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Famiglia
Marini
(ramo Giuseppe detto Fitti)
Foto di Domenico Marini 'Cantinori' datata nel retro 1906 |
Domenico
Marini Angela
Pasini
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Angela
Pasini si voleva buttare dal ponte perché era rimasta vedova di Antonio
Venturi e aveva una bambina piccola (Barbara Venturi). Domenico Marini la
vide e la salvò e di lì a poco la sposò. Barbara
sposerà poi Pasquale Ancarani (detto
Cagaròt) da cui nacquero tre figli Ebbero altri quattro figli: Domenico lavorò come birocciaio, trasportando vino dalla Romagna alle zone del Ferrarese. |
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Maria
Marini |
Giuseppe Marini |
Antonio Marini |
Monica Marini |
Giuseppe Marini
(cliccare o toccare sulle foto per averne un ingrandimento)
Giuseppe Marini
Giuseppe Marini nacque ad Alfonsine nel 1884 da Domenico Marini e Angela Pasini, vedova Venturi. Intraprendente e creativo fin da bambino lavorò come apprendista presso il fabbro Dante Casanova. Avendo questi già un altro apprendista di nome Giuseppe, per non confondere i due gli mise il soprannome di Iosafitti, da cui l’abbreviazione “Fitti”. Nel 1899, il giovanissimo operaio Giuseppe Marini, non certo ricco, si trovò a decidere se comprarsi un abito nuovo o dare il via a quella che sarà la sua carriera di costruttore e imprenditore: acquistare cioè I'occorrente per fabbricarsi da sé una bicicletta. Propese per la seconda scelta, e questo cambierà la sua vita e, col tempo, quella di un'intera comunità e quella del panorama di un vasto settore industriale. Dunque acquistò il materiale a Lugo, e lo assemblò nelle ore libere; a lavoro ultimato, vendette la bicicletta e col ricavato acquistò altri due telai da montore e rifinire, e poi per quattro biciclette e così via. Per conto suo avviò presto un’attività artigianale, di riparazione biciclette. La prima produzione prese il via in una stanza della casa della fidanzata del Marini, Carolina Arniani, in una zona di Alfonsine detta 'i Sabbioni'.
Con il sorgere del nuovo secolo, quindi, sintomi di fermento e di vivacità parevano in grado di potere mutare l'immagine stessa del nostro Paese. Non più, solamente, la terra delle magnifiche rovine di un tempo passato, ma anche quella di una popolazione attiva e intraprendente. Non più, esclusivamente, agricoltura, ma anche industria, meccanica e fervore imprenditoriale. Di questo spirito dovette essere imbevuto anche il giovane Giuseppe Marini, il quale, consapevole delle particolari esigenze dei lavoratori agricoli della zona, iniziò ad aggiustare prima, e produrre poi, biciclette. La prima bottega "Marini" Sposò Carolina Arniani (la Carlina) da cui ebbe tre figli Marina, Marino, Roberto. Carolina Arniani e Giuseppe Marini
Nel
1905 (nel frattempo Giuseppe si era sposato ed era nata la prima figlia,
Marina), con la famiglia si trasferì in Corso Garibaldi, aprì il
negozio che si vede nella seconda foto in alto qui di fianco, dove
venne aperta la prima officina in cui, oltre alle biciclette, venivano
costruiti, acquistati e
rivenduti anche
piccoli impianti di illuminazione
e pure mobili e macchine da cucire. Una mente dinamica, incapace di star fermo, brevettava in continuazione anche nuovi e vari attrezzi.
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Giuseppe Marini aderì al fascismo, per poter meglio portare avanti la sua attività di imprenditore, non fu tra i partecipanti alla Marcia su Roma né sembra aver avuto alcun ruolo specifico, né assunto cariche particolari. La sua adesione al fascismo si intravede dalla nomina a Presidente della Congregazione di Carità, (una specie di Ausl dell’epoca) negli anni ’30, nella carica di Segretario della Gioventù Fascista del figlio Marino, oltre che in una foto durante una manifestazione fascista in piazza Monti e la sua presenza sul palco delle autorità durante la sfilata dei carri della Festa dell'Uva. |
Da
sinistra Pasi direttore del Credito Romagnolo, Giuseppe Marini, ?, Mario
Monti, Romano Gagliardi, ?, Faustino Vecchi, Aurelio Tarroni (segr. PNF),
?, Dott. Enzo Sgarbi (veterinario comunale) |
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Giuseppe Marini con la figlia Marina |
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Dai
motori alle macchine stradali Alle soglie del '29, anno della grande crisi economica, la ditta Marini si buttò nella costruzione di altre macchine, quelle per la costruzione di strade. Era accaduto che simili prototipi erano già apparsi sulla scena artigianale, ma agli occhi del geniale meccanico, erano lenti ed imperfetti e lui già vedeva come porre rimedio per migliorarli. Negli anni ’30 costruì un primo prototipo di macchina asfaltatrice che ebbe un immediato successo.
