Alfonsine

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Tagliatelle al ragù 
(fatte in casa)

Come farle e condirle secondo la tradizione  - 
Al massimo 6 porzioni

(Liberamente elaborato da un articolo apparso su "Il Romagnolo" n° 97 ottobre 2010, e dal libro "Lo zen della tagliatella romagnola di Marco Galizzi, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, euro 11)

Le tagliatelle vanno fatte in casa, ma senza usare le macchinette moderne che le producono magari anche ben fatte ma troppo lisce, e quindi incapaci di assorbire bene il sugo di ragù.  Non parliamo poi delle tante marche poste in vendita, oppure della pasta fresca disponibile nei negozi artigianali, presenti oggi un po' ovunque.

Le tagliatelle sono una specialità tutta romagnola e, nel mondo, uno dei primi piatti più conosciuti ed apprezzati. 

 Fare le tagliatelle come si deve significa rispettare regole ben definite, sottostare a precise norme che s'estendono anche al loro condimento, dal momento che non è possibile volerle legare con qualsiasi tipo dì sugo, come se fossero ad esempio volgarissimi spaghetti.

Nel corso dell'evoluzione gastronomica anche le tagliatelle possono aver subito variazioni sul tipo di ragù o condimento, ma non hanno mai tollerato trasgressioni grossolane, neppure in nome d'una presunta nouvelle cuisine.

Più dei cappelletti e di qualche altra pasta fatta in casa di origine squisitamente romagnola, le tagliatelle di tradizione per essere tali debbono seguire canoni inderogabili.

GLI ATTREZZI per giungere ad una `mangiata' di tagliatelle degna di questo nome – massimo per sei persone, poiché un numero superiore non ne garantirebbe la qualità - sono: 
il tagliere, il mattarello, un coltello a punta quadra, poi pentola, scolapasta e zuppiera.

 

GLI INGREDIENTI: farina, uova ed eventualmente sale.

Un etto ed un uovo per ogni commensale ed un pizzico di sale, a piacere. 

4 uova, 4 etti di farina, 2 etti di macinato di carne bovina, 1 etto di macinato di carne suina, 80 grammi di sedano, 70 grammi di cipolla o scalogno, 60 grammi di carota, 400 grammi di passata di pomodoro, sale, olio.

Come noto si dispone la farina - va bene quella del tipo zero - al centro del tagliere dandole forma di 'fontana' con buco al centro. 

E' indispensabile - dice Marco Galizzi - che sia di Grano Romagnolo (il marchio D.O.P non c’è ancora, ma è questione di poco) , è un qualche cosa di felliniano. Avete presente quando in Amarcord “lo zio ritardato grida sopra un enorme albero, “voglio una donna”, tutto sembra immerso tra i campi di grano. E’ dentro la nebbia che arriva il transatlantico Rex dalle lontane americhe, e sarà nel mezzo di una nevicata che il pavone farà vedere la sua ruota solare. Ma che cos’è la nebbia e la neve se non polvere di farina, se non magia di farina? E’ lo straordinario che arriva! La farina è la neve dei presepi, per questo può trasformare il volto degli uomini. La farina porta in sé il mistero della vita, ci permette di contemplare fecondità e promessa. E’ il ritorno delle messi che si perpetua nella visione silenziosa delle stagioni”.

Si rompono le uova e si versano al centro della 'fontana'. 

Per un cosmo in perfetta armonia, le uova dovranno essere necessariamente di galline di razza romagnola. Le uova di galline “ruspanti” hanno la migliore resa per fare l’impasto (e’ spas) con ottime caratteristiche di consistenza ed elasticità. L’autore del libro Lo zen della tagliatella romagnola di Marco Galizzi consiglia quelle di Boncellino, ovviamente in omaggio al Passatore. 

S'inizia a mescolare uova e farina con una forchetta. Si parte dall'interno e con metodicità - dunque senza fretta - si tocca l'esterno.

