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Alfonsine

| Ricerche sull'anima di Alfonsine | Vagabondaggi 3

L'eccidio di via Placci, 
tra San Savino e Alfonsine
(settembre 1944)

a cura di Luciano Lucci 
(con l'utilizzo pressoché totale di un testo scritto da Osvaldo Contarini di Fusignano)

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(cliccare o toccare sulla mappa per averne un ingrandimento)

Mappa di via Placci, tra via Stroppata e fiume Senio, 
dove si svolsero i fatti 

         
               Questa che vi racconterò è la storia di Francesco Tarroni, di suo babbo Antonio, e di diverse famiglie di una piccola comunità di contadini che viveva tra il fiume Senio e Via Stroppata, nelle terre tra S. Savino, Alfonsine, Masiera, Fusignano, tragicamente sconvolte e colpite dalla violenza dell'ultima guerra.  

Un eccidio ('per ogni soldato tedesco ucciso dieci civili fucilati') dove perirono 3 persone e altre 10 si salvarono per miracolo. Un eccidio quasi dimenticato, poco raccontato pubblicamente, e mai celebrato come memoria storica della nostra zona.

 Solo nel 2000 una raccolta di testimonianze fatta da Osvaldo Contarini e nel 2015 la pubblicazione di una propria memoria scritta sull'eccidio di via Placci da parte dell'ex sindaco di Fusignano Angelo Argelli hanno riportato alla luce la tragedia di una famiglia composta da otto persone che a causa della guerra nel 1945 ne aveva perse quattro in modo orribile. 

I TARRONI (I MOR):
LA FAMIGLIA PIù COLPITA

Oltre a Francesco Tarroni, impiccato, fu ucciso il padre Antonio con una raffica. Il figlioletto Angelo morì per malattia quattro mesi dopo, ricoverato in ospedale dove già c'era sua mamma Maria Martoni (moglie di Francesco) che non fu informata; era stata ferita in un bombardamento con lo zio paterno di Francesco, Gaetano Tarroni, pure lui ferito. Arrivò poi un'altra bomba sull'ospedale e anche Gaetano morì. La moglie Maria imparò tutto questo (sia della morte del figlioletto che di Gaetano) mesi dopo quando uscì dall'ospedale.

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Cippo collocato ad Alfonsine, all'incrocio tra via Stroppata e via Borse , dove fu impiccato il giovane Francesco Tarroni

UN GRUPPO DI PARTIGIANI DI VIA BORSE DI ALFONSINE UCCISERO UN TEDESCO

L'esercito tedesco era arrivato in Italia non più come alleato ma come occupante. La zona di Alfonsine e Fusignano era considerata dai tedeschi 'infestata' dai partigiani. 

Cartelli speciali erano stati apposti su tutti gli incroci ("Achtung Banditen"), monito speciale per i soldati tedeschi che dovevano essere pronti all'azione in qualsiasi momento.

I "repubblichini", un residuo di italiani che impersonava la "gloria fascista" del passato, stavano coi tedeschi contro i partigiani, italiani che stavano dall'altra, con gli alleati. Una guerra civile dentro a una guerra mondiale.

Incrocio tra via Borse e via Stroppata ad Alfonsine

Verso la fine di Agosto 1944 un gruppo di partigiani di via Borse di Alfonsine tentò di disarmare nella zona denominata "I due ponti" (I du pont) tre soldati tedeschi di guardia all'incrocio tra via Borse e via Stroppata. Uno dei tre, avendo offerto resistenza, fu ucciso e un altro ferito. Quest'evento automaticamente richiedeva l'esecuzione di dieci civili per ogni soldato tedesco ucciso. I tedeschi erano imbestialiti dal continuo stillicidio che i partigiani provocavano con agguati uccisioni e sottrazione di armi e iniziarono una rappresaglia. Un comando delle SS tedesche era in via S. Savino avviò una vera e propria azione bellica. Per le strade a piedi o con veicoli, e per la campagna a cavallo, i soldati tedeschi stavano cercando i responsabili per l'azione partigiana di Via Borse e dieci ostaggi da sacrificare." 
(Angelo Argelli

DESTINO VOLLE CHE DUE AMANTI IMBOSCATI TRA IL FORMENTONE... 

