Casalborsetti
è il paese più selvatico e meno omologabile che ci sia sulla faccia
della terra, un posto proletario e contadino, si sarebbe detto nel
secolo scorso. Qui le brutture della Piccola Borghesia non hanno mai
attecchito più di tanto e il mondo sembra passato direttamente dalla
tribalità all’elettronica, dal precapitalismo più giudizioso al
postsocialismo più ispirato. Niente modernità da queste parti,
soltanto bricolage emergenziale e qualche vaga promessa di girotondo.
Casalborsetti è una metropoli palustre, un prato barenicolo camuffato
da Giardino dell’Eden. In posti del genere i geometri contano poco e
la mestizia dei piani quinquennali ancora meno.
Casalborsetti è molo
e spiaggia, spiaggia e molo. Non c’è altro. Il molo finisce con un
padellone-ristorante veramente fuori dall’ordinario e comincia con
una montagnola di sabbia tanto sublime e improbabile da sembrare la
naturale prosecuzione del monolite di 2001 odissea nello spazio.
La
spiaggia si allunga invece sull’asfalto dorato della Via dei
Romei e si smarrisce regolarmente nei sentieri che portano nella Pineta
di Dante.
Qualcuno
sa dirmi se ci troviamo a Tombouctou oppure dentro a un Giardino
zen?
A
volte la nostalgia si appropria di un luogo, lo modifica, gli dona
un’aura incantata, mostra cose che non ci sono e che forse non sono
mai esistite.
Magari
la prossima volta parleremo di un porticciolo turistico pieno di
seconde e terze case, magari non ne parleremo proprio e chiederemo
alla realtà di ripassare tra qualche millennio. Per adesso, caro
lettore, ingoiamo questa Madeleine proustiana, e speriamo che
non ci vada troppo di traverso.
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