Ciò
che rimane del nostro amore
Ciò che rimane di queste belle giornate
Una foto, vecchie foto
Della mia giovinezza
Cosa è rimasto di lettere d'amore
Storie
vere di Luciano Lucci e Guido Pasi
Gli
adolescenti alfonsinesi fin dai primi anni '60 d'estate andavano a Casal
Borsetti, stavano tutto il giorno sul candiano.... Si tuffavano al
passaggio delle barche ed alla sera andava al dancing Lanterna di
Marina Romea... o al bar Bologna, o al più modesto
"Lanternino", a caccia di teutoniche (tedesche), ma non
solo...
Comincia
Luciano Lucci:
1961:
Questa per
me fu la prima. Julia Lemke di Lubecca (Lübeck, nord
Germania), conosciuta al campeggio
"Reno", foce del Lamone. Avevo 16 anni e lei 14... Qualche
bacino sulla spiaggia e tante lettere d'inverno... Corrispondenza per
tre anni. Mai più rivista.
1965:
Anna di 16 anni, una tedeschina di Hannover. Io ne avevo
20...
Nel
1966
conobbi una ragazza di Udine, una quindicenne, che aveva
parenti a Mezzano e che era in villeggiatura, si chiamava (e si
chiama) Rita Calderoni.
Si andava a ballare al Dancing
"Lanterna" a Marina Romea, ci rivedemmo anche in
inverno e così via... Poi come al solito, dopo un pacco di
lettere scambiate, non l'ho più rivista.
Rita Calderoni nel
1967
Nel 2014, ho scoperto che dal 1967 al 1983 proprio lei,
Rita Calderoni, fece una rapida carriera cinematografica a Roma,
e ho trovato anche una sua intervista trasmessa dalla TV RAI DUE
nel 2009
Risponde
Guido Pasi:
Roso
da cocente invidia per le avventure Casalborsettesi di Luciano (non a
caso detto“e Mostar”)
metto sul tavolo la mia narrazione, anch'essa nata nel posto meno
probabile, Casal Borsetti
appunto.
Non
posso certo rivaleggiare con gli argomenti sfoggiati da Luciano con la
Rita Calderoni. Non ho
roba forte come “Nude for Satan” da mandare in rete io, bisognerà
accontentarsi di un amore
adolescenziale pur con alcuni sviluppi imprevisti.
Comunque,
già che ci sono, provo a dare un senso a questa storia, contribuendo
a quella che,
prima o dopo sarà la prossima opera di Luciano: “Antologia degli
alfonsinesi a
Casal Borsetti”. Intendo dire che anche da un banale o elementare
svolgimento come è
questo, forse è possibile trarre qualche utile riflessione più
generale.
Qui conviene cominciare che altrimenti si fa lunga...
Io e Geert nel luglio 1967
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AUX YEUX BLEUS
Casalborsetti
luglio 1967,
io diciassettenne girovagavo sempre con un lambrettino
(di quelli a ruota alta) ereditato dal nonno “mastlaza” che non
c’era più.
Un
certo giorno venni fermato davanti all’Hotel Europa da un paio di
“birri” romagnoli
che stavano tampinando due ragazze. “Cosa stanno dicendo?”- mi chiese uno dei due santalbertesi -“non capiamo”.
La carta Kodak del 1967 non rende
giustizia al colore degli occhi della
ragazza seduta sul muretto del canale
di Casal Borsetti... ma un po’ di blu è
rimasto
Che
non capissero era assolutamente normale, dato che le due, una
bionda e una mora, (nella foto qui a sinistra) parlavano
olandese ma, per fortuna, venivano dal Belgio e così io potei
tradurre dal francese quello che dicevano. La mia prestazione fu
molto rapida dato che le parole più frequentemente pronunciata
erano “cochon, bête” che tradussi in “cretino, imbecille”evitando
il paragone col maiale.
Insomma
le due stavano
chiedendo di essere lasciate in pace e, a quanto ricordo, vennero
liberate dall’importuna presenza.
