|
---|
| Alfonsine
| (torna
alla pagina su Vincenzo Monti
| La casa dove nacque |
| Un articolo di Carlo Piancastelli (sei qui) |
C. Piancastelli, Vincenzo Monti e Fusignano Uno scherzo ai Fusignanesi | Vincenzo Monti | I
primi rapporti di Vincenzo Monti con Fusignano egli li ha nientemeno che messi
in versi, e sono perciò generalmente noti, ma il loro ricordo ha fatto sempre
arricciare un po' il naso ai fusignanesi, i quali non amano troppo che se ne
parli, ed io invece ritengo sia bene occuparcene subito, di proposito ed
ampiamente, considerandoli alla luce dei documenti testé pubblicati(1),
e valutandoli al loro giusto peso; dopo le cose andranno più liscie. Si
tratta del Capitolo in terza rima che sotto il nome datogli dall'Arcadia
ferrarese di Autonide Saturniano, il Monti dirige a Climene Teutonica, nome
arcadico della Marchesa Maria Maddalena Trotti Bevilacqua di Ferrara, ed è
inserito nel Saggio di Poesie che l'ab. Monti fece stampare a Livorno nel
1779 (2). Le
terzine sono abbastanza note, e molto citata è la prima:
Autonide Pastor dentro le mute
Di.... rinchiuso orride
tane
All'eccelsa Climene
invia salute. Chi
cita, naturalmente invece dei puntini mette il nome di Fusignano, che in realtà
era quello che il poeta e la marchesa e i fusignanesi pronunciavano. E ci
fermassimo qui! Presso che tutto il non breve componimento è una feroce invettiva
contro Fusignano e i suoi abitanti, e si sviluppa su questo tema, che essendo
stato il giovane alunno di Apollo invitato a cantare gli sponsali del Marchese
Camillo, figlio della sua protettrice e ispiratrice e confidente, non può in
nessun modo adempiere l'incarico assunto, perché all'estro è vietato l'accesso
alla prigione dentro la quale egli è costretto; se ne vendica diffondendosi a
descriverla con prolisse tirate tra stizzose e facete:
L’esser
dannato alla deserta sabbia.
D'una spiaggia
di cui già non cred'io
Ch'altra più
scellerata al mondo v'abbia; Oh questo sì
è supplicio che per dio
Arrabbiar fammi
e bestemmiar di core,
E il destin
maledire acerbo e rio. Fra Sarmati e
Cetuli, o fra l'orrore
Chiuso io non
son di Pontiche paludi,
Come Nason
maestro a me d'amore, Ma fra genti
però sì sconce e rudi,
Si ferme
d'aspetto e di costumi,
Si sgarbe e di
talenti così crudi, Che se ben
sopra d'esse aguzzi i lumi
Tu figlie le
dirai d'orsi e leoni
O di ghiande
pasciute e d'irti dumi. Se a parte
ognuno a contemplar ti poni,
Di volto
liberal puoi due contarne,
Che il resto è
un brutto stuol di Lestrigoni. Le donne poi,
che fede io posso farne,
Han le
sembianze sì bizzarre e brutte,
E così rancia
e ruvida la carne,
Che non v'è
rischio che giammai corrutte
Sien le caste
mie voglie ....
Passo i giorni illibati e come giglio
La coscienza ho
bianca ....
Lunghe le orazion, devoti e spessi
I
digiuni.....
Sto sempre in casa; e intanto o che s'imprende
A dir dei salmi
o che della Madonna
La
coroncina da le man mi pende ..... In
tali condizioni si domanda se è possibile far dei versi epitalamici: ohibò!
