Alfonsine

 | Ricerche sull'anima di Alfonsine |

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Luciano Lucci
 

Origine della Resistenza ad Alfonsine

 

1° Capitolo
L'origine 
della
Resistenza 
ad Alfonsine 
e in Romagna
Capitolo
I compagni comunisti 
di Alfonsine e Arrigo Boldrini
Capitolo
Riccardo Fedel (Libero) e Alfonsine
4° Capitolo 
Sulla prima Resistenza armata in Romagna
: un buco nero e una frattura della memoria 

(sei qui)

Un buco nero nella «memoria della resistenza» su un intero periodo che va dall’ottobre del 1943 all’aprile del 1944, quando morirono Terzo Lori e Amos Calderoni e fallì definitivamente la guerriglia di montagna.

E Riccardo Fedel (Libero)

 ne è la figura centrale.

La ricostruzione storica, da me qui tentata, utilizza vari documenti e libri scritti sulla figura di Fedel Riccardo: libri e opinioni assolutamente divise tra chi lo considera una spia dei fascisti e chi invece un ottimo partigiano ingiustamente ucciso da altri partigiani. Ho cercato di scrostare tutto ciò che sapeva di pregiudizio ideologico, o di partito preso, per utilizzare solo le informazioni che risultassero così più attendibili. Non so se ci sono riuscito. 

Riporto qui il link al libro di Giorgio Fedel,  figlio di Riccardo, pubblicato nel 2008 (Luciano Lucci)

 



(4° puntata)

Riccardo Fedel, (nome di battaglia Libero Riccardi), era stato destinato ad Alfonsine (RA) per la preparazione dei primi partigiani volontari destinati alla montagna.

Dopo qualche settimana costituì un gruppo partigiano inizialmente formato da sei elementi (noto come "gruppo Libero") Libero, Zita (Rita Chiap detta Zita: 27 anni, già sposata e madre di due bambine. Libero ne rimase affascinato. Fu la sua compagna e la portò sempre con sè, anche per sottrarla alle ricerche della polizia tedesca in Friuli), Bruno e Aldo Centolani, Rino Bendazzi e Domenico Folicaldi ("Pizearda") 

Il 9 novembre 1943 il gruppo incominciò l'attività partigiana spostandosi nell'Appennino faentino compreso fra le strade Faenza-Marradi ed Imola-Firenzuola. Compito del gruppo era quello di ricercare e riunire gli eventuali soldati e piccoli nuclei partigiani che si supponevano si aggirassero nella zona.

Da Alfonsine erano partiti in quel giorno altri tre giovani: Amos Calderoni, col fratello Ivo e Luigi Pattuelli (e profes) in bicicletta da Alfonsine verso il faentino, con gli zoccoli ai piedi e quattro bombe a mano "Balilla". Nei pressi di Purocielo incontrarono quello che credevano essere un numeroso gruppo di ribelli, e che invece era composto solo da quattro alfonsinesi più Libero e Zita.

 Attorno al 20 novembre, in seguito a un'azione che “bruciò” la sua copertura, dopo un tentativo fallito di insediamento delle formazioni armate nell’Appennino faentino ed imolese, Libero ricevette l'ordine dal Comitato militare di pianura del PCI romagnolo di trasferirsi nell'Appennino forlivese, a ovest di Galeata (28 novembre 1943), per organizzare, in veste di comandante, la neocostituenda Brigata Garibaldi Romagnola, congiungendosi con il gruppo partigiano già lì presente e sino a quel momento guidato da Salvatore Auria, con il nome di battaglia di Giulio e/o di Salvatore, che era tra i primi organizzatori e comandante di una formazione partigiana di montagna: "il Gruppo Salvatore". 

Il "Gruppo Salvatore" e il "Gruppo Libero", comandato da Riccardo Fedel, si unirono e nacque, il primo di dicembre, la Brigata Garibaldi Romagnola, con Libero comandante e Giulio commissario politico. Iniziò così il vero e proprio lavoro di organizzazione della formazione.

La brigata cominciò a crescere. 

 

In poco tempo i partigiani della zona attorno a Santa Sofia divennero varie centinaia e la Brigata si organizzò in battaglioni e compagnie.

Amos Calderoni, appena diciannovenne, per la sua serietà e il suo coraggio, fu nominato Comandante della 12° compagnia.

Durante l'inverno fu favorita la fuga di decine di prigionieri britannici che si erano rifugiatisi nella zona. Tra le personalità aiutate nella fuga, numerosi generali britannici: Philip NeameRichard O'ConnorJohn CombeEdward Todhunter.

Intanto nel forlivese era stato inviato da Milano Antonio Carini (Orsi) che era uno degli uomini al vertice nazionale delle Brigate Garibaldi, e membro del Comando Generale, agli ordini di Longo e Secchia. 
Arrivò in Romagna nel suo ruolo di ispettore generale e si insediò a Forlì a fine ottobre. 

Qui inizialmente si era formato un organismo unitario di comando militare, che prese il nome di Fronte Nazionale, il cui leader era Giusto Tolloy già maggiore dell’esercito, ma di cui facevano parte anche altri militari di carriera. Fu questo organismo, dunque, ad iniziare l’organizzazione dei primi gruppi partigiani. 

Ad ottobre/novembre ’43 il Fronte Nazionale, in cui confluirono oltre che gli uomini dell’Uli, l’Unione dei Lavoratori Italiani (Uli) che comprendeva un arco di forze della sinistra democratica, soprattutto repubblicani, liberalsocialisti e azionisti. Anche dirigenti comunisti, alcuni di questi da poco liberati dal confino, come Tabarri entrarono nel FN. 