 

FARE L’IMPASTO

Quando tutta, o quasi tutta, la farina è stata assorbita dalle uova, si lascia la forchetta e s'inizia ad impastare con le mani, con il palmo delle mani. La manipolazione avviene con un movimento di spinta, alternando sinistra e destra, dall'alto al basso. Dopo ogni quattro o cinque `spinte' l'impasto va raccolto e compresso così da formare la 'palla', continuando fino a quando l'impasto non diventi compatto e liscio.

Lo si mette a 'riposare' per circa un quarto d'ora ricoprendolo con un telo di cotone o canapa.

 

COME LO FACEVA L’AZDORA

 L’Azdora  quando impastava si liberava di braccialetti e si rimboccava le maniche fino al gomito. Un tempo le donne mestruate stavano lontane dal tagliere.

Se l'impasto risultava troppo morbido s'aggiungeva un po' di farina, se troppo compatto o duro, un po' d'acqua tiepida.

La dose uova-farina succitata è quella di tradizione, tuttavia era previsto ridurre le chiare e aumentarne i rossi. Ciò comportava però un maggiore sforzo nell'impastare. Si evitava di preparare le tagliatelle in giornate particolarmente umide. Questa regola forse valeva anche per le altre paste fatte in casa. Dunque niente acqua.  

(Dal libro Lo zen della tagliatella romagnola di Marco Galizzi, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, euro 11):
"Ogni azdora ha un modo suo di amare l’impasto ed è una specie di sigillo, una firma che la caratterizza. E spas (l’impasto) è inscindibile dall’azdora che lo produce, è una sua creatura, solo lei può decidere quando è tempo di porre fine alla danza. Perché di una danza si tratta. Per Mara il ritmo era in tre quarti. Era come una specie di valzer che entrava in simbiosi con le uova e la farina. I suoi movimenti per creare l’impasto erano un ballo ondulatorio, dolcissimo. Lo manipolava con una forza e una grazia ultraterrena per creare qualcosa che era solo suo. Come Dio che utilizzò il fango per creare l’uomo. A me pareva di sentire, in testa, quella musica e quelle note. Mara danzava con la sfoglia, parlava con la sfoglia, cantava con la sfoglia. E io restavo in silenzio a guardarla estasiato”.

COME STENDERE L'IMPASTO

Con l'ausilio del mattarello stendere l’impasto per l'azdora era un'operazione relativamente facile. Un po' alla volta esso s'assottigliava. Quindi l'azdora lo faceva ruotare e continuava col mattarello fino ad ottenere una grande 'luna', tonda e sottile, morbida e spessa un millimetro o un millimetro e mezzo. 

Poi la si copriva con un telo di cotone o canapa e si attendeva che asciugasse, infatti la migliore era quella ben asciutta, ruvida ma non secca. 

Doveva farsi arrotolare su se stessa senza cedimenti, così da formare un rotolo largo sette o otto centimetri, che andava leggermente schiacciato. Si giungeva al momento fatidico del taglio. La larghezza delle tagliatelle di tradizione non superava mai i sei millimetri, in nessun caso! Poiché una sua misura superiore avrebbe sconfinato nella 'tagliatella larga' che era più emiliana che romagnola.

  LA COTTURA

Si giungeva così alla cottura, parte non indifferente per la buona riuscita di questo prelibato piatto. In una pentola - la pignata d'una volta - si versava l'acqua in misura di un litro per ogni 100 grammi più, alla fine, un altro litro. 

La cottura rivestiva particolare attenzione poiché, se sbagliata, mandava a monte tutta la fatica sin qui impiegata. 

Si salava l'acqua e la si portava a bollore, "bollore a cavalloni". 

A questo punto si immergevano le tagliatelle e le si mescolavano delicatamente con il cucchiaio di legno al fine di aprirle o meglio svolgerle.