"Alle quattro pomeridiane, nella campagna a sud di Via Borse, la zona attraversata da via Placci, che unisce via Stroppata all'argine del Senio (da dove oggi c'è la località chiamata 'Scambio'), un giovane ventenne fu avvistato in mezzo al formentone da una pattuglia di quattro cavalleggeri teutonici di stanza in via Stroppata, presso la famiglia Donati. Viveva in via Stroppata a nord di via Placci, identificato poi da testimoni oculari come un vicino di casa, uno dei quattro figli dei Morelli, che avevano un podere in quella zona. Indossava una camicia bianca ed era in compagnia di una giovane fusignanese. Quando i due sfortunati (presunti) amanti si resero conto di essere bersaglio dell'attenzione dei soldati, immediatamente corsero nella direzione opposta, verso sud attraverso il campo di granoturco e si rifugiarono sui rami di un albero frondoso. I soldati a cavallo passarono più volte sotto l'albero ma non riuscirono a trovarli" (Orlando Contarini)

 

FRANCESCO TARRONI, EROE PER CASO...

 Francesco Tarroni trentacinquenne, in compagnia del padre Antonio di 57 anni, dello zio paterno Gaetano, della moglie Maria Martoni di 33 anni e del figlio Giancarlo di cinque anni, era indaffarato nella raccolta di patate in un campo al nord della sua proprietà. Il figlio maggiore Angelo, undicenne, era andato a Fusignano a riprendere dal fabbro il vomere dell'aratro da usarsi per l'aratura del giorno successivo. Giordano, il figlio più giovane, di poco più di un anno, era rimasto a casa con la nonna Maria Seganti. Con l'avvicinarsi della sera Francesco si stava affrettando a terminare la raccolta prima di ritomare a casa per accudire il suo bestiame...

... All'improvviso la pace di questo piccolo gruppo di lavoratori fu turbata da un ben conosciuto vicino, il quale con una mossa quanto mai avventata e repentina era uscito dal campo di granoturco alla loro destra e come un forsennato passò tra di loro in direzione ovest. 

Il giovane ragazzo poco più di una ventina d'anni, ansimante e visibilmente sconvolto, senza fermarsi lasciò ai presenti un messaggio che sembrò subito tanto funesto come procurò di esserlo in breve tempo: "Se ve lo chiedono, non dite chi sono o ci ammazzano tutti". 

Quasi per caso i quattro soldati intravidero il giovane fuggiasco uscire dal campo di granoturco e si resero conto che aveva parlato coi membri della famiglia Tarroni. 

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Francesco Tarroni

Francesco Tarroni (classe 1909) era stato richiamato nel servizio militare come Carabiniere, prima a Porto Corsivi (Ravenna), poi ad Alfonsine. La sua grande attività bellica consisteva nel pattugliare la ferrovia locale.

Data la vicinanza alla sua famiglia mai aveva sentito il gravame del servizio militare e continuava indisturbato la sua attività di capo famiglia. L'anno 1944 era stato particolarmente propizio per la sua famiglia ed aveva accumulato abbastanza bestiame da riempire completamente la sua stalla, cosa per lui quanto mai gradita. Con l'aggiunta di quattro mucche assegnategli dal Signor Bondi, amministratore del Piancastelli, aveva un numero totale di venticinque capi di bestiame. Per Francesco tutto ciò significava sicurezza per la sua famiglia, tanto più che ora la pace sembrava più vicina.

 

Immediatamente i soldati cambiarono corso in direzione del giovane, ma i cavalli rifiutarono di saltare il fosso oltre cui si trovavano e dovettero allungare il percorso, consentendo al fuggiasco di trovare salvezza in uno dei tanti rifugi disseminati nella campagna. 

Raggiunta la famiglia Tarroni i soldati si fermarono e tra lo stupore dei presenti si diressero verso Francesco, costringendolo a seguirli.

Mancando ogni conoscenza della lingua tedesca i presenti gesticolando con la mano nella direzione dove il giovane era fuggito cercavano di spiegare come meglio potevano che loro erano innocenti. 

Nel frattempo, dopo un po', una giovane figura femminile raggiunse la proprietà di un'altra famiglia Taroni (Canarël) che aveva la casa sotto l'argine del fiume, passò per il cortile visibilmente sconvolta, con gran fretta, portando sotto il braccio una scatola da scarpe. Si fermò solo il tempo necessario di riferire brevemente la cattura di Francesco Tarroni subito scomparve lungo la riva del fiume. (La testimonianza oculare di qualcuno dei Canarël afferma che era una giovane donna fusignanese)

Francesco venne prima portato a casa sua dove i soldati perquisirono la stalla e la casa, poi si avviarono verso la casa del vicino Ancarani (Bigarân), con Francesco confuso e impaurito tra i due cavalli, a piedi nudi ed ancora col cappello di paglia sulla testa.