Le muse al mio
pregar avverse e sorde
Van lungi, che
malarsi hanno paura
In queste
sponde pestilenti e lorde
La bella
insomma poesia paventa
Passar per
queste lande, ove l'eterno
Cracidar
delle rane il ciel tormenta ..... Il
Monti compose questi versi o alla fine del 1777 o sul principio del 1778, mentre
era a Fusignano a passarvi le vacanze natalizie concessegli dall'Università di
Ferrara a cui egli era iscritto, perché i suoi genitori esigevano che alla
chiusura dell'Università egli tornasse sotto il tetto paterno. Un
giovanotto di 23 anni, che in città assaggiava tutti i piaceri, con un
temperamento vivacissimo, amante della buona società, di far chiasso con gli
amici, di correr dietro a tutte le gonnelle, poteva acconciarsi fra le austere
pareti domestiche di Majano, nella regolare metodica vita campagnola? Poteva
contentarsi dell'unica distrazione del recarsi al vicino paese di Fusignano alle
funzioni religiose, e, beninteso, alle prediche, accompagnato e vigilato da un
bravo sacerdote, Don Pietro Santoni, suo santolo, cui si aggiunse Don Cesare
Baldini arciprete, due ottimi vicini di casa, del resto, che soli egli anzi
salva nel suo furore febeo? E'
bensì vero che un sei anni prima il nostro sbarazzino aveva avuto un rapimento
ascetico, molto fugace, durante il quale si era immaginato d'aver la vocazione
di farsi frate cappuccino o prete, ma da allora in poi molt'acqua era passata
fra le sponde del Senio e del Po. Il suo stato d'animo s'indovina subito dai
famigerati su riferiti versi, e vien reso vieppiù manifesto dalla lettura delle
sue lettere ad essi precedenti o concomitanti, nelle quali è spesso agevole
scoprire la rispondenza fra le impressioni momentanee, e quelle cui fu data
forma stabile. C'è
una lettera del 30 sett. 1777 da Fusignano a Clementino Vannetti che ha delle
frasi sullo stampo di quelle accomodate in endecasillabi: "Colpa di tutto è stata la mia invitta pigrizia, la quale in queste orride solitudini di Fusignano ove mi trovo confinato, si è impossessata talmente del mio corpo e del mio spirito che tutta l'elettricità di Beccaria e di Franklino non basterebbe a scuotermi". Il
suo disagio a Majano era grande, ma si andrebbe del tutto fuor di strada se si
supponesse che in lui tale condizione producesse una reazione non dirò di cupa
tristezza ma nemmeno di blanda malinconia. Il malcontento e il malumore egli li
sfogava con espressioni che non nascevano da un fondo ostile, e nulla avevano di
comune né con l'astio né col rancore; erano detti satirici e burleschi, i
quali si confacevano al suo temperamento gioviale, un po' balzano, con un
pizzico di sventatezza. E
si andrebbe anche errati nel credergli sulla parola, e ritenere che la sua musa
giovanile fosse essenzialmente socievole e non trovasse alcun alito di vita nel
silenzio e nella quiete; s'incaricherebbe lui stesso di darci delle solenni
smentite nel suo volume, e del resto sarebbe come ammettere che nel suo spirito
non ci fosse neppure un briciolo di poeta. Egli
al contrario sapeva appartarsi, isolarsi, ridursi con la sola compagnia di sé
stesso, ed allora anche le umili impressioni ricevute dai piccoli fatti paesani,
dai comuni casi famigliari, erano elaborate dalla sua fantasia, e prendevano una
veste poetica, quale naturalmente concedevano l'immaturità dell'artista e
dell'arte. E ci vuol ben poco a coglierlo in fallo. Molte delle sue lettere da
Fusignano, appunto di questo periodo, sono ricche di versi, e vi si parla anche
del proposito di poetare nella lingua di Ovidio Nasone. Si può star sicuri che
di parecchie delle poesie che si leggono nel Saggio del 1779 (2),
gli sarà venuta l'ispirazione nella solitaria sua casa fusignanese. O
cara solitudine, una volta
A sollevar deh vieni i miei tormenti
Tutta nel velo della notte avvolta.... Così
nell'Entusiasmo Melanconico, dove sono anche queste terzine che si possono
credere ispirate da qualche predica sulla morte udita a Fusignano, perché è
difficile pensare che tale lugubre argomento gli si presentasse spontaneo alla
mente, ed ancor meno ammissibile è che, nonostante le raccomandazioni della
mamma, il giovincello andasse alle prediche a Ferrara, o vi andasse per
sentirle: Deh,
che questa non sia l'ultima notte
De' crescenti
miei dì! Guardami e vedi
Che innanzi
tempo il tuo furor m'inghiotte... Oh
morte! Oh morte! Eppur terribil tanto
Non sei qual sembri: tu sugli occhi adesso
Mi chiami invece di terrore il pianto.... Dopo
questi si favorisca leggere la lettera che nell'ottobre del 1774 (3)
egli scrisse da Fusignano all'Abate Don Francesco Bertoldi: "Voi
adesso ve la godete a Ferrara..........
