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Terzo Lori
Terzo Lori era nato il 4 luglio 1913, da Domenico, pastore di S. Marcello Pistoiese, e Menetti Giovanna di Alfonsine. Vivevano in una casa fuori paese, verso la confluenza tra Senio e Reno; vi abitavano per una parte dell'anno, nella stagione utile per il pascolo delle graggi; poi tornavano in Toscana dove risiedeva il resto della famiglia. Terzo Lori all'età di due anni fu condotto in Francia dai genitori, lì emigrati perché il padre era perseguitato dal fascismo. A 14 anni Terzo fu costretto a lavorare nelle miniere di Saint Etienne, a diciott'anni partecipò attivamente agli scioperi dei minatori, che erano costretti a vivere e a lavorare in condizioni miserabili. Lo sciopero suscitò la reazione del governo e Terzo Lori, che aveva agitato e organizzato gli operai della sua miniera, venne in un primo tempo arrestato e in seguito espulso dalla Francia. Poi Terzo visse tre mesi a Bruxelles, soffrendo la fame e l'esilio, senza una casa che l'accogliesse fraternamente, fino a quando non rientrò clandestinamente in Francia, ove rimase per due mesi nascosto in casa di un compagno. Avendo parenti in Italia, il Partito Comunista, nelle cui file Lori militava, gli consigliò di rientrare. Nel 1933, da appena un mese ritornato nel suo paese natale, dovette rispondere alla chiamata alle armi. A Ferrara, nel 27° Reggimento Fanteria, organizzò cellule antifasciste e tenne legami con i compagni francesi per qualche mese poi un traditore lo denunziò al Comando e Terzo, arrestato il 6 luglio, definito "fornaio comunista", il 3 ottobre 1935 veniva condannato a 3 anni di pena, per "attività comunista in contatto con il Centro estero di Parigi". Confinato nell'isola di Ventotene (CT) e nei paesi di Accettura e Pisticci, in provincia di Matera, Lori trascorse anche 13 mesi nella compagnia di disciplina di Pizzighettone (CR). Liberato l'11 agosto 1939, dopo pochi giorni (durante i quali fece ritorno ad Alfonsine), Terzo venne nuovamente arrestato, perché la polizia aveva appreso da fonte fiduciaria che intendeva espatriare, e fu ancora confinato il 26 settembre 1939, per altri tre anni, prima all'isola d'Elba e poi a Ventotene, fino all'agosto 1943. Lì Lori incontrò autorevoli esponenti dell' antifascismo italiano (da Scoccimarro a Terracini) ed ebbe modo di frequentare "l'Università del confino", istruendosi e approfondendo la sua coscienza politica. Del confino di Terzo a Ventotene abbiamo la testimonianza del volontario nelle Brigate Internazionali in Spagna, Giovanni Pesce: "C'era una grande solidarietà, perché lui voleva sapere della guerra di Spagna, voleva sapere i particolari di quella lotta e perché siamo andati volontari in Spagna, perché 4.000 italiani hanno abbandonato famiglia, genitori, mogli, figli e sono andati a com-battere per la libertà del popolo spagnolo, che è poi la libertà di ognuno di noi. Questi rapporti politici si sono trasformati poi in una grande amicizia. Ogni giorno ci vedevamo, par-lavamo e discutevamo della vita del confino e si discuteva anche della politica e ognuno esprimeva la sua opinione di fronte ai fatti che avvenivano in Europa e nel Mondo. Mi ricordo che in quel momento c'era l'avanzata dell'Armata Rossa dopo la sconfitta di Stalingrado e lui era entusiasta, aveva una fiducia illimitata. Finalmente c'era la presenza dell'Unione Sovietica a dare questo gran-de contributo alla coalizione antihitleriana e questo creava in ognuno di noi, non soltanto in Lori. entusiasmo fiducia passione". Terzo potè tornare ad Alfonsine da uomo libero solo dopo otto anni di segregazione, in pratica, lasciando in Francia il padre, che si era unito ad un'altra donna, il padrigno, un fratello e una sorella "che amava e desiderava vedere". La mamma gli era morta nel '38 e non aveva potuto vederla. Non fu semplice per Terzo inserirsi nel paese, aveva parenti, ma non tutti erano ben disposti nei suoi confronti, dovette cambiar casa varie volte,