La realizzazione di una serie di brevetti coincise con la decisione di abbandonare la produzione delle moto che pure tanta soddisfazione gli aveva dato. Oggi i pochissimi esemplari conservati in prestigiose collezioni, sono l'ultima testimonianza di questa splendida avventura conclusasi nell'arco di un decennio, foriera però di quella grande e straordinaria impresa delle macchine per costruire strade, che con il nome Marini significò il fiore all'occhiello dell'industria nazionale. Da
lì a poco sviluppò la produzione di queste macchine stradali che ebbero grande
successo,
stante anche la necessità di coprire le bianche strade attraversavano
l'Italia, alla luce della diffusione delle prime automobili. Fu presente
alla Fiera di Tripoli, e ottenne appalti per la
costruzione di strade asfaltate sia in Italia che all’estero, tramite
l’A.N.A.S..
La genialità di Giuseppe Marini migliorò ulteriormente i suoi prototipi,
tanto che il suo nome divenne sinonimo più di macchine per far strade che
di motociclette.
(cliccare sulle foto per averne un ingrandimento) |
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Dalla caduta del fascismo alla guerra Alla
caduta del fascismo Giuseppe Marini continuò la sua attività in
fabbrica. Ma la guerra e i bombardamenti impedirono lo sviluppo della
produzione.Durante l’occupazione tedesca operò con l’organizzazione
TODT in attività che l’esercito tedesco richiedeva, e che non potevano
essere rifiutate. Il lavoro con la “Todt” in Italia, e anche ad
Alfonsine, fu per molte persone una vera fortuna, in quanto lavorando lì
non sarebbero state deportate in Germania. Non risulta che Giuseppe Marini aderisse alla RSI. Alla fine della guerra viene sequestrato con altri quattro: il suo corpo sarà sarà trovato solo sedici anni dopo Sfollato con la famiglia al di là del Po Vecchio (Reno), ad Anita, tornarono nel febbraio del 1945 in paese, alloggiati presso la casa della figlia Marina sposata a Fausto Vecchi, in via Mazzini. A guerra finita, senza nulla temere, si trasferirono nella seconda casa in via Roma, dato che quella in piazza Monti era diventata inagibile. La
sera del 5 maggio 1945, mentre era in casa con la moglie Carolina (la
Carlina) e tutta la famiglia, sentì fermarsi un autocarro davanti a
casa. Poiché
l'unico comando ufficiale del territorio, oltre al "Comando
Alleato" e al CLN, era quello della Polizia ausiliaria partigiana,
che aveva la sede nella Questura di Ravenna, presumibilmente era come dire
'lo portiamo in questura a Ravenna'. La testimonianza della sorella dei Santoni Altre testimonianze dirette di quella tragica sono di Marino Faggioli (Natalino) e di sua moglie Germana Santoni, che pubblicò nel 1969 un libro “... e poi riprendemmo a vivere”, entrambi presenti al prelevamento dei fratelli Santoni. I fratelli Corrado e Giannino Santoni avevano avuto il loro palazzo di piazza Monti totalmente abbattuto dai tedeschi. Sfollati a Bologna con le famiglie erano tornati in bicicletta, con la sorella Germana e Natalino Faggioli, proprio la mattina di quel 5 maggio. Si erano sistemati tutti a casa dei Faggioli. Anche la casa dei Faggioli si trovava in via Roma, poco distante da quella di Giuseppe Marini. Quella sera inoltrata del 5 maggio si presentarono due persone, “in divisa tipo militare”, (secondo quanto scritto da Germana Santoni, “due sconosciuti sono entrati nell'ingresso con un foglio in mano. Cosa vorranno? Leggono un nome che non corrisponde esattamente, ma corrisponde il cognome. Domandano: "Qual è Giovanni Santoni?" e precisano "di Giuseppe"? Si risponde che non c'è. Rivolti a mio marito ripetono la domanda: "Siete voi Giovanni Santoni?" "No io sono Natalino Faggioli" "E voi?". "Io sono Corrado Santoni di Sebastiano" La risposta evidentemente non li convince. Borbottano fra loro e nell'incertezza Corrado viene trattenuto. Io e Giannino dalla cucina tendiamo l'orecchio ma non riusciamo ad afferrare la conversazione. Paura e presentimento ci scuotono nell'animo, ci paralizzano. I due uomini vengono avanti e mio marito è con loro. Corrado non lo vedremo più da quel momento purtroppo il suo destino è segnato. Dopo un breve interrogatorio Giannino è costretto a seguirli. Chiede un attimo di tempo per mettersi le scarpe che aveva tolte per andare a dormire; si china, indugia guardandosi intorno furtivo, forse medita qualcosa - non lo sapremo mai. I due uomini appoggiati allo