La famiglia Tarroni, la moglie Maria coi due figlioletti più grandi Angelo di 11 anni, appena tornato da Fusignano e Giancarlo di 5, seguiva i tedeschi lungo la carraia che costeggiava la strada, fino al fosso che separava le due proprietà, da dove poi osservarono l'evolversi di questa sconcertante vicenda. Ad un certo punto la madre di Francesco non seppe più trattenersi e si lanciò contro il cavaliere di destra, da cui fu rapidamente e violentemente respinta, cadendo nel fosso adiacente.

Il drappello non avendo ricevuto neppure presso gli Ancarani risposta alla loro ricerca ritornò verso via Stroppata, presso la casa della famiglia Donati (Maciulon) in Via Stroppata: Francesco fu lasciato nel cascinale. 

Mentre due dei soldati sul portone facevano guardia a Francesco un'altro si diresse rapidamente a Fusignano per convocare il Comandante delle SS.

Francesco nel mezzo dell'ampio cascinale, in piedi ed in silenzio, appariva profondamente sopraffatto dagli eventi e grosse gocce di sudore freddo apparivano da sotto il cappello di paglia e scorrevano lungo le impolverate guance. 

Maria Bosi, moglie di Giuseppe (Gianon) Donati gli portò una sedia e Francesco sedette con Maria al suo fianco. Le due figlie piccole dei Donati rimasero sulla soglia della porta tra la cascina e la casa. Giuseppe ed il fratello Angelo Donati seguivano tutto nell'andito della casa e subito mandarono la madre Assunta, per via di una porta posteriore ad avvisare il vicino più prossimo dal lato opposto di via Placci, sapendo che parecchi rifugi stavano ospitando partigiani. Cominciò così una catena di informazione che rapidamente divulgò la notizia in tutto il vicinato.
Dopo poco tempo il Comandante delle SS e tre altri soldati giunsero da Fusignano su una camionetta scoperta. Descritto come un "omone" alto con una gran pancia, questi non perse tempo in chiacchiere e subito attaccò Francesco con le consuete domande: 
"Tu parlare con partigiano?", a cui Francesco rispondeva sempre con un deciso "No". 

Non ci volle molto all'esperto Comandante per capire che non c'era speranza di farlo parlare e, forse, nemmeno un pressante interesse. 

Francesco fu sentito ripetere un paio di volte "A vut avdé ch'i m`amaza!" ("Vuoi vedere che mi ammazzano!")

RAUS! RAUS! VIA, VIA! ... col dito del comandante indicò di uscire all'aperto.

Ora erano tutti fuori nel cortile. Muovendosi lentamente Francesco virò leggermente il capo a sinistra, quasi aspettando un gesto di incoraggiamento che non giunse. Aveva temuto tanto per la sua vita che gli sembrava impossibile credere che lo lasciassero andare incolume. Ma perché no? - pensò - e poi lui non aveva commesso alcun reato; aveva persino avuto la insospettata forza d'animo e il coraggio di proteggere il vicino, senza dubbio salvandogli la vita. Forse i Tedeschi volevano solo spaventarlo!

PRIMA FU FERITO DA UN COLPO DI PISTOLA

Ma dopo qualche passo, mentre stava passando vicino al pozzo uno dei soldati sparò una raffica di mitra verso di lui senza apparentemente toccarlo. Non c'era dubbio che Francesco sapeva che i Tedeschi non stavano scherzando. Camminava avanti vedendo con la coda dell'occhio i tedeschi di fianco, che quindi non stavano puntandolo. Ma il Comandante delle SS con la mano destra aprì la fondina che aveva a suo fianco, estrasse la sua pistola e quasi a rallentatore alzò il braccio teso e, puntando in direzione di Francesco, aspettò fin quando la sua vittima fece il primo passo sulla strada ed era di fronte, poi sparò un solo colpo, ben preciso, che colpì Francesco alla spalla sinistra. 

Un urlo selvaggio di dolore e di sorpresa arrestò Francesco che restò in piedi, quasi paralizzato, portando la sua mano destra alla spalla sinistra.

Gli involontari testimoni si resero conto immediatamente che il Comandante aveva ben mirato solo per ferire la sua vittima e sapevano che le sofferenze del vicino erano appena cominciate.

Senza ricevere ordini due dei soldati si diressero verso Francesco e lo riportarono nel cortile, mentre uno stillicidio continuo dalla ferita creava una macchia sempre più grande in quella camicia che ora appariva anche più bianca di prima.

Il Comandante, senza dir parola e con la pistola in mano, si girò verso tutti i componenti della famiglia Donati che non si erano mossi come paralizzati. Poi, chiese una corda che gli fu rapidamente portata, mentre girato verso i suoi soldati urlò alcuni ordini.