ed
io mi moro di melanconia fra questi capripedi di Fusignanesi. Presentemente però,
cioé adesso in questo tempo siamo in missione, che vien data da due barbe. Immaginatevi
se sto con divozione e raccoglimento, e se metto il cervello a partito. Tutta
questa sera (con ciò sia cosa qualmente che scrivo a lume di candela sulle
quattro) tutta questa sera non ho fatto che piangere per aver sentita la
meditazione su la morte. Mo' la è una gran brutta cosa la morte! Non credo
d'averla mai provata, ma assolutamente temo che la sia in verità poco di
buono...... " Come
non sorridere? come credere alla consistenza, non dico alla profondità, dei
sentimenti espressi in prosa o in rima da questo ragazzo, che, dopo tutto, ci
riesce simpatico? Io
mi permetterò di dire di più, che il giovane Monti mostrava fin d'allora una
vena di comicità schietta e spontanea, che si può rimpiangere di veder poi
negletta in opere originali, sì che affiora soltanto qua e là
nell'epistolario, e molto più tardi, al cader dell'età, nei dialoghi
cruschevoli. Leggendo
questa lettera a Don Bertoldi la mia memoria corre subito a quelle da lui
dirette alla cara sua amica, la Signora Clementina Ferretti nel 1785 dal
Convento di 5. Bonaventura sul Palatino, dove egli era col suo padrone il Duca
Braschi, in ritiro, per prepararsi al precetto pasquale, nelle quali brilla la
più arguta e festevole malizia. Ma torniamo a noi. Quando il Monti compose
l'incriminato Capitolo, alle ragioni della sua insofferenza della vita
fusignanese ora esposte, e per sé sufficienti a spiegarla, un'altra se ne
aggiungeva ancor più efficace, che crebbe sempre di potenza e non gli diede più
tregua. Egli da alcun tempo aveva fisso di portarsi a Roma per tentarvi la fortuna letteraria, e strenuamente lottava contro la riluttanza dei genitori e l'ostilità dei fratelli. Arrivava fino a mettere in un fascio Ferrara e Fusignano. "E' duopo" scriveva al padre il 9 Maggio 1777 "che restiate ormai persuaso, che l'aria o di Ferrara o di Fusignano non è salubre per me; voglio dire che rimanendo in queste parti, io sarei sempre un ozioso, un meschino, costretto da una quasi totale impossibilità di rendersi vantaggioso a sé medesimo, utile al decoro della casa, perché condannato a seppellire in una oscurità perpetua quei pochi talenti che Dio mi ha compartiti. Vi ho già detto altre volte che lo studio legale, medico, matematico o altro, non è per me. Il mio genio non può combinarsi con siffatte scienze...... " Egli minaccia perfino di violare disperatamente l'obbligo dell'obbedienza, cioè di scapparsene. Quando
Dio volle il permesso fu dato, i preparativi furono terminati, ed il Monti partì
per Roma il 16 Maggio 1778. A
Roma la fortuna non fu così sollecita a corrergli in braccio come egli aveva
fantasticato, i fiori non spuntavano sulle sue orme, il mondo non rimaneva
estatico all'udirlo gorgheggiare in Arcadia, e allora egli pensò che un ottimo
stimolo per risvegliare l'attenzione pubblica, fosse la stampa delle cose
letterarie da lui composte fino allora. Ed
uscì il Saggio di Poesie, che è un bizzarro miscuglio di sacro e di profano,
di lascivo e di devoto, con settecentesca inconsapevolezza; vi si passa dalla
prosa ai versi, dal volgare al latino, vi si tentano tutti i metri, si sfiorano
tutti i generi letterari. Per il genere bernesco, viene secondo il nostro
Capitolo anti-fusignanese. In quale contorno siano nate le sue invettive, e di
quale suo spirito si siano nutrite abbiamo visto, quale peso bisogna darvi è
facile dedurlo; non bastasse il detto, ecco ora un ultimo particolare
curiosissimo, a sigillo del tutto. La