stipite della porta seguono i suoi movimenti, la mano sul calcio dell'arma infilata nella tasca dei pantaloni. Hanno blusotti scuri, il fazzoletto rosso annodato al collo. Non erano alfonsinesi e avevano una pronuncia leggermente meridionale. Continua il racconto della signora Germana Faggioli Santoni: "Mi avvicino lentamente e li osservo. Un tremito convulso mi agita mentre ascolto l'assurdo dialogo che si svolge a voce bassa tra mio marito e i due uomini in attesa. Imbarazzato e titubante Natalino chiede: "Scusate chi vi manda?". Silenzio. Lui insiste: "Avete documenti?". Risposta secca: "Ma voi chi siete?". Natalino dice il nome, io tremo. E loro: "A voi non interessa". Breve pausa e ancora: "Posso venire con voi?". I due sono sorpresi: "A far cosa?". "Per chiarire. Qui c'è un equivoco - forse uno sbaglio di persona; i miei cognati non c'entrano". La risposta dopo un attimo di perplessità è decisamente dura: "No, dovreste tornare a piedi". Io continuo a tremare, le gambe quasi non mi reggono. Ho la netta sensazione che quelle domande non sono gradite. Segue un silenzio pesante finché Giannino sollecitato si avvia e il suo sguardo è sgomento; nell'incerta luce della stanza cerca noi, che lo guardiamo smarriti mentre esce coi due sconosciuti. Il cuore scoppia nel petto. Tesi nell'ascolto percepiamo il rumore dell'automezzo che si allontana e poco oltre si arresta. Natalino va sulla strada, non c'è luna ma riesce a intravederne la sagoma davanti a una casa poco distante (ndr la casa dei Marini): poi lo sente ripartire. Furtivamente, nonostante il coprifuoco, si porta fin là e trova la famiglia degli industriali Marini, nostri amici, in preda all'angoscia. Hanno prelevato il padre e come noi sono sconvolti." L'esecuzione di Giuseppe Marini, "Forse, le buone relazioni fra l'imprenditore e il passato regime,
necessarie allo sviluppo della ditta, erano state giudicate come la prova
della sua fede fascista; oppure, anche, la sua condizione di industriale
lo aveva reso un nemico "di classe" agli occhi dei suoi
carnefici. In ogni caso, dato che i responsabili della sua morte non
furono mai ritrovati, l'uccisione restava in parte avvolta dal mistero;
certo è che Alfonsine e la Romagna perdevano uno, degli imprenditori
meccanici di maggior talento"' Il sequestro di Giuseppe Marini finì con il paralizzare completamente
l'azienda. Una parte degli operai ne occupò i locali e si costituì in
cooperativa, con il beneplacito del CLN Contemporaneamente, però, anche i figli dell'imprenditore, Marino e
Roberto, presero in mano le redini dell'impresa e provarono a riattivare
la produzione: la prima macchina ad essere prodotta fu uno spandigraniglia.
Il rapido fallimento della cooperativa operaia consentì di riprendere pieno
possesso delle strutture aziendali e riassumere personale qualificato. Nel
1948, poi, esauritesi le speranze di ritrovare Giuseppe Marini in vita,
la società fu rifondata dai figli con il nome di Officina meccanica
Marini. Solo nei primi anni Cinquanta, grazie alla riavviata produzione di
macchine stradali, la ditta poté dirsi sostanzialmente uscita dai lunghi
e profondi traumi del conflitto e dell'immediato dopoguerra. In quegli
anni, le maestranze raggiunsero le ottanta unità, mentre i contatti con
importanti clienti garantirono un più elevato numero di commesse. A tal
proposito, è importante sottolineare come i crediti maturati nei
confronti della pubblica amministrazione o di aziende statali potessero
essere riscossi in tempi ragionevolmente brevi, anche se "in
natura", sotto forma, cioè, di attrezzature belliche dismesse, che
potevano essere sfruttate per la componentistica o altrimenti avviate alla
fonderia." (tratto dal libro
dell'Istituto Storico della Resistenza "L'eredità della guerra a
Ravenna- Fonti e interpretazioni per una storia della provincia di Ravenna
dal 1940 al 1948”) Nessuno
saprà più nulla dei quattro fino al settembre del 1961 quando un
contadino, durante i lavori di aratura del suo campo in zona Passetto,
vide apparire tra la terra dei resti umani. Erano le ossa appartenute a
quattro persone, i cui crani erano bucati dal colpo di un proiettile
all’altezza della nuca. Furono trovati anche bossoli di calibro 9 e
pezzi di filo di ferro usato per legare le mani ai sequestrati. I
famigliari dei quattro prelevati nel maggio del 1945 riconobbero i loro
cari da brandelli di vestiti e altri oggetti.