POI CARICATO E LEGATO SU UNA CAMIONETTA

Francesco fu prontamente caricato sulla camionetta, tra i due sedili posteriori ed a ridosso della ruota di scorta che sporgeva, alta, dal retro della vettura. Francesco fu girato indietro, con le braccia tese con due corde legate ai suoi polsi e ai due lati della vettura. La stazione eretta era mantenuta anche dai due soldati che gli stavano a fianco, un triste ostensorio che ricordava amaramente ai presenti la figura di Gesù Cristo. Col Comandante a lato dell'autista la camionetta uscì dal cortile dei Donati e si diresse in Via Placci, passando lentamente la casa dei Tarroni si fermarono sulla carraia oltre la casa degli Ancarani, mentre la famiglia sgomenta restò paralizzata ed angosciosa sulla carraia parallela alla strada. Stavano decidendo il luogo migliore per l'esecuzione finale. Cambiarono idea e scelsero un luogo molto più simbolico per i loro.

POI FU SCARICATO E TRASCINATO LEGATO  FINO A 'I DU PONT' DOVE ERA STATO UCCISO IL SOLDATO TEDESCO

     Così la crudele e macabra processione si mosse di nuovo verso ovest, lentamente, mostrando ai presenti il corpo insanguinato e quasi flaccido di Francesco che a questo punto a capo chino si reggeva in piedi più per le corde a cui era legato e per la ruota che per forza propria. 

      La madre di Francesco che aveva seguito sgomenta i movimenti dei tedeschi, quando vide la macchina che stava ritornando verso di lei, non riuscì a resistere. Affranta dal dolore, con una corsa incontrollata, si lanciò verso la macchina ed aggrappatasi alla ruota di scorta implorava in favore del figlio: "L'è mi fiól! Ch'i m'a lésa andé!" ("E' mio figlio! Lasciatelo andare!"). 

Francesco a questo punto, in ginocchio e con la testa piegata sulla ruota di scorta come se fosse il ceppo del carnefice, animato dal gesto disperato della madre trovò la forza di lanciarle un messaggio profetico e pieno d'angoscia: "Mâma, a m'aracmed i mi tabëch!" ("Mamma, mi raccomando i miei bambini!").

      Uno dei soldati dal sedile posteriore riuscì a staccare le mani incollate alla macchina e Maria fu forzata ad abbandonare la sua presa, unico contatto col figlio, e sorpresa dalla forza di gravità, avendole il dolore paralizzato ogni muscolo del suo corpo, cadde al suolo quasi inerte, mentre la macchina col figlio morente procedeva il suo percorso dirigendosi verso Alfonsine per Via Stroppata.

INFINE IMPICCATO ad alfonsine a un lampione all'incrocio tra via borse e via stroppata

Pare che la SS tedesca volesse aggiungere crudeltà ad un messaggio già atrocemente esplicito, quando sembra abbia lasciato cadere il corpo di Francesco dietro alla macchina, trascinandolo in quella strada ghiaiata e polverosa per l'ultimo tratto. 

Francesco infatti non offrì alcuna resistenza quando il suo corpo fu impiccato ad un unico lampione posto sul lato sud-ovest dell'incrocio di Via Borse con Via Stroppata, zona detta 'Due Ponti'. 

In un cartello appeso ai piedi della vittima si leggeva che il corpo di questo partigiano non si poteva rimuovere per tre giorni. 

Appena se ne furono andati i soldati, col favore delle tenebre, alcune donne che avevano osservato l'accaduto sbigottite dalle loro case, adagiarono piamente il corpo di Francesco sul lato del fosso e lo coprirono con un lenzuolo.

MA LA RAPPRESAGLIA CONTINUò

      La famiglia Tarroni si era raccolta in lutto a casa propria, quando, saputa la tragica notizia, si recò a trovarli in bicicletta da Masiera, Stefano Dalla Casa, suocero di Jolanda Tarroni, figlia di Antonio Tarroni.

Verso le dieci della notte ci fu nuovamente un'irruzione dei soldati tedeschi i quali, con incomprensibili ordini a voce alta ed eloquenti colpi sulla porta col calcio dei loro fucili, ordinarono agli occupanti di aprire la porta. Maria, vedova di Francesco, aprì la porta ed immediatamente alcuni soldati irruppero nella casa e senza difficoltà si dispersero in direzioni diverse in cerca di adulti da prelevare. 

Al piano superiore incontrarono Antonio Tarroni, Stefano Dalla Casa e il fratello di Antonio, Gaetano, i quali furono portati immediatamente nel cortile. Alcune casse-panche al piano superiore furono forzate aperte con le baionette. Gaetano nella fretta aveva indossato il cappello che gli fu rapidamente tolto. Alla vista dei suoi capelli bianchi e della sua andatura zoppicante per una vecchia ferita di guerra, Gaetano non fu ritenuto elemento ideale da prelevare e fu rimandato in casa con la richiesta di trovare una corda per loro. 