Evidentemente nei dintorni dovevano esserci prede più abbordabili.
Io
ingranai la prima e me andai, anche se a malincuore. Una delle ragazze
aveva due occhi
che non avrei mai più dimenticato: blu.
La
piccola dimensione di Casal Borsetti però fu galeotta e quando ci
rincontrammo sulla
spiaggia lei mi salutò chiamandomi “ l’interprete”.
Cominciò
così un po’ per volta un idillio la cui lingua di espressione fu il
francese e che mi
portò a conoscere non solo lei ma tutta la sua numerosa famiglia. Io
povero ragazzo di
campagna fui spesso invitato nella casa che avevano affittato vicino
al camping Florida
e scoprii cose mai immaginate: che si potessero amare i Beatles e
anche Mozart; che
i libri vanno letti, quando si può, nella lingua in cui sono stati
scritti; che quello
che si studia a scuola non è solo una noiosa incombenza ma serve a
comunicare con
altri (in Francese appunto) e ad avere riferimenti comuni. Suo padre
di era professore di
letteratura e mi instillò la passione per Balzac, suggerendomi che
era stato, assieme a Shakespeare, la lettura preferita di Marx. Ma con certo maggiore
sorpresa, suo
fratello maggiore (Jan) mi spiegò che non c’era niente di strano se
anche lui rifaceva i
letti e lavava i piatti e non lo facevano solo le donne di casa.
Insomma
non fu solo il
mio primo amore fu anche l’incontro con qualcosa di cui ignoravo l’esistenza:
la borghesia colta.
Inutile sorridere: noi eravamo rossi e di sinistra, ma le donne
stavano in cucina
e, come vedremo in seguito, avevamo famiglie patriarcali e idee
piuttosto retrograde su
molte cose importanti-
Torniamo
alla ragazza però...
Io
credevo che lei si chiamasse Veronique, perché così mi aveva fatto
credere, fino che
alla fine di quel luglio del 1967, quando io avevo 17 anni e lei 16. Passammo
tutti i giorni e le sere insieme (le notti no, lei rincasava
disciplinatamente all’ora
stabilita...). Ma prima che arrivasse il momento di salutarci e dopo
aver passato due settimane quasi sempre insieme mi rivelò il suo vero
nome: Geert .
Noi
due sul muretto
A
testimone chiamo “e Mostar” stesso,
qui ripreso dopo la di lei coscia
Qui,
a proposito di Luciano, ho l’obbligo di inserire una nota di
Alfonsine “son” amour. In quel luglio del 1967 la Pro Loco di
Alfonsine organizzò una serata per i turisti sulla costa con frutta
in distribuzione gratis, balli e altro che non ricordo. Non nascondo
che fu per me davvero un grande successo ballare stretto stretto con
Geert tutta la sera all’Arena Unità. Ma qui, statisticamente, va
registrato il fatto che la fanciulla del Belgio posò il suo piede sul
suolo patrio (o matrio? Alfonsine ci è madre o padre?). Con questo
dubbio passo direttamente alla fine del capitolo.
Vi
risparmio lo strazio degli addii e passo direttamente a raccontare
delle lunghe lettere che ci scrivemmo per tutto l’inverno e anche
negli anni successivi.
Cade
la neve
Non verrai stasera
Cade la neve
E il mio cuore si è vestito di nero
Passò più di un anno tra lettere e cartoline. Poi: un
giorno d’inverno che dirvi non so... decisi di andarla a trovare.
Si trattava (in realtà lo so) di un inverno molto speciale,
quello compreso tra il 1968 e il 1969.
L’autunno dopo quell’estate 1967 era stato l’inizio
vero della mia vita politica e il poster di Che Guevara che il settimanale comunista “Vie
Nuove” aveva inserito come inserto nella sua edizione del 19 ottobre era affisso nella
mia cameretta in attesa di quello di Ho Chi Minh.