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La
gente comune di Alfonsine non tardò a farsi un’idea di quel che poteva
essere successo e da subito non condivise affatto una simile azione, anche
se in quel tempo molti erano i concittadini morti da piangere. Nessuno ha mai potuto o voluto raccontare più di tanto, ieri forse anche per paura, oggi perché nulla di certo è ancora emerso. La dinamica del fatto poteva far pensare a qualche gruppo militarmente attrezzato: si presentarono a casa delle vittime con un autocarro e, pare, con la divisa militare tipo inglese. Quasi inevitabile che nell’immaginario collettivo si potesse far strada l’idea che potevano essere partigiani. L'unica testimonianza è di Germana Faggioli Santoni, presente all'evento:"Hanno blusotti scuri, il fazzoletto rosso annodato al collo.", è pubblicata in un suo libro: "... Poi riprendemmo a vivere" stampato nel 1974 da Regione Letteraria Esecuzioni di quel tipo, in quei giorni, in Alfonsine ce ne furono altre, e il loro numero appare sproporzionato rispetto a possibili vendette personali per violenze subite nel periodo 1923-1943, e attribuibili a fascisti. |
Questo è l'articolo su "Il Resto del Carlino" apparso il 4 settembre 1961 (cliccare sulle foto per averne un ingrandimento) Il
cippo, fatto posare dal figlio Marino Marini segna il punto dove furono
trovati i poveri resti dei quattro scomparsi 16 anni prima. Il
cippo nel 2021 |
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Quel che è certo è che Giuseppe Marini, alla caduta del fascismo, continuò la sua attività in fabbrica. Ma la guerra e i bombardamenti impedirono lo sviluppo della produzione. Durante
l’occupazione tedesca operò per conto dell’organizzazione “TODT”,
con attività che l’esercito tedesco richiedeva, e che non potevano
essere rifiutate. Il lavoro con la “Todt” in Italia, e anche ad
Alfonsine, fu per molte persone una vera fortuna, in quanto lavorando lì
non sarebbero state deportate in Germania. Ma, per tornare all’oggetto del nostro indagare, diciamo subito che nel tentare di individuare le motivazioni per le quali furono attuate, a guerra finita, le esecuzioni di Giuseppe Marini e degli altri tre, si incontrano ipotesi e chiacchiere che variano in tutte le direzioni. Si fece strada un’idea, in Alfonsine, (ed è tuttora presente) che fossero stati uccisi perché imprenditori, agricoltori, possidenti e quindi “borghesi capitalisti”, “padroni”, “nemici di classe” e quindi “nemici del popolo” – secondo una logica classista che aveva nella ideologia comunista di quei tempi un certo retroterra culturale, e che potrebbe aver trovato il suo braccio armato tra giovani alle prese con confuse spinte rivoluzionarie. E se si fosse trattato di iniziative prese da classiche schegge impazzite dell’area partigiana, sulla spinta di una possibile vendetta da consumare nell’ora “ics” (“L’ora sbaracuclòna”)? Altre ipotesi sono che “dietro la pretesa esistenza di motivi politici, si celassero solo ragioni di risentimento personale o sociale” come scriveva l’articolista del “Resto del Carlino” nel 1961. Di certo c’è che mai alcuna prova arrivò agli inquirenti circa i nominativi dei mandanti e degli esecutori di quegli omicidi. Ciò che oggi lascia un poco perplessi è il fatto che nessun giornale locale, nessun partito politico o un qualche storico abbia mai scritto qualcosa su un episodio di tale rilevanza. Il silenzio purtroppo ha lasciato spazio all’uso strumentale di quei fatti. Oggi ci sarebbe la necessità di sapere qualcosa di più anche su quei tragici avvenimenti, ma la difficoltà è enorme, non per omertà degli alfonsinesi, ma al contrario, perché di chiacchiere e “sentito dire” ce n’è in abbondanza, tutti ti raccontano una loro verità, mentre la verità, quella che dovrebbe far luce definitiva, sembra svanire nella nebbia. Occorre indagare, non con l’intento investigativo di trovare dei colpevoli, ma per aiutare a capire come e perché tutto è successo. Non può bastare la formula “bisogna capire il clima di quei tempi”, o “erano tutte vendette personali”: occorrono al contrario testimonianze, documentazioni per dimostrare, capire caso per caso. Essere uccisi in quel modo può lasciare nella gente una somma di dubbi, di interrogativi del tipo: “chissà mai di quali crimini quelle persone si saranno macchiate...”: per questo è utile cercare ancora più a fondo, e dare a quei morti la dignità personale che spetta loro, come gli alfonsinesi hanno già decretato nel loro immaginario.
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