Circa una decina di soldati, con Antonio e Stefano, lasciarono il cortile e si incamminarono verso la casa di Ancarani. Nel buio della notte, interrotto solo da alcune pile portatili, le voci dei soldati rompevano un silenzio quasi assoluto

Quando arrivarono nel cortile degli Ancarani, Antonio Tarroni e Stefano Dalla Casa erano già stati legati con le mani dietro la schiena e l'un con l'altro di schiena.

Gli occupanti della casa Ancarani furono svegliati. Giovanni Marangoni, un giovane atletico professore di lingue, che faceva da interprete per il comando tedesco a S. Potito, proprietario della casa e locatore, che godeva di buoni rapporti coi tedeschi, apparve alla finestra della sua camera da letto al piano superiore. Mezzo svestito e salvacondotto tedesco in mano, Giovanni aprì la porta parlando ai soldati in tedesco. Prevedendo rappresaglie il Marangoni durante la sera aveva mandato tutti gli adulti maschi della casa (Giuseppe Ancarani, Elio Ancarani ed Angelino Argelli) oltre il fiume Senio a casa di alcuni amici della Rossetta. Dopo una sommaria perquisizione che non produsse altri ostaggi, i soldati stracciarono le carte offerte e senza perdere tempo misero un laccio al collo a Giovanni e lo trassero nel cortile.

La moglie di Giovanni Marangoni, rendendosi conto che la immunità del marito era venuta meno, disperatamente cominciò ad implorare i soldati in tedesco senza alcun effetto. Incuranti delle richieste i soldati, coi tre ostaggi, lasciarono subito la casa e si diressero verso Via Stroppata.

GIOVANNI MARANGONI RIUSCì A FUGGIRE

Stefano e Giovanni compresero bene che i soldati stavano per impiccarli tutti alla cabina elettrica a pochi metri di distanza. Mentre Giovanni continuava a chiedere clemenza in tedesco, si rese conto che il cappio che aveva al collo cominciava ad essere sempre più lento ad ogni passo fatto, in una forma più che casuale. Giunti all'altezza della cabina elettrica, approfittando del buio e della confusione, Giovanni sfilò il laccio dal collo e con mossa calcolata e repentina saltò oltre il fosso passando tra le folte e spinose fronde dell'alta siepe di biancospino. Contrariamente a qualsiasi previsione; una volta raggiunta l'altra riva del fosso, oltre la siepe, l'agile Giovanni prese vantaggio delle sue doti atletiche ed immediatamente corse verso il fiume per una cinquantina di metri, poi si diresse verso sud. Dopo una breve corsa si arrampicò su un albero dove rimase immobile.

La risposta immediata dei soldati tedeschi fu una pioggia di pallottole sparate nella direzione dove Giovanni era scomparso oltre la siepe; poi, raggiunta l'altra riva i soldati si sparsero per la campagna circostante sparando all'impazzata nel buio impenetrabile della notte. Miracolosamente Giovanni fu colpito di striscio da una sola pallottola in un orecchio, lasciandogli un ricordo permanente con una cicatrice quasi impercettibile. Parecchie volte i soldati passarono sotto l'albero e Giovanni li udiva imprecanti e promettendo un severo castigo se lo avessero trovato.

stefano dalla casa e antonio tarroni FURONO mitragliati. 

antonio morì...

Perse tracce di Giovanni, tutta l'attenzione dei soldati fu rivolta verso Stefano ed Antonio: i quali trepidanti, legati uno all'altro, avevano seguito tutta la scena e senza dubbio sapevano che la loro sorte era scontata. Senza un attimo di esitazione i soldati cominciarono a sparare: col mitra verso i due sfortunati. Stefano che era virato dalla parte opposta della cabina elettrica ebbe la prontezza di riflessi, se non un vero e proprio istinto di salvezza, di lanciarsi nel fosso antistante. 

Essendo ancora legati l'uno all'altro Stefano si tirò dietro di sé anche Antonio, quale era già stato colpito al torace da parecchi proiettili. 

A questo punto i soldati concentrarono tutto il loro fuoco e la loro rabbia su quella massa scura ed amorfa che erano i corpi di Stefano ed Antonio. Con raffiche all'andata ed al ritorno continuarono a colpire il bersaglio umano a bruciapelo finché si sentirono soddisfatti che entrambi erano morti. 

Pochi minuti dopo tatti i soldati lasciarono il posto e si recarono di nuovo alla casa di Ancarani, a questa punto occupata solo da donne e bambini.

