La
villa Maré
detta
poi Palazzo “Preda” o “dell’Ebe”
(cliccare
o toccare sulle foto per ingrandirle)
a
cura di Luciano Lucci
Il viale con la torretta che fu abbattuta durante la guerra..
Il viale è attualmente ancora intatto e fa parte della Villa Flora, sorta nel dopoguerra sui ruderi del palazzo
"Maré"
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La
villa padronale dei Marini
(i Maré) è presente già in una mappa
del 1838.
Simone
Marini
fu il capostipite.
Era "livellaro" dei Calcagnini
cioè
aveva goduto di una forma di contratto agrario detto
"livello" per numerosi terreni dei Calcagnini, che
concedevano tali terreni in proprietà a un ricevente o livellario,
per un certo periodo di tempo o in perpetuo, a determinate condizioni,
come l'obbligo di pagare un canone annuo e di coltivarlo apportandovi
miglioramenti. Il tutto passò poi ai suoi figli.
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Il
mito di questa ricchissima famiglia è rimasto impresso
nell’immaginario collettivo tanto da dar luogo a una filastrocca
recitata dai bambini del tempo (primi anni del ‘900) e tramandata
fino ai nostri giorni, nel ricordo dei più vecchi di Alfonsine
La caroza di Maré
/
la scariola i bel babé, /
La scariola la regina, /
zò
par tera la piò znina
Quello
che interessa Alfonsine fu il primogenito Domenico Marini (1802- 1860) nato ad Alfonsine
sposò Lucia Massaroli (1805-?). Erano possidenti, cioè grandi
proprietari terrieri: avevano 48 poderi. Il figlio di Domenico, Francesco Marini, nato nel 1826 e deceduto nel 1898 ad
Alfonsine, ma sepolto a
Roma, sposò Maria Bartolotti, da cui ebbe 7
figli (tre maschi e quattro femmine, tutti nati ad Alfonsine). Il primogenito di nome Bruto
sposò a Roma Gertrude, la figlia di Mariano Tittoni e cugina del noto
politico e diplomatico Tommaso Tittoni, poi senatore.
Francesco
Marini ottenne, forse con le referenze di tale
parente, l'appalto del trasporto pubblico di Roma con tram trainati da
cavalli.
La
villa di Alfonsine rimase la loro villa di campagna dove tornavano
ogni estate con tutta la famiglia per governare i loro interessi e per
fare le vacanze. Era dotata di un parco e di un magazzino-cantina con stalle
adiacenti, detto "e' cantinò" e anche 'e casarmò'.
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Francesco Marini
con la nipotina Luisetta |
Maria
Bartolotti,
moglie di Francesco Marini
come appare dalla statua della tomba monumentale al cimitero del “Verano” di Roma |
Bruto
Marini,
figlio primogenito di Francesco, coinvolto suo malgrado nei fatti della “Settimana Rossa” |
La villa con la scalinata in
travertino e la torretta
Quando erano assenti da Alfonsine gestiva i loro poderi Luigi
Randi, detto Luigiò d’Maré proprio perché era il loro fattore.
Nel giugno del 1914 durante la “Settimana Rossa” i rivoluzionari
entrarono nella villa e chiesero di sequestrare beni alimentari. Bruto
Marini che era il figlio di Francesco (deceduto nel 1898 ad Alfonsine,
ma sepolto a Roma) era appena arrivato da Roma con la famiglia
con
la sua auto De Dion Buton (la prima auto apparsa ad
Alfonsine), accolse
i ribelli senza fare opposizione a braccia conserte lasciando che
prendessero ciò che volevano. Pare che rubassero l’orologio a
Luigiò.
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L'auto De Dion Buton dei Marini
nel
1914 |
La villa con la scalinata in
travertino |
Negli anni '20 i Maré decisero di vendere tutte le loro proprietà e incaricarono
Luigiò di procedere. Luigiò stesso acquistò diversi poderi, uno fu quello delle "Martelline" che arrivava da Corso
Garibaldi fino alla strada Rossetta.
Acquistò anche "e Cantinò": il magazzino-casarmone con relativi appartamenti (oggi
2021 vi si trova la Pizzeria-Ristorante
"da Nick" e la pasticceria "La perla", e l'hotel 'la
cantina')
La "villa Maré" e relativo parco fu invece acquistata dal geometra dell'Ufficio tecnico comunale Antonio Preda, che aveva sposato la maestra Ebe Gramantieri. Così negli anni '30 il nome della villa divenne
“Villa Ebe” o “Palazzo Preda”, e come tale venne denominato nella cartoline dell'epoca.
