dal 1899 sposato a Mariangela (Angelina) Mazzari di Fusignano,
figlia di Dionigio Mazzarri e Laura Bentini, (morta nel 1951) nel 1898 si
era stabilito ad Alfonsine, in via della Fame (poi via Roma).
Non esercitò a lungo perché morì di influenza spagnola nel maggio 1919.
Ebbero nel 1899 una figlia Eleonora Rotondi che
sposò nel 1921 il maestro Luigi Amadei, nell'immediato dopoguerra
direttore delle Scuole Elementari, con cui ebbe un figlio: Antonino (Amedeo). Antonino fu partigiano e poi nel dopoguerra impiegato
contabile. Si
trasferì a Bologna nel 1952: sposato con Renata Ballardini.
(cliccare
sulle immagini per averne un ingrandimento)
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Anagrafe
di Antonio Rotondi e moglie.
Eleonora Rotondi (figlia di Antonio).
Luigi Amadei (marito di Eleonora).
Antonino Amadei (figlio di Luigi ed Eleonora). |
Antonio
Rotondi nel 1898 si
era stabilito ad Alfonsine, in via della Fame (poi via Roma).
La figlia Eleonora (Norina), che ereditò la casa nel 1919 alla
morte di Antonio, sposò nel 1921 il maestro Luigi Amadei; nello
stesso anno ebbero un figlio, e qui visserò fino al dopoguerra |
Alfredo
Rotondi ...
a Portomaggiore
Alfredo
Rotondi (1871-1933) andò a Portomaggiore
(FE).
Si sposò con Liberata Baroni. Egli ebbe
poca fortuna.
Erano tempi in cui il fascismo aveva preso il sopravvento.
Alfredo, antifascista, venne coinvolto in una rissa politica ed accusato
di aver preso parte ad uno scontro a fuoco durante il quale fu ucciso uno
squadrista. Fu condannato dal Tribunale speciale a 20 anni di carcere
durissimo assieme a quasi tutti gli avventori dell'Osteria dove si trovava
al momento del fatto.
La moglie e la figlia, a seguito della condanna e in
considerazioni delle ovvie ripercussioni nei rapporti sociali, lasciarono
l'Italia per trasferirsi in Sudamerica. La moglie era maestra e la figlia
maestra di piano.
Alfredo fu scarcerato dopo 10 anni, perché in fase
terminale per malattia di tubercolosi e tornò nella casa paterna a
Villanova, in Via Aguta, dove fu accolto dall'amico Tuné; per via
dell'accaduto infatti nessuno voleva o poteva dargli ospitalità. Morì
dopo pochi mesi senza più rivedere né la moglie, né la figlia, ma con
vicino l'amico Tuné.
Ora è
seppellito nel cimitero di Bagnacavallo, accanto alla moglie Liberata, lì
tumulata dopo la morte.
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