Quando emergevano nel bollore si attendeva "un attimo", quindi si toglieva la pentola dal fuoco e vi si versava un bicchiere - o mestolo - di acqua fredda, così che si 'fermasse' la cottura. Si scolavano facendo attenzione a come si presentavano: se troppo asciutte si versava su di esse un bicchiere di acqua di cottura, ovviamente quando fossero già nella zuppiera. Quindi il condimento, che risultava l'ultima operazione dal momento che il formaggio secco grattugiato - il grana o il pecorino stagionato - veniva 'spolverato' prima.  

Un buon piatto di tagliatelle deve sentirsi al dente, e anche per questo il procedimento della cottura diventa importante. 

Per i sughi il più 'classico' è il ragù di carne,  macinato di carne bovina, fatto con carne di manzo magra, pomodori rossi di orto passati, sale e pepe, su una buona base di soffritto. Un'eventuale aggiunta di macinato di carne suina rende il tutto ancora più speciale. 

Il macinato di carne bovina deve essere fatto esclusivamente con vacche romagnole marchiate i.g.p (indicazione geografica protetta). E poi, anche se per altri motivi, la vacca romagnola è sacra proprio come quella indiana. Senti come lo spiega bene l’autore: “Non c’è centimetro della terra di Romagna che non sia stato scolpito da questo animale.  Perché se c’è una cosa che la vacca romagnola sa fare, come un usignolo il canto, è “tirare”. Col vomere intendo. Una zolla alla volta. Zolla per zolla. Perché se riesci a sventrare la terra, e a modellarla in zolle, puoi arrivare dappertutto. E il profumo della sua carne scava gallerie dentro le quali puoi progettare il futuro”.

Per quanto riguarda il macinato di carne suina, è assolutamente impossibile scappare dalla mora romagnola. Il maiale (il porco, il ninino, la troia) è l’animale più simpatico che ci sia. Parlare del maiale rende allegri i Romagnoli. Il maiale è sempre sinonimo di festa. Secondo Marco Galizzi, “Non puoi usare carne diversa. Il sapore della mora romagnola è un canto rivolto alle colline di Romagna. Un piacere, per certi versi, perverso. Parla di querce e ghiande, di roverelle, di tuberi e cortecce, di granaglia e sottobosco. Ma quello che sopravanza a tutti è quello dell’odore di broda calda di cui sembra intrisa ogni cellula muscolare e ogni cellula adiposa di questo maiale. E’ un sapore solido che può contenere tutto”.

Un ragù di tradizione dovrebbe cuocere per almeno due ore di fuoco lento. La salsa di pomodoro ha un ruolo determinante nel dare “unità” agli ingredienti. Per il soffritto ci vuole la cipolla oppure lo scalogno. Poi le carote che permettono sodezze zuccherine e anche il sedano.

Nella ricetta delle tagliatelle c’è anche il sedano, e quello da usare è ovviamente il Grande Sedano di Romagna. A detta dell’autore, “Il sedano è un fraseggio umile, ricco di acqua e fibre, è un brivido verticale, la vertigine di un archetto necessario a fare suonare un violino. Profuma d’erba e di foglie. Vivifica l’immaginario lontano da ogni rancore, inoculando note all’interno di un pentagramma nuovo, tra la bocca e il naso e tra questo ed ogni parte del cervello. Rapido. A ciclo continuo. E’ musica il sedano quando è sublime. Musica profumata. Per questo i grandi sedani evocativi potrai trovarli nella zona di Fimicino, luogo di nascita di Carlo Brighi (Zaclèn), compositore e inventore della musica romagnola”.

E per il soffritto ci vuole la cipolla oppure lo scalogno. La cipolla è un cenacolo ricco di significati dolciastri e di rimandi pascoliani. A sentire Marco Galizzi, “ Sono pura poesia la cipolla o lo scalogno di Romagna. Il loro profumo quando è sublime è una copula vegetale, una tentazione afrodisiaca, un richiamo alle delizie della carne. Questi bulbi diventano la metafora di armonie femminili, la metafora di verginità perdute. Desideri irresistibili pieni di fluidi capaci di emanare odori di carne umida. Pronta per l’accoppiamento. Non dimenticarlo, sono così la cipolla o lo scalogno romagnolo, preannunciano il raccolto di delizie carnali, preannunciano la pienezza sessuale, a tutto tondo”.