Appena entrati nella casa uno dei soldati sparò un colpo di pistola contro il decenne Renzo Ancarani, il quale stava cercando di salire al piano superiore per vestirsi. 

Grazie al fatto che Renzo abbassò la testa ed alla prontezza di sua zia che spinse il braccio del soldato, la pallottola mancò il ragazzo, lasciando un buco nella parete che rimase parecchi anni come triste ricordo di quell'episodio. Tutti gli occupanti della casa, semi vestiti con le donne in camicia da notte, furono forzati a restare al piano terreno. Avendo contato i letti al piano superiore i soldati si resero che mancavano occupanti della casa ed aggredirono verbalmente e fisicamente le donne della casa, particolarmente la moglie di Giovanni la quale continuamente chiedeva notizie del marito non credendo che fosse riuscito a fuggire.

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Antonio Tarroni

 

Mentre alcuni dei soldati cominciarono una sistematica ricerca della casa, altri stesero un materiale plastico, probabilmente tritolo, sui letti al piano superiore e vi appesero fuoco (il tritolo brucia molto lentamente in mancanza di ventilazione). Altri ancora si recarono nella stalla e non trovando rifugi appiccarono fuoco al fieno nelle greppie ed alla paglia sotto le mucche. Eventualmente, mossi dai muggiti incessanti delle bestie, i soldati permisero alla famiglia di far uscire gli animali.

Michele, il figlio di Giovanni, di soli sei mesi di età era rimasto solo al piano superiore, cominciò a piangere e nonostante l'insistenza delle donne fu proibito a loro di recarsi al piano superiore.

Maria Argnani, in cerca del marito Stefano Dalla Casa, verso le due del mattino si era recata a casa di Ancarani e udendo il bambino piangere, forzando una porta, riuscì a soccorrerlo. Avendo trovato abbastanza vino nella cantina ed una cesta piena di uova fresche, i soldati costrinsero le donne a cucinare, festeggiando le loro imprese in una casa piena di lutto e di dolore. Alcuni dei soldati tedeschi appartenevano alle SS, altri alla Wennacht ed alcuni parlavano anche italiano, probabilmente di origine altoatesina. Col passare del tempo il fumo proveniente dai letti in fiamme cominciava anche ad invadere le camere al piano terra. Più tardi, quando qualcuno aprì le finestre al primo piano, il fuoco divampò più rapidamente distruggendo parte della casa.

Nel frattempo, sceso dall'albero dopo qualche ora quando tutto appariva calmo, Giovanni si diresse verso la casa di vicini. Dopo aver ricevuto vestiti per coprirsi attraversò il fiume Senio rifugiandosi presso la casa di Silvio Tazzari (Tazér) nella Rossetta.

Stefano Dalla Casa era sopravvissuto

Miracolosamente, dopo le varie raffiche di mitraglia, Stefano Dalla Casa era sopravvissuto a quella tempesta di proiettili. Il corpo di Antonio, cadutogli sopra, lo aveva protetto da ferite mortali, anche se innumerevoli pallottole gli avevano crivellato i piedi e rotte parecchie ossa delle gambe.

Aveva finto di essere morto, dentro al fosso, sotto il corpo di Antonio. Sapeva che Antonio era morto perché non lo aveva sentito muoversi; neppure lo aveva sentito respirare. Stefano non poteva muoversi e le gambe gli dolevano terribilmente. Ormai i soldati se ne erano andati senza lasciare alcuna guardia e da lontano li sentiva facendo un gran baccano in casa degli Ancarani. Un paio di loro erano anche usciti nel cortile per un bisogno corporale e li aveva uditi parlare a pochi metri da lui. Cercò di liberarsi dal peso del colpo di Antonio, ma le gambe non lo aiutarono, decise perciò di slegarsi le mani ancora unite con una corda a quelle di Antonio e dietro la sua schiena. Con gran fatica ed un tempo che gli sembrò un'eternità riuscì a slegarsi e finalmente poté muovere il corpo che lo immobilizzava. Doveva muoversi, ma come? E dove? Lo avrebbero cercato di sicuro appena fossero ritornati e certamente ucciso. A fatica si tirò sulla riva del fosso e si rese conto che non poteva camminare. Anche i muscoli delle cosce gli parevano di un'altra persona, con la sola eccezione che qualsiasi movimento gli provocava un dolore terribile.