Villa Maré e Corso
Garibaldi negli anni '20
Una villa sfortunata
Un
piano della villa fu abitato dalla famiglia Preda (i due coniugi e un
unico figlio), mentre il resto delle camere venne dato in affitto.
Il figlio Francesco Preda, un bellissimo ragazzo dagli
occhi azzurri, era un appassionato di film e si fece regalare un
proiettore e diverse pellicole che mostrava ai suoi amici. Un giorno
d’estate, dopo essersi accaldato, ingerì una notevole quantità di
gelato freddo e di birra; morì per un collasso in seguito
all’indigestione: aveva sedici anni.
Francesco
Preda
Francesco
Preda,
morto a sedici anni per un'indigestione
(dietro lui, nella foto,
Alberto Minarelli,
poi noto dottore di Alfonsine)
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La madre depositò la sua
collezione di pellicole nel magazzino del "CANTINONE"
(così veniva chiamato dalla gente) di Luigiò,
ex cantina, magazzino e stalle dei Marini
Durante la guerra una granata colpì il casarmone e si
sviluppo un notevole incendio a causa dell’infiammabilità
delle pellicole. Ciò determinò il crollo di gran parte dei
piani dell’edificio, che era adibito al piano terra a
magazzino del grano e negli altri due piani ad appartamenti
vari, tra i quali anche quello di Luigiò.
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La Villa di Maré e
Corso Garibaldi nel 1929
Il viale interno col
parco
Corso Garibaldi dopo il minamento tedesco.
Si notano le macerie del Palazzo “Maré”
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Con
l’occupazione tedesca si stabilì nella villa Maré un
comando della Wermacht, e
poi delle SS, che per confondere gli aerei alleati fece stendere
sopra il tetto un lenzuolo col simbolo della croce rossa. Nella
villa oltre ai soldati tedeschi vivevano anche diversi civili
che utilizzavano i sotterranei come rifugio.
Il
17 gennaio 1945 una bomba centrò il palazzo di Maré, in Corso
Garibaldi ad Alfonsine
Un
giorno, era il 17 gennaio del 1945, alcuni partigiani vennero a
sapere che la sera prima era arrivato un importante comandante
delle SS e riuscirono a comunicare l’informazione agli
alleati. Arrivarono subito tre aerei Speedfire e uno arrivò a bassa
quota da nord lungo l’asse del corso Garibaldi e riuscì a
sganciare una bomba che colpì in pieno la villa penetrando dal
tetto e scoppiando dentro. Crollarono tutti i piani interni e
rimasero in piedi solo le mura esterne. Vi furono morti tra i
tedeschi, circa sette o otto, compreso il comandante, un
maggiore delle SS. Perirono anche alcuni civili, ma molti si
salvarono perché erano rifugiati nei sotterranei.
Perirono Emilia Filippi e Giulia Filippi di 56 anni entrambe.
Ecco
come ha descritto la scena Tonino d’Cài nel suo libro di
memorie:
“Un
mattino, mentre stavamo macellando, udimmo un aereo sorvolare il
paese a bassa quota e distinguemmo, fra il rumore che provocava,
un colpo sordo: come quello di una fucilata o di una bomba non
esplosa. Ci avvicinammo alla finestra ma non vedemmo nulla di
strano e tornammo al nostro lavoro. Dopo un quarto d’ora circa
arrivò al pronto soccorso un ragazzo con la testa fasciata, un
ragazzo che noi tutti conoscevamo: era Livio. Ci raccontò con
tremore che quell’aereo aveva sganciato una bomba e aveva
colpito il palazzo d’Marè dove, nel sotterraneo, si trovavano
decine e decine di persone, e la notte prima era arrivato anche
un comando delle SS. A questo punto andammo di corsa con le
barelle. Arrivati al palazzo non riuscivamo a capire in che modo
la bomba lo avesse colpito, dato che non si vedeva alcuna
rottura nella costruzione. Salimmo la bianca gradinata che
portava al portone principale: la porta era divelta, ci
affacciammo e rimanemmo sbalorditi nel vedere l’interno del
palazzo colmo di macerie e cadaveri di militari e civili. Seppi,
in seguito, incontrando in piazza due miei compagni e amici
partigiani (Marii e Fiamett) mentre stavano entrando nella casa
di Pitade’ (evidentemente di nascosto), che erano stati
proprio loro a segnalare, tramite radio trasmittente, la
presenza del comando S.S. nel palazzo di Marè. Quel giorno ci
fu un lavoro immenso per noi: per ore e ore togliemmo macerie ed
estraemmo cadaveri di civili e di S.S.. Portammo i morti al
terzo piano del Municipio e li ripulimmo; i militari furono
portati via dai loro camerati, mentre i nostri civili furono
seppelliti provvisoriamente dietro al mercato coperto. Per
fortuna una parte del sotterraneo aveva resistito e non era
crollato, altrimenti avrebbe ucciso altre decine di persone.