Cominciai
anch’io a portare la barba e il 1968 mi trovò pronto ma, anche un anno
dopo, non ero certamente diventato adulto e indipendente. Il mio proposito
di raggiungere Geert non era di facile attuazione perché
a)
non avevo i soldi per il viaggio e
b)
perché sapevo che non avrei mai avuto il permesso dei miei.
Ad
impedirlo non sarebbe stato tanto il fatto di dover attraversare un po’ di
Europa da solo (l’ estate precedente ero stato un mese in Romania e
Ungheria in 500 con Prist) su quello avrei forse avuto l’appoggio di mio
padre anche contro l’opposizione di mia madre. Ma di andare senza soldi a
vivere una settimana a casa di altri...no, questo non me l’avrebbero mai
permesso, almeno così pensavo. Non ne ho mai avuto la prova perché mi
servii di un sotterfugio che poi non confessai mai.
I
miei compagni di classe avevano organizzato per Capodanno un settimana in
montagna. Convinsi così i miei a darmi in anticipo il “Buon Anno” , mi
feci prestare dagli zii scarponi e giacca a vento e, una volta a Bologna,
invece di andare a Trento, presi il treno per Bruxelles. Viaggiai tutta la
notte in uno scompartimento pieno di caciotte dirette ai parenti che
lavoravano in Belgio, assaggiandone di ogni tipo e bevendo, per la prima
volta in vita mia, Aglianico del Vulture, in compagnia di lucani e campani.
Non ci fu molto da dormire ma certo non dovetti intaccare i pochi soldi
rimasti dopo aver pagato il biglietto A/R per comprare da mangiare. Fuori
nevicava ininterrottamente.
Quando
arrivai alla stazione della capitale belga era mattina piena e i binari
erano bianchi. Salutai i miei compagni di viaggio diretti in qualche paese
vallone e presi un treno locale per Anversa. Mi sedetti in prima classe
senza accorgermene e stranamente il controllore non disse nulla: era passato
da poco Natale? Oppure era il mio improbabile abbigliamento da sciatore
(stile Sordi a Capracotta) ad averlo intenerito? Arrivai così, comodo
comodo, alla stazione di Anversa. Dove da un telefono pubblico chiamai il
numero che mi aveva mandato Geert.
La
risposta fu pronta ed entusiasta: venivano a prendermi.
La
famiglia De Jong però viveva a Retie che non era precisamente vicinissimo
ad Anversa.
Così
ebbi il tempo di bere un caffè pestilenziale di fumare molte Bastos che si
vendevano a pacchetti da 25 e costavano pochissimo. Portavo già con me un
ritratto di Mao e un libro “Samonà e Savelli” le “Lettere da Lontano”
di Lenin. Edizioni trozkiste e santini di Mao. Diavolo e acqua santa.
Ma chi era il diavolo?
Dopo un’attesa che mi pare durasse un paio d’ore lei
irruppe, con tutti gli occhi blu che aveva, nel buffet della stazione.
Anche se c’erano i treni e c’era molta neve il nostro
incontro non fu alla Vronskij e Karenina. C’era il babbo lì presente che
aveva guidato la R4 nella tormenta e, anche se assente perché impegnato a sciare, lui davvero, in
Svizzera, incombeva la presenza di un fidanzato ufficiale: Luc.
Di quelle giornate del capodanno 1968-69 ricordo la casa di
Retie con le tavole di legno e il soffitto spiovente, le escursioni sulla neve e i
paesaggi alla Brueghel, ma ricordo soprattutto la distanza di Geert attenta a non baciarmi più
come aveva fatto in Italia.
Non rimase neanche sempre con me perché aveva scelto
recitazione al liceo e doveva fare delle prove. Alla festa di capodanno, in una bella casa
di amici, fu ad un passo dal lasciarsi andare tra le mie braccia ma si fermò. Più
tardi mi disse che aveva fermamente giurato che non saremmo mai potuto essere altro che amici.
Me ne convinsi anch’io, il che dimostra, come capii mio malgrado troppo tardi, che
le decisioni hanno spesso ragioni contrarie alla loro ragione.