(abitò anche a casa Bendazzi, dove incontrò Rino Bendazzi), finché trovò generosa ospitalità presso la famiglia Bartolotti, nella campagna intorno a
Savarna. Lori trovò lavoro come muratore presso l'impresa edile di Natale Zamboni, e qui risulta che Terzo fosse "brava e buona persona", dai capelli corti neri, e fisicamente ben
messo. Partì al mattino
dell'11 gennaio 1944, assieme ad altri tre compagni, con il maglione fatto da Maria Bartolotti,
che era diventata la sua fidanzata, e i guanti prestati da un'altra compagna. Chi lo incontrò come partigiano, lo notò subito
per il suo modo sicuro di agire e per come riusciva ad elevarsi al di sopra di tutti i nuovi arrivati, distinguendosi come un vero dirigente, sensibile a tutti i problemi, capace organizzatore e pronto nelle decisioni così da crearsi attorno il consenso
generale. Quella sua sicurezza, quella sua capacità di decisioni rapide e giuste, quella sua sensibilità
facevano di lui un sicuro dirigente. Egli non era facile alle euforie, all'esteriorità, né tanto meno un
"rivoluzionario a parole". Egli costruiva tutto su solide basi organizzative e sul convincimento politico, sul lavoro collettivo e sulle decisioni più importanti col consenso generale.
Gli venne assegnato un gruppo di giovani, da inquadrare e preparare come formazione militare. Era quello un duro periodo per la Brigata, soprattutto per il suo stato organizzativo e politico. Difficile era preparare i giovani al combattimento; molti avevano
scelto la via della montagna come rifugio sicuro, in attesa del giorno della liberazione; altri non
comprendevano l'importanza del lavoro politico, soprattutto del legame che bisognava avere con la popolazione locale, e della preparazione degli organi direttivi che dovevano amministrare a
liberazione avvenuta. Egli seppe fare tutto questo. In poco tempo i partigiani della zona attorno a Santa Sofia divennero varie centinaia e la Brigata si organizzò in battaglioni e compagnie. L'alfonsinese Amos Calderoni, appena diciannovenne, per la sua serietà e il suo coraggio, fu nominato Comandante della 12° compagnia. Il comando partigiano, nei primi giorni di aprile, venne in possesso di notizie da fonte sicura che era imminente un rastrellamento, di vaste proporzioni, su tutto l'arco dell'Appennino tosco-romagnolo. Il comando della Brigata ordinò allora alcuni assestamenti e attestò gli uomini nelle località ritenute più difendibili. Il rastrellamento si scatenò il 6 aprile nella zona della Balze e si estese gradualmente all'Appennino. L'operazione era affidata alla divisione corazzata Goering con oltre 3000 effettivi, ad alcuni reparti di Alpen-jager, i feroci militari liberati dalle carceri e appositamente addestrati alla contro-guerriglia, e a due compagnie di S.S. italiane e a circa 5000 fascisti affluiti dalla Romagna e dalla Toscana. A questo contingente si affiancarono il 23 Aprile altri 3000 tedeschi. Questo poderoso schieramento doveva smantellare le roccaforti e i presidi dei partigiani, che assommavano a circa 1000 uomini armati alla meno peggio. Il 7 aprile si verificarono i primi scontri nei pressi di Calanco Fragheto. I ribelli bene appostati inflissero gravi perdite al nemico, che sfogò la sua rabbia contro l'inerme popolazione del paese fucilando 34 abitanti, nella maggior parte vecchi, donne e bambini. I