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| Ricerche sull'anima di Alfonsine |
Raffaele
Carioli
(1913-1944)
(in gran parte tratto da "Atòrn
a e fug" di Lucia Berti pag. 75)
Raffaele
(o Raffaello) Carioli era nato nel 1913 ad Alfonsine. Era figlio di Domenico Carioli (il sarto Campané) e di Luigia Bezzi. Abitavano in via Tranvia n° 6. Aveva una sorella: Giuliana. Negli anni anteguerra, dove oggi (2022) c'è il forno Toschi in C.so Garibaldi, vi era la sua bottega da arrotino. Aveva una
gamba di legno perché la vera gli era stata amputata da bambino, dal Prof.
Pasini, in seguito alla caduta sotto un carro dell'antica Tramvia. |
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Ma
l'esuberante gioventù, la vivacità del carattere, la ricca intelligenza,
lo avevano aiutato a superare questo suo handicap, ottenendone in compenso
tante valide capacità. Gli amici lo chiamavano confidenzialmente "Martlena".
Aveva imparato il mestiere a Ravenna presso la bottega di un bravo maestro
dove, per due anni, in inverno e in estate si recava ogni giorno con la
bicicletta. Si dimostrò subito bravissimo nell'apprendimento. Divenne il più
bravo dei dintorni. Appassionato
cacciatore, frequentava la valle con assiduità, assieme agli amici. Partiva
con la sua bicicletta a scatto fisso, carico di tutto l'equipaggiamento che
gli occorreva per potervi restare almeno due giorni; quando veniva bloccato
dalla neve vi rimaneva qualche giorno in più. Una volta, mentre se ne
andava col suo bagaglio lungo la Via Raspona seguito da altri cacciatori non
del suo gruppo, sentì uno di loro che, dietro di lui, commentava: «E'
meglio sorpassare questo qua, chissà quando arriva!» Non ci volle
altro, Raflì rispose: «Vi aspetto al Ponte della Madonna!» Spiccò
la corsa e vinse la sfida. Era
abilissimo nel fare gli stampi degli uccelli e i relativi fischietti per i
richiami. La sua bottega era il ritrovo dei cacciatori di allora: Pellegrino
Pezzi, Presidente della Società; Vittorio d'Baiuché; Pirì d'Cesti; Tonino
Lugaresi; Papaloni; Chiccheri; il cugino Giovanni Gramantieri. Aveva
acquistato dai Signori Alberani un prezioso fucile da caccia, uno dei più
belli che esistevano a quei tempi, con la cassa ricoperta in metallo
cesellato; lo pagò duemila lire e dopo la sua morte, fu rivenduto dal padre
per quattrocentomila. Chissà ora chi lo possiede! Faceva le fiocine e con
quelle si buttava abilmente in acqua a pescare le anguille. Finito il tempo
della caccia si dedicava alla pesca coi tramagli, nello scolo. Incideva con
arte le lettere sulle lapidi assieme al cugino Giannino. Sapeva fare di
tutto! Quando sì trovava solo in bottega, occupato nel suo lavoro,
fischiettava e cantava, perché sapeva farlo molto bene e perché gli
piaceva. Il suo "campo di battaglia" era la ‘Cavatina’ del
Barbiere di Siviglia e i passanti si deliziavano ad ascoltarlo. Non si
deliziava invece una nonna che portava i nipotini alla chiesa; quando si
trovava a passare di lì mentre lui cantava quelle note e ripeteva: «
Figaro,Figaro... » la nonnetta preoccupata diceva ai nipotini: «Presto,
presto, andiamo, non ascoltate, non sta bene; sono brutte parole!» Ma, povero
giovane, era nato con un destino avverso e crudele. Arrivata la guerra,
tutti qui in paese erano continuamente sotto il pericolo delle bombe, delle
granate, delle rappresaglie dei Tedeschi e anche lui fu una vittima di quel
disastro. Era sfollato in casa di Pellegrino, in Via Mameli, perché con lui si sentiva più tranquillo, assieme all'amico Chiccheri. Era la vigilia di Natale del 1944 In quella
notte fatale furono sorpresi nel sonno da un cannoneggiamento; una scheggia
entrò nella stanza e colpì di rimbalzo alla testa proprio lui che aveva
tanta paura di quell'inferno. Fu trasportato agonizzante su di una barella
al vicino ospedale posto in Piazza Monti presso il Municipio, sotto un
continuo fioccare di granate, dove poco dopo morì. Aveva trentuno anni: troppo presto per lui che amava la vita e voleva viverla intensamente. |