Quel soggiorno non mi risparmiò altre lezioni alla scuola
della borghesia colta. A casa di un ricco mercante di legname, amico di famiglia
del padre di Geert, discutemmo a lungo della sua tesi: il Belgio andava meglio ora che non
aveva più colonie.
Mentre confutavo questa tesi rivelatasi probabilmente giusta
(il capitalismo ha tratto maggior profitto dal controllo delle economie del
terzo mondo senza gli oneri coloniali), arrivò un carrello con un fornello fiammeggiante. In breve
vennero servite tartine con foie gras e altre prelibatezze. Mi abbuffai, lo
confesso. Rimasi così molto sorpreso quando alla fine di questo banchetto fummo invitati a tavola
“pour le souper”.
Venni così a conoscenza degli
hors
d’oeuvre la cui
esistenza è tutt’ora ignota ad Alfonsine. Procedendo in questo racconto apprenderemo come
la cosa ebbe poi conseguenze disastrose in un’altra occasione. Lo so che avevo 18 anni
belli compiuti e la barba della rivoluzione ma ,anche se vi aspettavate di più, le
cose andarono così, solo così.
Mestamente ripresi il treno e tornai a casa e alla nostra
rivoluzione giovanile. Alla stazione di Bologna incontrai i miei compagni di scuola
di ritorno dalla montagna e seppi che Beppe Masetti aveva raggiunto l’apice della
perfezione falsaria inviando a casa mia una cartolina da Moena con tanto di mia firma
autografa.
Apparentemente la mia storia con Geert era finita ed era
così in effetti anche se ho l’obbligo di aggiungervi ben altri tre capitoli.
Per quanto ricordo il capodanno lo
passai qui, senza bere la famosa
birra locale.
No!
Niente di niente
No!
Non rimpiango niente
Né
il bene che mi hanno fatto né il male
Mi
va tutto bene ugualmente!
Aprile
1969. Tornato a casa, avevo trovato le lotte e le occupazioni ma anche una
ragazza. Insieme tra l’inverno e la primavera di quell’anno avevamo
esplorato i territori del sesso e io mi sentivo decisamente cresciuto.
Non
pensavo più al Belgio lontano... quando cominciarono ad arrivare lettere
scritte in pullman e, infine, un appuntamento telefonico con
un numero di Firenze (una pensione). A fine liceo la classe di Geert
organizzava una lunga
gita in Italia e lei mi cercava. Così, all’ora stabilita, andai nella
cabina telefonica del
Bar Sport (dove si pagava a contatore) e chiamai Firenze. Ci parlammo per 150-200 scatti almeno e lei mi chiese di raggiungerla.
Non
lo feci, accampai scuse, dissi che non avevo soldi, che sarebbe stato complicato arrivare
in tempo (in realtà c’era un ottimo treno Ravenna-Firenze che avevo preso nel 1966
per scavare nel fango dell’alluvione). Pensavo invece alla mia ragazza di Ravenna e
forse forse, dentro la mia anima indurita dalla sua freddezza dell’inverno precedente,
covavo il rancore.
Mi rendo conto adesso che sto raccontando una storia deludente.
Infatti comunque la si giri ritorna sempre ad essere un incontro incompiuto.
Tornai a casa, a pochi metri dal Bar Sport piuttosto
insoddisfatto e naturalmente di lì a poco venni licenziato anche dalla ragazza di Ravenna a
cui non ero certamente abbastanza devoto.
Cominciò così, nell’estate del 1969 di cui ricordo così
poco, il mio rimpianto, la malinconia che di tanto si è fatta viva negli anni a seguire.
A giugno ero stato a Bologna ad una visita presso l’ospedale
militare e, prima di tornare con la corriera di Sarasini, acquistai la prima copia
della rivista “il Manifesto”. Cominciava così la mia vita politica vera e ormai non pensavo
più a Geert (forse qualche volta... ma come diceva il compagno Mao questi pensieri
erano deviazionismo piccolo borghese).