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Da
quel momento i tedeschi divennero feroci: avevano la prova certa
che i partigiani di Alfonsine erano in contatto col comando
alleato e che avevano passato l’informazione per quel
bombardamento mirato. La rappresaglia questa volta ci fu, anche
se fortunatamente, non contro le persone: fu emesso un secondo
ordine di sfollamento strada per strada, chi si fosse rifiutato
sarebbe stato inviato in un campo di concentramento in Germania.
I
tedeschi, consapevoli che solo un’informazione passata dai
partigiani agli alleati poteva aver determinato quell’azione
militare, decisero per rappresaglia di minare tutte le case di
corso Garibaldi e della piazza Monti. Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio il paese alla destra del Senio venne raso al suolo.
La villa Maré era ormai del tutto crollata, mentre il casarmone era distrutto dall’incendio e non fu abbattuto.
Quando
anche Luigiò morì mitragliato nel suo podere da un aereo
inglese, ereditò tutto suo nipote (figlio del fratello) Antonio
Randi detto “Tugnazzé”.
Il
quale non avendo soldi per pagare la tassa di successione
vendette nell’immediato dopoguerra tutto il casarmone a
Ernesto Contessi, suocero di Marino Marini, un’altra famiglia
Marini che non era per nulla imparentata con quella precedente.
Marino
Marini trasformò il casarmone nel secondo cinema di Alfonsine:
il cinema Corso (il primo era il nuovo “Aurora” in piazza
Gramsci).
Unico
resto della villa dei Maré nel dopoguerra era la bianca
scalinata in travertino che rimase sola, lungo il marciapiede,
per una quindicina di anni, a testimonianza di un vuoto totale.
I ragazzini di quel tempo utilizzavano per i loro giochi quella
scalinata senza saperne l’origine: era il mistero di corso
Garibaldi.
Il signor Preda, che
nel frattempo era rimasto vedovo e si era trasferito a Bologna,
vendette alla fine degli anni ’50 tutto il terreno dove c’era la
villa Maré ormai scomparsa, a Flora e Romano Gagliardi, i quali
costruirono l’attuale villa abitata ancora oggi dai loro famigliari
eredi.
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La villa di “Maré” con la scalinata in travertino e
la cancellata,
che è l’unica rimasta oggi
(cliccare
o toccare sulle foto per ingrandirle)
Nel 2000
con la stessa inquadratura della foto di fianco
(cliccare
o toccare sulle foto per ingrandirle)
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Fino al 1998
così si presentava il confine finale del parco della villa.
Era
l'unica parte della villa antica rimasta in piedi dopo la
guerra.
Poi una bufera fece crollare tutto, muro,
merli e cancello compresi
Recentemente il tutto è stato riedificato, senza i merli e non
in modo identico all'originale.
Una tromba
d’aria nell'ottobre del 1998 fece crollare tutta questa parte
che delimitava il lato sud-est del parco della villa. Elio
Marini, marito di Mariannina figlia di Gagliardi e Flora,
proprietari della nuova villa costruita sulle macerie della
vecchia, (non parente con i Marini proprietari in origine del
parco e della villa), intuendone la precarietà aveva fatto
alleggerire il cancello. Ma non fu sufficiente. Cadendo il
cancello si portò dietro la struttura coi merli e tutto il muro
di recinzione che non avendo fondamenta crollò come un
domino. |
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Dei due paracarri ne è rimasto uno solo, mentre dell’altro è
rimasta l’impronta, in quanto sarà stato tagliato.
(Il cancello è sempre lo
stesso. Solo le punte sono state rifatte da Gagliardi negli anni '50
copiandole da quello della vecchia villa.)
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QUEL PARACARRO
salvò la vita
a Letizia Marini...
Negli anni '50 Romano
Gagliardi e sua moglie Flora costruirono la nuova grande villa che
è attualmente (2023) abitata dai discendenti Letizia
Marini col marito Gabriele "Willer" Andraghetti, e dai
loro figli.
Dei due paracarri ne è rimasto uno, mentre dell’altro è rimasta
l’impronta in quanto è stato tagliato. Infatti anni fa salvò la vita
Letizia Marini: un ubriaco si mise alla guida di un auto, e, sbandando,
urtò il paracarro. Per fortuna la macchina si fermò lì, perché
Letizia era proprio dietro al paracarro, mentre stava aprendo il
cancello.
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