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Alfonsine

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La storia della "Festa dell'Uva"

La Festa dell'Uva  dal 2000 a oggi La "Festa Gròsa"  antica festa alfonsinese La Festa dell'Uva nel periodo fascista '30-38
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Archivio delle foto della Festa dell'Uva

Il giornale della Festa dell'Uva   del 1933

E la gente di Alfonsine? 

 

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Carro "Enotria"
Da sinistra : Maria Stella, sorella del farmacista dott. Stella, Serena de' Macac, dott. Stella, Menica Subini, Dalma Pasini, figlia del dott. Pasini
 

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Carro inneggiante al Re e al Duce
mentre passa davanti al palco delle autorità posto di fronte al municipio di Alfonsine
 

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Sfilata dei carri all'incrocio di corso Garibaldi con via Roma
 

Carro degli studenti
in corso Garibaldi davanti al caffé dla Niculéna
 

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Il carro degli studenti
da sinistra: Felice Isani, Stasio, Tullio Samaritani, Giorgio Pescarini, Silvio Cortesi, figlio di Adelina Gramantieri, Francesco Preda, Pellegrino Pezzi, Alberto Minarelli, Sebastiano Montanari
 

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Carro 
davanti alle Pescherie
 

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Carro col fascio
davanti al Palazzo Santoni in piazza Monti

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Dalle foto e dalle documentazioni fin qui riportate, pare che nessuno ad Alfonsine si sottraesse al fascino di quella festa. 

Anche quelli che non condividevano il fascismo andavano a quella festa senza patemi d’animo. Si andava cioè ad una delle poche feste in cui ci si poteva divertire. 

Ma tutta quella propaganda fascista?

La propaganda fascista era quella che si subiva  tutti i giorni, quindi era inflazionata, e non ci si faceva neanche più caso: se si era già “vaccinati” si rimaneva immuni anche in occasione della Festa dell’Uva.
Ma non va trascurato che per quelli nati dopo 1910-15 era quasi impossibile aver maturato, a quel tempo poco più che ventenni, una benché minima capacità critica, o addirittura di non condivisione del fascismo: che la Festa dell'Uva fosse una manifestazione-festa fascista o meno, non sollevava problemi, o che l’andare in piazza significasse anche dare il proprio consenso al fascismo, non era una questione che si ponesse alla mente di qualcuno. Solo per i più anziani, quelli nati tra il 1880 e 1905, forse, poteva esser chiara la visione politica delle cose. E tra questi pochissimi erano rimasti in qualche modo oppositori del fascismo. 

Pochi, troppo pochi...

Pochi, troppo pochi oramai, erano quegli alfonsinesi che riuscivano ad avere una capacità critica e una visione politica delle cose. Il fascismo sembrava aveva vinto su tutta la linea. Gli antifascisti più o meno riconoscibili erano rimasti in quattro gatti, qualche anarchico come Gusto d’Cabarièl, o Frazcò d’Preda, o anche Leo d’Piteda, che non aveva mai iscritto il figlio Angelino ai “balilla”, diversi repubblicani come Guido de fabar o Battista Centolani, altri che non presero mai la tessera, alcuni socialisti superstiti come Gigì d’Gioti e tutta la sua famiglia (i Calderoni), i Pagani d’Cai o i Pagani d’Stevan con la Faccani Cesira e i figli e le figlie, e i comunisti che se ne stavano ben nascosti in clandestinità o all’estero, oppure troppo facilmente identificati e controllati come Arturo d’la canapira, o Pattuelli il babbo del “profès”, o Eumeo Costa, che dopo le botte e il confino, tornò a casa, poi si trasferì, e dovette rimanere tranquillo e controllato. O i Gessi, col vecchio Eugenio ormai esausto dal vedere la propria famiglia disgregata, un figlio Beno fuggito a Tuscania, a rifarsi una vita per evitare i fascisti locali che lo volevano ammazzare, anche lui costretto a prendere (non certo convinto) la tessera del fascio, se voleva esercitare il mestiere di veterinario, e l’altro figlio Mino esule in Francia, con una condanna in Italia a 21 anni. E poi Bedeschi Camillo (Carlì), Galamé, Dragoni Libero (d'Bagaté), Bedeschi Giuseppe (Pinaz), Verlicchi Francesco, Geminiani Luigi, Zanzi Giovanni, Servidei (Fidéna), Rambelli Oreste, Bonetti (Rubilént), e Picculé, Tardozzi Emilio. O anche altri più o meno senza partito come i Baioni che non comprarono la divisa da Balilla al figlio Romeo (Meo d’banana), o Aldo Mascanzoni babbo di Pino, schiaffeggiato un giorno dal centurione Tonino Camanzi, perché non si era tolto il cappello, al passaggio di una manifestazione fascista; e poi Bardèla (Giovanni Tamburini), i Cassani (Caghéna), i Savioli, Mario Cassani che non prese la tessera da “Avanguardista”, dopo essere stato “Balilla”, già sulla strada dell’antifascismo. Si sa di gruppi dei Sabbioni, Borghetto, Borgo Gallina... ma chi erano e quali azioni riuscivano a intraprendere all’inizio degli anni ’30? 