Eppure devo scriverne ancora per almeno due o tre capitoli.
Facciamo adesso un deciso balzo nel tempo e immergiamoci
nell’agosto del 1971. Fa caldo e l’asfalto di Alfonsine non perdona
davanti al bar dei repubblicani dove io Marii (Mario Maioli) e “e Mimò”
(Sergio Guerrini) decidiamo di andare urgentemente ad Amsterdam. Non avevamo
niente da fare ad Amsterdam, ma ne avevamo sentito parlare. Non possedevamo
niente, né soldi, né una tenda per accamparci, ma Mario aveva una 500 L.
Dans
le port d`Amsterdam
Y a des marins qui chanten
Les rêves qui les hantent
Au large d`Amsterdam,
Dans le port d`Amsterdam
Y a des marins qui dorment
Comme des oriflammes
Le long des berges mornes,
Così,
la mattina successiva, affittiamo una tenda da “e Grilò”, la piazziamo
sul portapacchi e partiamo in tre con (circa) L. 30.000 a testa (forse meno)
e un salame donato dalla mamma di Mario.
Il
viaggio fu costoso oltre le aspettative perché, non avendo la carta verde,
dovemmo fare assicurazioni ad ogni frontiera. Di più: quando decidemmo di
mangiare lungo l’interminabile autostrada tedesca ci truffarono col cambio
lira-marco.
Arrivati
ad Amsterdam eravamo già ridotti a comprare pane con il quale fare grossi
panini con una sola fetta di salame in mezzo.
La
mattina avevamo però burro e marmellata per fare colazione davanti alla
tenda che stava in piedi solo grazie ad una miracolosa “arparela”. La
natura “veneziana” di Amsterdam ci era divenuta chiara quando, chiedendo
informazioni ad una ragazza su di un ponte, l’avevamo vista agitarsi ed
urlare all’improvviso. Il ponte su cui stavamo era levatoio e stava per l’appunto
aprendosi.
Individuammo
subito il percorso da fare per il quartiere delle ragazze in vetrina, ma qui
scoppiò una divisione politica: Mario e Sergio volevano visitare un locale
denominato “Museo del sesso” e contestavo la scelta e il prezzo, così
annunciai che le nostre strade si dividevano. Ci ritrovammo invece dopo poco e a
me per vendetta venne contestato l’acquisto di una fetta di crostata.
Il
fumo che ci veniva offerto francamente non ci interessò molto.
Ecco
come, attraversando il braccio di mare che sta dietro la stazione centrale, sul
traghetto che ci riportava al campeggio, mi venne l’idea di fare un salto
nella vicina Retie.
Lì
avremmo mangiato e bevuto e poi, anche se erano passati due anni, la voglia
di rivederla aveva cominciato ad agitarmi fin da quando avevo cominciato a
vedere ragazze bionde che parlavano olandese.
Si
partì dunque per il Belgio ma il racconto non sarebbe certo completo se non
vi raccontassi della foratura che prendemmo lungo il viaggio, dalle parti di
Haarlem. Non ci sarebbe molto da dire su una foratura: togliemmo la gomma
forata, mettemmo quella di scorta e, alla prima stazione di servizio ci
fermammo per riparare quella bucata. Il gommista olandese estrasse la camera
d’aria e la gonfiò come avrebbe fatto chiunque poi, invece di immergerla
in un secchio d’acqua come facevano a casa mia, cominciò a leccarla. La
lingua aveva già percorso un bel po’ di gomma quando l’astuto olandese
vide le bollicine della sua saliva manifestarsi in un punto preciso.
Immediatamente l’uomo dalla lingua nera piantò un chiodo segnaposto nel
punto spumeggiante e poi si diresse trionfante al vulcanizzatore. Non
avevamo mai visto niente di simile né mai più l’avremmo visto ma
certamente la nostra opinione in merito alla superiorità tecnologica del
nord europa fu seriamente compromessa da quell’episodio.