partigiani ebbero due morti e diversi feriti. Era prevedibile che l'attacco si sarebbe sviluppato lungo la direttrice Biserno-Campigna, per cui il comando decise di tenere la posizione sopra la strada di Biserno, per consentire lo sganciamento del grosso della brigata che non era in grado di potersi opporre a un nemico tanto numeroso. Alla 12ª Compagnia venne affidato l'incarico di resistere ad ogni costo presso Biserno (frazione di S. Sofia), per dar tempo al grosso dei partigiani di sganciarsi, superare l'accerchiamento e tentare l'attacco del nemico alle spalle, per poi riprendere i contatti con il comando, situato nelle zone di Strabatenza e Rio Salso, vicino a Bagno di Romagna. La mattina del 12 aprile 1944 il Comandante Amos Calderoni, il Commissario politico Terzo Lori e i loro compagni della 1° squadra della 12° compagnia, una trentina di uomini in tutto, male armati, erano a Biserno a difendere un punto strategico fondamentale dello schieramento difensivo partigiano, e per rallentare la marcia al grande rastrellamento nazifascista che voleva eliminare le bande dei ribelli, consentendo al "grosso" dell'8° Brigata di mettersi in salvo. Fin dal giorno 11, Terzo Lori che per età ed esperienza era il capo effettivo di quella compagnia, aveva mandato una pattuglia a distruggere un ponte, per rallentare la marcia del nemico, ma il danno era stato minimo. Poi, all'alba del 12, aveva inviato un partigiano a controllare le mosse dei tedeschi e dei repubblichini. Quindi si era accordato con il gruppo dei russo-slavi perché coprissero la loro ritirata, infine aveva disposto gli uomini su tre postazioni, vicine alla "Croce", sul crinale che domina le valli di Ridracoli e Corniolo. L'attacco ebbe inizio alle 9,30 e il fitto fuoco delle armi leggere dei partigiani fermò momentaneamente i nazifascisti. Lori e Calderoni inviarono una staffetta al Comando per informarlo dell'attacco e del sopraggiungere di nuovi reparti nemici, e una a San Pietro per chiedere armi pesanti, nel messaggio, firmato "Commissario Terzo Lori", era scritto: "Resisteremo fino all'ultimo. Permetteremo a voi la ritirata, perché di qui i traditori non passeranno, finché un uomo sarà in grado di sparare." Pur inferiori per numero ed armamenti i partigiani garibaldini resistettero ai ripetuti attacchi portati dal nemico, Poi l' accerchiamento nemico, anche per l'aiuto di spie locali, si fece più stringente e la mitragliatrice Breda dei partigiani s'inceppò, si cercò invano di rimetterla in funzione, mentre Amos gridava: "Lo ha già fatto! Lo ha già fatto la vigliacca!". Infatti quell'arma era di facile inceppamento. Amos e Terzo incitavano continuamente i compagni a resistere all'attacco, ma le armi pesanti degli assedianti avevano già ferito e ucciso diversi partigiani, solo a quel punto Lori e Amos ordinarono di sganciarsi. I superstiti delle prime due postazioni, coi feriti meno gravi, da una parte, Amos, Terzo benché feriti e altri sei, di corsa, cercarono di raggiungere un punto riparato, ma devettero attraversare un tratto scoperto e furono un bersaglio facile: vennero falciati uno dopo l'altro. Chi cercò di portare aiuto arrivò troppo tardi o non riuscì ad avvicinarsi. Verso mezzogiorno tutto era compiuto, sul terreno restavano i corpi senza vita dei 12 combattenti per la libertà. Passarono 12 giorni prima che nazisti e fascisti consentissero al parroco di Ridracoli, Don Giovanni Spighi, amico dei partigiani, di dare sepoltura a quei corpi straziati.
Nel 1950 la Repubblica Italiana ha conferito ad Amos e a Terzo la medaglia d'oro "alla memoria" al valor militare.
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