Ciò non toglie che si conteranno al massimo alcune decine di famiglie, per di più ancora impossibilitate in quegli anni a esercitare una qualsiasi forma di opposizione. 


Eppure quei quattro gatti saranno l’humus su cui crescerà la resistenza e la riscossa degli alfonsinesi.


Il fuoco già covava sotto la cenere.
Alcuni giovani proprio in quegli anni (1935-36) avrebbero cominciato a sentirsi fuori posto in un mondo così repressivo, pacchiano, prevaricatore e ingiusto. Saranno quelli i nuovi semi di quella che diventerà poi la base dell’antifascismo e della resistenza. Ma ci sarebbero voluti ancora  diversi anni e la caduta del fascismo per mano propria prima che qualche fenomeno di massa iniziasse a manifestarsi.

 

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Nel cartello è scritto "Sucietè dla Canéna"
 

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Gli sposini erano Isabella Mariani e Licio Minarelli:
qui sono tra il Municipio sullo sfondo e la Casa del Fascio

 

La Festa dell’Uva nel dopoguerra e le Feste dell’Unità

Un gruppo di amici del paese vecchio a una delle prime feste dell'Unità al campo sportivo "Rino Bendazzi" nei primi anni '50. 

Da sinistra a destra:
Giuseppe Ricci (Pino dla Silvagna) marito di Giovanna (dla Salamena),
Boattini (alloggiava come casante a casa Troncossi),
Burchi Francesco, babbo di Adriano il meccanico di bici,
Francesco Emaldi detto "Ramò",
Mario ...., cognato di Tupò, fornaio presso Bragonzoni in corso Garibaldi,
(in piedi) il Toscano, vendeva frutta nel negozio di Bragonzoni di fianco al forno,

Tarroni detto "e' capurèl", abitava come casante nella casa dei Troncossi, poi nelle case popolari in corso Garibaldi di fronte ai Niedda.

Nei primi anni del dopoguerra  nel quadro della rinascita democratica, la Festa dell’Uva diventò in Romagna un tema di scontro polemico, non privo di asprezze, fra forze politiche quali il partito comunista e quello repubblicano. Ma al di là delle schermaglie sull’opportunità o meno di riciclare una manifestazione voluta dal defunto regime fascista, alla fine passò l’idea che era utile adattarsi a costumi propri della tradizione popolare anche se si trattava di consuetudini affermate dal fascismo.  

Così i repubblicani sostennero le Feste dell’Uva (ad esempio quella di S. Pietro in Vincoli, che è ancora oggi importante), mentre i comunisti si inventarono le Feste dell’Unità, quasi per tentare di rimuovere quelle dell’uva.  

Ma le feste dell’Unità, e anche quelle dell’Uva a marchio repubblicano, diventarono il segno di un’eredità ormai sedimentata: la consapevolezza dei partiti politici della nuova Italia che, per consolidare il loro rapporto con le masse, occorrevano anche momenti di incontro ludico-politici. Per questo non esitarono a guardare alla festa dell’uva come a un collaudato modello di riferimento.  

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