Con
cinque gomme in regola partimmo e nello stesso mattino arrivammo a sorpresa
nella casa di Geert. Erano tutti lì babbo, mamma, amici ospiti e la stessa
Geert. Mancava solo la sorella Leen che si era sposata di recente ed era in
viaggio a Parigi. Purtroppo era presente anche il nuovo fidanzato che si
chiama va Eddy. Geert era cresciuta molto e, ora che aveva vent’anni, era
ancora più bella con i capelli corti e il trucco giusto che le sottolineava
ancora di più il colore degli occhi.
Ma
la mia partita era chiusa ormai, Eddy spadroneggiava.
Passammo un po’ di tempo lì a chiacchierare e a fumare ottimi sigari
mentre in cucina preparavano il pranzo. Ammaestrati dalla mia esperienza con
gli “hors d’oeuvre”, piluccammo appena quando arrivò il pranzo, salvo
renderci conto in ritardo che c’era una sola portata in programma!
Fu
così che ripartimmo, accompagnando Geert ad Anversa con la 500, senza aver
troppo mangiato nemmeno quella volta. Si era trattato di carne comunque,
genere alimentare che rivedemmo solo una volta tornati a casa. Nella città
di Rubens visitammo il suo appartamento da studentessa ormai avviata alla
recitazione e prima di sera ci salutammo e partimmo alla volta di Parigi. Di
quel viaggio a Parigi parleremo in altra trattazione separata ed in
particolare dell’ascesa alla tour Eifel del giovane Guerrini, qui giova
concludere il capitolo come se non avesse avuto alcun seguito.
Capri,
c'est fini,
Et
dire que c'était la ville
De
mon premier amour,
Capri,
c'est fini,
Je
ne crois pas
Que
j'y retournerai un jour.
Come
se niente fosse passiamo adesso dal 1971 al 1999. “Tanta acqua sotto i
ponti” direbbe Sam
al Rick (Bogart) di Casablanca, arpeggiando “as time goes by”.
Dopo
tante vicissitudini che attraversano la storia del “manifesto” e del
Pdup, dopo essere
confluito nel PCI nel 1984, dopo essermi opposto al suo scioglimento, dopo
anni di lavoro in
pubblicità, dopo essere entrato nel PRC, dopo averlo portato a viva forza
in maggioranza: nel 1999 ero, da due anni, Assessore al Turismo, Commercio
e Artigianato del
Comune di Ravenna. Ho premesso tutte queste roboanti dichiarazioni perchè
in quel 1999 presi una sonora fregata: aderii ad una fiera del turismo a
Liegi che si chiamava
“Mosaica” e assieme a Firenze con le ceramiche aprimmo uno stand. La
fiera fu disertata da tutti, non si vide anima viva per due giorni, e
così decisi di fare
un salto ad Anversa per visitare la grande mostra di Antoon van Dyck di
cui aveva ammirato l’autoritratto
ad inizio capitolo. Quando
passai al book shop comprai il catalogo della mostra e anche una guida al
Museo di Belle Arti che la ospitava.
Più
tardi, tornato a Liegi per constatare che le cose non accennavano a
cambiare, scartabellando
i volumi scoprii che il museo era diretto da una Leen de Jong. Il nome esatto
della sorella maggiore di Geert che io avevo conosciuto a Casalborsetti
quando era laureanda
in Storia dell’Arte. Tornato a Ravenna decisi di scriverle una lettera
al museo, correndo il
rischio di aver sbagliato persona: De Jong è un cognome comunissimo in
Fiandra.
Non
ho copia della lettera che scrissi ma il suo senso era:
“Cara
signora Leen , non so se io mi stia rivolgendo ad una ragazza che ho
conosciuto
a Casalborsetti nel luglio del 1967, in questo caso forse si ricorderà di
me perché
io ero quel giovane italiano che ha flirtato con sua sorella Geert.......”.