dedicatoria del volume reca la data dell'8 Giugno 1779, ma il libro non uscì
che ai primi di agosto. Il lavoro tipografico che si eseguiva a Livorno,
richiese molti più mesi di quanti supponeva l'autore, che si riprometteva gli
fosse consegnato perfetto entro il Maggio. Nell'imminenza della pubblicazione,
il 26 Maggio, egli ne scrive a Fusignano al fratello Francesc'Antonio, e lo
richiede di denaro per quella stampa, che già gli costava all'incirca trenta
scudi, e sapendo con chi parlava, crede opportuno informarlo della sua
convinzione d'aver combinato un magnifico affare: "Le copie che faccio tirare sono nel numero di cinquecento, e se la cosa mi anderà bene, come ne sono sicuro (ma con un poco di pazienza), io ci guadagnerò più di un centinaio di scudi, oltre il regalo che io son certo di avere dalla Marchesa Bevilacqua cui è dedicata". Poi, con la massima indifferenza: "Se
mai qualche mio amico di Fusignano volesse far acquisto del libro, ditegli che
prepari i cinque paoli. Diversamente, fuori di una copia unica che io manderò
per quelli di casa, nessuno si lusinghi di esserne regalato, se fosse anche
nipote del Re di Spagna". Non
è curioso? Ma poteva egli aver scordati i terribili e, se vogliamo, anche
passabilmente villani improperi, di cui allora gemevano i torchi? no davvero;
dunque è certo che non vi dava nessuna seria importanza. All'inserzione del
Capitolo nel volume si vede che non aveva potuto rinunciare, forse perché con
esso voleva fare il pajo degli esperimenti di stile bernesco; i fusignanesi o
non vi avrebbero badato, o badandoci l'avrebbero preso per quello che doveva
essere, uno sfogo innocuo rimato. Forse
nella sua giocondità il Monti godeva di figurarsi gli storcimenti di bocca di
quei suoi lettori, e a dar prova delle sue candide intenzioni volle aggiungere
uno scherzo. La lettera ha una postilla che termina così: "Nel
libro che stampo io metterò il mio nome col patronimico di Ferrarese. Se ciò
dispiacesse molto ai Fusignanesi potrò cambiarlo in quello di Fusignanese,
giacché il titolo è l'ultima cosa che si fa". Non
conosciamo la risposta del fratello: egli non mise né ferrarese né fusignanese. Da:
C. Piancastelli, Vincenzo
Monti e Fusignano, Bologna, Stabilimenti Poligrafici Riuniti, 1928. Note (1)
Alludo all'Epistolario di Vincenzo Monti che Alfonso Bertoldi sta
pubblicando, e di cui è qui inutile ripetere le lodi che i più insigni cultori
della storia letteraria gli tributano; dei sei volumi promessi, due ne sono
finora usciti e comprendono gli anni 1771-1805. Tutte le lettere che andrò
citando furono tolte fino a tutto il 1805 da questo Epistolario, dal 1806-1828
dalle Lettere Inedite e Sparse che lo stesso Bertoldi insieme col Mazzatinti
pubblicò sei lustri or sono; delle altre indicherò la provenienza. (2)
"Saggio di Poesie dell'Abate Vincenzo Monti. A sua Eccellenza la
Signora Marchesa Maddalena Trotti Bevilacqua"
Livorno, dai Torchj dell'Enciclopedia, 1779. - 8 ° pp. XXX - 240. Il
Capitolo di cui si parla comprende le pagine 179-186: questi versi giovanili il
poeta li rifiutò, e si ripubblicarono solo nell'edizione delle Opere in otto
volumi stampati dal 1821-1828; il Capitolo trova posto nel Vol. IV (1827). I
puntini originari furono sempre mantenuti fino al Carducci; il primo a violare
il segreto fu, se non erro, il Casini nell'edizione del 1889. (3) Questa e la prossima lettera del 26 Maggio 1779 sono presso di me, ed erano inedite prima della pubblicazione nell'Epistolario. |
| Alfonsine
| (torna
alla pagina su Vincenzo Monti
| La casa dove nacque |
| Un articolo di Carlo Piancastelli (sei qui) |