La casa più vicina era quella dei Tarroni, decise perciò di trascinarsi, senza l'aiuto delle gambe, in quella direzione. La distanza di circa duecento metri pareva essersi estesa di parecchi chilometri; solchi e fosserelli diventavano ostacoli insormontabili. Avrebbe potuto raggiungere la casa, ma si rese conto che avrebbe potuto metter a repentaglio la vita di tutti gli altri occupanti. Si diresse verso il pagliaio posto sul lato nord est del cortile. Poco era il fieno libero per coprirsi. Trovò un'area alla base del pagliaio dove il fieno era più soffice. In fretta rimosse quanto mai poteva, scavò un po' di terra ed entrò nell'angusto spazio coprendosi poi col fieno rimosso. Aveva esaurito tutte le sue energie e dal dolore cadde in un sonno delirante.

Verso le tre del mattino sua moglie Maria furtivamente lasciò la casa degli Ancarani. Nessuno aveva potuto dirle cosa era successo a Stefano ed Antonio; doveva cercarlo. Con circospezione uscì dal retro della casa poi raggiunse la strada. Nel buio della notte riuscì a trovare un corpo adagiato nel fosso. Non era vivo e non era suo marito. Corse su e giù per i due fossi senza trovarlo. Cominciò a chiamarlo: "Stuanen? tuanen?" Nessuna risposta! A tasto non lo avrebbe mai trovato. Doveva essere vivo e certamente un po' più lontano. Vista e tatto erano stati mutili perciò decise di continuare a chiamarlo con voce sempre più alta man mano che si allontanava dai soldati. Meno udiva le loro voci e più alzava la sua per chiamare il marito.

Dopo un tempo interminabile le parve di udire una voce. Lo chiamò di nuovo ed attese. Udì il suo nome da una voce famigliare che sembrava provenire da molto lontano. Si diresse nella stessa direzione, era vicina al pagliaio eppure non lo trovò finché Stefano le disse che era sotto il fieno.

Voleva portarlo in casa ma Stefano rifiutò. L'alba era prossima ed i soldati non sarebbero stati lontano. Maria lo nascose un po' meglio poi raggiunse i Tarroni dove diede le tristi notizie agli adulti, mentre i bambini stavano dormendo.

STEFANO FU CATTURATO DAI TEDESCHI

I problemi per Stefano erano solo cominciati. I soldati uscirono dalla casa degli Ancarani verso le sette del mattino ed, avendo trovato un solo cadavere, si diressero immediatamente verso la casa dei Tarroni. Il giovane Angelo di 11 anni, ignaro dell'accaduto, fu interrogato a fucili spianati nel suo cortile, mentre gli altri soldati cominciarono una ricerca sistematica del fuggiasco. Tracce di sangue indicarono loro la direzione da prendere ed in poco tempo lo trovarono. Sotto il fieno vi era una dimostrazione vivente di estrema sofferenza ed angoscia. Furiosi per la piega che le cose avevano assunto, i soldati ignorarono le misere condizioni in cui si trovava Stefano ed incuranti lo tirarono fuori dal suo nascondiglio. Tutto grondante di sangue ed in gran dolore cercarono di metterlo in piedi. Stefano cadde al suolo; i piedi e le gambe non lo reggevano. Uno dei soldati procurò una sedia dalla casa e Stefano fu trasportato, seduto sulla sedia, in mezzo al cortile, dove si contemplava un'esecuzione sommaria e dimostrativa. Mentre Stefano in tedesco si appellava alla loro clemenza, Maria ormai provata da una notte di angoscia e disperazione si lanciò contro i soldati che mantenevano il fucile spianato su di lui.

Piangendo, urlando e gesticolando Maria era una sicura dimostrazione di una determinazione che può essere presente solo dopo che tutto è stato perduto. Tanta fu la sua determinazione che i soldati desistettero dal loro compito e la lasciarono portare il marito in casa e se ne andarono.

STEFANO FERITO FU LASCIATO IN CASA

Incoraggiata dal successo Maria mandò una signora di San Savino a Masiera per far sapere l'accaduto ai suoi figli. La figlia Ornella in bicicletta si diresse immediatamente alla casa dei Tarroni dove arrivò alle ore nove circa, trovando il padre sdraiato su un materasso steso sul pavimento. Subito Ornella fu mandata a chiamare il Dottor Riccardo Babini a Fusignano ed alla farmacia per comprare una iniezione antitetanica.

Ben sapeva il Dottor Babini quanto pericoloso fosse recarsi in quel luogo senza scorta ed incoraggiò Ornella ad interpellare l'aiuto dei fascisti locali.

Ottenuta la fiala di siero antitetanico presso la farmacia dell'Ospedale San Rocco (Catoz), Ornella si recò immediatamente dal Tenente Piero Pacchioni (comandante della Milizia Fascista) alla Casa del Fascio, dove il Pacchioni offrì completa e totale cooperazione. Rimandò Ornella a Masiera e prese con se la fialetta antitetanica. Alle nove e mezza circa il Dottor Babini, accompagnato dal Tenente Pacchioni, arrivarono alla casa dei Tarroni dove Stefano ricevette le prime cure mediche.