Ecco la
risposta:
Dunque
era proprio lei e si ricordava di me. I contatti ripresero (con la
sorella) ed io potei ricevere lei e il marito l’anno dopo a Bologna
(ormai ero diventato Assessore Regionale) e poi addirittura organizzare
per loro una vacanza in Toscana nel Chianti Senese nella fattoria di
Pacina del mio amico Enzo Tiezzi, nel 2001 seguente.
Ma
procediamo con ordine:
Da
quell’estate 1999 a tutto il 2000 avemmo modo di parlare (io e Leen)
anche della sorella Geert. Fu così che appresi che lei aveva avuto una
brillante carriera di attrice teatrale e anche cinematografica. Ma il il
primo fil che forse qualcuno ha visto anche ad Alfonsine fu : “Il Quarto
uomo” di Paul Verhoeven (nientemeno!) girato nel 1983 in cui Geert
faceva una particina di “Angelo”.
Patorale
film del 1978
“Il
Quarto uomo” di Paul Verhoeven film del 1983
Ho
saputo poi da Leen che il suo grande successo fu un film comico, uscito
anche in Italia con il titolo “La famiglia più pazza del mondo”.
Confesso di averlo trovato rovistando su
internet.
Il titolo originale olandese è “Schatjes!”
e... cosa posso
dire?
Il
film è del 1984,
Geert aveva 33 anni e io, quando ho visto questo fotogramma ormai nel 2000,
ho sentito ancora una fitta intercostale feroce all’altezza del cuore.
Aggiungo qui altre immagini che danno conto del passare
del tempo....
Bastille 1984
De nieuwe
moeder 1996
Per
arrivare al 2001... quando Leen decise che ci saremmo rivisti .
Non sono stato io sdraiato nel tuo letto
Non
sono stato io, ma qualcun altro invece
Non
sono stato io non mi hai mai visto qui
Devo
andare
Finito il mio lavoro e chiusa la fiera mi incamminai verso
il centro e un po’ alla volta trovai questa strana casa che un tempo era
stata luogo di balli e di vita sociale e ora ospitava un bistrot:
PolmanHuis.
Entrai titubante e la riconobbi seduta in un angolo con la
sorella e suo marito.
Mi abbracciò e ci trascinò fuori, verso un altro bistrot, quello dell’Hotel
Carlo V:
trop froid ici,
mi disse.
Cenammo e non ricordo niente di quella cena né le parole
né i piatti.
Quando furono le 10 o giù di lì Leen e Paul tornarono a
casa e Geert mi invitò a far tardi in un bar lì vicino. Così parlammo
bevendo cognac fino alle 3 del mattino. Di quella conversazione ricordo
invece molte cose: la sua bellezza di cinquantenne e gli occhi, sempre
quegli occhi ma soprattutto ricordo il miracolo di quella conversazione in
cui parlammo dei decenni trascorsi e di noi.
Prima di tutto lei precisò : “Hai scritto a Leen di
aver flirtato con me. Io non ho mai flirtato con nessuno. Io ti ho amato”.
Fu così che le dissi: “Per tanti anni mi sono detto che
sarei dovuto venire a Firenze ad incontrarti quell’estate del 1969. Che
errore feci a non venire...”.
“Dunque anche tu mi amavi?”.
“Sì”.
“Questo è importante, è importante che entrambi
sappiamo di essere stati sinceri, poi la vita ha preso la sua strada per
ognuno di noi”. Fu così che le parlai di ciò che avevo fatto, delle
mie battaglie, dei miei amori, delle mie passioni e lei fece lo stesso.
Scoprimmo, man mano che avanzava la notte di aver
condiviso, senza saperlo e rimanendo
a distanza, tante idee e di aver in comune molte passioni per la musica,
il cinema e di aver letto gli stessi libri.
Per
una bizzarra scelta organizzativa dovevo dormire ad Amsterdam così lei mi
accompagnò al treno e partì con una vecchia alfa rossa per L’Aia. Era
una notte gelida a -10 ma io non ero mai stato meglio da molti anni anche
se aspettavo un treno scomodo guardando un binario congelato.