Nel ragù che in Romagna si prepara per le tagliatelle, le carote permettono sodezze zuccherine.  Grazie al loro lento “dilatarsi” stabiliscono con la terra un’atmosfera densa di relazioni sensitive.  La carota, dice l’autore di questo libro, “è come uno in sella alla bicicletta, in salita, che deve spingere sui pedali se non vuole tornare al punto di partenza. E’ un fatto di gravità e di leggerezza insieme. Una buona carota, una carota sublime, può dare profondità al ragù facilitando la risalita di tutti gli altri sapori. Va a costruire quei gradini necessari per farli emergere agevolmente. La carota è una scala, un ascensore degli ingredienti. Bisogna dimostrare determinazione per essere buoni ciclisti e ottimi scalatori. Allo stesso modo deve essere un ortolano per produrre carote sublimi. Ogni volta che riconosco nel ragù carote sublimi non posso fare a meno di pensare agli orti di Cesenatico e al grande campione Marco Pantani”.

In Romagna il ragù viene fatto bollire per ore e la salsa di pomodoro ha un ruolo determinante nel dare “unità” agli ingredienti. Ma senti cosa dice questa volta Marco Galizzi: “Con l’esperienza imparerai che il pomodoro romagnolo è impregnato di forza ed erotismo. E’ l’intimità dell’orto quella che emerge dal fondo del pomodoro, l’atmosfera umida di un luogo inquinato dalla magia e dalla sorpresa, il bisbiglio di parole dette sottovoce. E’ sensuale e seducente se maturo come allo stesso tempo casto se acerbo. La sua polpa dolcemente odorosa alterna pallore e rossore come il viso degli amanti. E’ un’escrescenza solare e lunare i cui segreti non sono mai ovvi o scontati.  Usa la passata ottenuta da pomodori cresciuti in Romagna e il ragù avrà un corpo più adulto. Il pomodoro in Romagna è garibaldino, non dimenticarlo. Sono gli orti attraversati da Garibaldi quelli che producono pomodori sublimi. Se poi trovi il pomodoro riccio di Romagna allora avrai fatto centro”.

E il sale? Quanto basta, certo. Ma deve essere il Camillone di Cervia. Questo sale si insinua nei delicati territori del gusto e dell’olfatto con modalità uniche. Apre le porte, attraverso le quali passano gli odori e i sapori, con una delicatezza e una dolcezza superiore a qualunque altro sale.

L’olio poi (e c’era da giurarci) deve essere assolutamente quello D.O.P di Brisighella, così come l’acqua consigliata è sicuramente quella dantesca dell’Acquacheta di San Benedetto in Alpe.

Oggi comunque il ragù lo si fa con diversi tipi di carne e l'aggiunta di salsiccia. Così si prepara in meno d'un quarto d'ora. 

E pare venga bene!

A tutt'oggi (2023) le migliori tagliatelle si possono mangiare alla trattoria "Al Gallo" di Alfonsine...

ALFONSINE 

anno 1992

si vedono Iris e Lina del 'Gallo', Mario Maioli e Ester Giardini, Fulvio Ceroni e Cristina Zaccaria, Guido Pasi e Alida, Sergio (Mimò) Guerrini e Sabrina, Rino (Prist) Montanari, Amos (Archi) Calderoni, Marò, Ercole barista del bar "Stazione". Luciano Lucci c'era ma aveva la telecamera in mano per le riprese.

 

 

 

 

(Liberamente elaborato da un articolo apparso su "Il Romagnolo" n° 97 ottobre 2010, e dal libro "Lo zen della tagliatella romagnola di Marco Galizzi, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, euro 11)

 

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