Essendo la situazione in quest'area del paese ancora quanto mai pericolosa fu solo verso le cinque o sei del pomeriggio che una macchina con una delegazione fascista locale, riuscì a compiere il trasporto di Stefano all'Ospedale. Non senza problemi perché la macchina dovette sostare vicino alle scuole del Viale Vittorio Veneto finché i soldati tedeschi lasciarono il Corso, vicino all'Ospedale.

Stefano fu immediatamente portato in sala operatoria. Era questo il giorno 10 settembre 1944; solo dopo parecchi interventi chirurgici e quando tutte le connessioni con Masiera stavano per essere troncate, Stefano fu dimesso dall'Ospedale ai primi di dicembre. 

STEFANO DALLA CASA si salvò, MA DOPO UN MESE UNA GRANATA UCCISE ENTRAMBI I FIGLI E FERì LA MOGLIE DI UNO DI QUESTI JOLANDA TARRONI, FIGLIA DI ANTONIO.

Il fato doveva colpirlo ancora una volta in breve tempo, quando il 14 dicembre una granata degli Alleati sorprese la sua famiglia nel cortile della casa uccidendo entrambe i figli Osvaldo (26 anni) ed Adriano (23 anni) e ferendo la moglie di Osvaldo, Iolanda Tarroni, figlia di Antonio.  

la famiglia rimasta dei tarroni fu colpita ancora...

Per uno strano gioco del destino i problemi non erano cessati neanche per la famiglia Tarroni. 

Alla fine del mese di dicembre 1944 una bomba colpì il rifugio sotterraneo dei Tarroni ferendo Gaetano Tarroni e Maria Martoni (moglie di Francesco).  

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La tomba della famiglia Tarroni al cimitero di Fusignano

Portati all'Ospedale di Fusignano, durante un'incursione aerea del primo gennaio 1945 alle ore 0:30 Gaetano fu ferito e morì il giorno successivo. Due settimane dopo Giancarlo, il più giovane dei figli di Francesco prese un mal di gola che si aggravò con difficoltà respiratorie (il cosidetto 'croup' cioè la laringotracheobronchite causata da un virus e che colpisce i bambini). Fu immediatamente portato all'Ospedale di Fusignano da Giuseppe Ancarani su una carriola, dove morì poche ore dopo (17 Gennaio 1945).

La stalla dei Tarroni, fonte di sostegno per i pochi ed inabili superstiti della famiglia, in pochi mesi fu svuotata del suo contenuto bovino dai soldati tedeschi, lasciando la famiglia in uno stato di estrema povertà. Per anni a venire vento, acqua e neve entravano dalle finestre della casa dove carta, non vetri, aveva il compito imperfetto di proteggerli dalle intemperie. Ma continuarono a vivere!

IL RASTRELLAMENTO CONTINUò IN VIA STROPPATA. 
QUI FU UCCISO IL COLONO ANTONIO GARAVINI PERCHè NON SI FERMò ALL'"HALT"

Consci di non aver completato il loro compito i soldati tedeschi dopo aver lasciato la casa Tarroni continuarono la loro caccia all'uomo nella campagna circostante. Entrarono in parecchie case in Via Stroppata catturando dieci adulti maschi. Durante questo rastrellamento uccisero il colono Antonio Garavini di 52 anni, che aveva mancato di fermarsi ad un "Halt" dei soldati, freddandolo in pieno.

Cinque dei civili catturati dai soldati (Lorenzo Argelli, Giuseppe Emaldi, Lorenzo Bartolotti coi figli Luigi e Secondo) furono condotti al Cimitero di Fusignano dove scavarono una fossa per i dieci prigionieri.

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Antonio Garavini 
colono di 52 anni

 

Fu solamente per l'intervento del Tenente Pacchioni che l'esecuzione non ebbe luogo. 

Compito non facile per il Pacchioni (il quale era stato prima catturato dai partigiani e poi rilasciato solo quando si resero conto che egli era la sola fonte di speranza per i dieci prigionieri). 

I dieci furono caricati su un camion e condotti via in gran fretta. Furono rilasciati incolumi uno alla volta tra Maiano e Massa Lombarda.

Il Comando Tedesco locale successivamente si scusò per gli atti commessi verso la famiglia Tarroni ed i soldati responsabili dell'eccidio furono immediatamente trasferiti.

Anche se i Tedeschi non avevano compiuto le dieci esecuzioni prestabilite avevano tuttavia lasciato una profonda impressione e cicatrici perenni nei corpi e nella mente di chi era stato vittima o testimone di questa atrocità.

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