Le prime indicazioni del Fronte Nazionale, a capo del quale era Tolloy,  prevedevano l’individuazione di due zone in cui concentrare i giovani renitenti e i volontari. Per il forlìvese si pensò alla Campigna, invece per Cesena si parlò della zona di Pieve di Rivoschio e di Montecavallo. In queste zone si dovevano costituire insediamenti, baraccamenti, concentrare armi e viveri, eccetera. 

Insieme ai due generali Il "Gruppo Libero" elaborò le strategie di azione delle formazioni partigiane, riprendendo le linee di indirizzo che aveva già gettato, prima di loro, lo stesso generalissimo Neame, prima di andarsene. 

La strategia concordata, in sintesi, prevedeva la costruzione di una “zona franca” in cui accogliere e proteggere i giovani che fuggivano dall’esercito o rifiutavano la leva militare fascista; prevedeva il loro armamento ad opera degli alleati e la loro organizzazione militare per diventare un bastione di contrasto ai tedeschi in fuga dopo lo sfondamento della Linea Gotica da parte degli alleati. 

È una linea strategica che coincide esattamente con quella che Giusto Tolloy, militare di carriera, ispirata all’Uli, l’organizzazione antifascista democratica romagnola, nel tardo autunno del 1943: costruire una zona di protezione temporanea in montagna per armarla e metterla in azione al momento opportuno. 

Questo piano, prima elaborato dall’Uli e dal Fronte Nazionale e poi concordato con i due generali alleati, fa cadere una serie di accuse che furono indirizzate in seguito contro Libero, che fu fra l’altro tacciato di megalomania perché, affermano i suoi detrattori (Ilario Tabarri sopra tutti), “favoleggiava” di questa strategia. 

In realtà ne scrivono nel loro rapporto segreto questi due generali, Combe e Todhunter, quando rientrano nelle linee alleate. Il primo di giugno ‘44 inviano infatti, al Foreign Office ed al quartier generale alleato, il racconto della loro permanenza in brigata nei precedenti mesi di gennaio, febbraio e nella prima settimana di marzo. Da qualche tempo quel documento è desegretato ed è stato pubblicato. 

Le scelte di Libero, la sua idea di lotta partigiana era stata concordata con gli alleati.
Quindi Combe e Todhunter si fermarono per oltre due mesi in montagna e avviarono un contatto permanente sul posto con le formazioni partigiane.  Addirittura entrarono in brigata ed assunsero nomi di battaglia partigiani: Combe si fece chiamare Giovanni e Todhunter, Giuseppe. Dopo di loro anche Antonio Carini "Orsi" entrò in Brigata verso il 10 gennaio ’44, subito dopo i generali.

Quando dall'Appennino giunsero notizie di disorganizzazione, inesperienza, dissidi e altro tra le file dell'8° Brigata, l’11 gennaio 1944 Terzo Lori lasciò Alfonsine e Savarna, insieme ad altri tre, con l'incarico del CLN di Ravenna di recarsi presso "il Gruppo Libero". 

Venne inviato come Commissario politico della 12° Compagnia, quella comandata da Amos Calderoni.

Da una testimonianza di Walter Garavini si deduce che vi furono tre tentativi di salire in montagna di altri giovani alfonsinesi, che dovettero tornare a casa per la troppa neve. 

Erano diversi i ragazzi alfonsinesi che avevano aderito alla resistenza, e che partirono per la montagna, in diversi scaglioni, andando a costituire le prime formazioni partigiane. 

Abbiamo visto che i primi fra questi furono Folicaldi “la pizzërda”, Amos Calderoni col fratello Ivo, poi Luigi Pattuelli detto “e’ profes”, . Furono raggiunti l'11 gennaio, da Terzo Lori. In poco tempo si aggregarono altri giovani, e divennero un gruppo consistente: l’8° Brigata “Garibaldi”, organizzata in battaglioni e compagnie.

Nell'inizio primavera del ’44 partirono da Alfonsine altri 25. Erano in bicicletta, fino al confine con Forlì. Stavano a una distanza di 20 metri l’uno dall’altro. Walter Garavini aveva nella sporta dei camicioli fatti con pelle di coniglio e sotto delle bombe a mano. Passarono a Coccolia davanti a una villa dove era sistemato un comando tedesco. C’erano due tedeschi di guardia. Non batterono ciglio pur vedendo passare 25 giovani in bicicletta in fila indiana.

Dopo le prime iniziative di ricognizione, a seguito di decisioni del Fronte Nazionale, la componente comunista si andava autonomizzando, teorizzando la guerriglia, cominciando ad agire per conto proprio, con Ilario Tabarri che emerse pian piano come nuovo referente dei comunisti. Tabarri - un comunista di scuola staliniana - non gradiva molto il rapporto privilegiato dei partigiani con gli alleati.

Per questo Libero a lui non piaceva per niente, un comunista anomalo, troppo indipendente dal partito. Secondo Tabarri, Libero non dava nessuna garanzia politica  ed era sostanzialmente un avventuriero. 

Libero aveva fondato la prima Repubblica partigiana d'Italia: il dipartimento del Corniolo, una zona libera presidiata militarmente.

Con diverse azioni la Brigata Garibaldi Romagnola riuscì a costituire, dal 2 febbraio del '44, la prima Repubblica partigiana d'Italia: il dipartimento del Corniolo, una zona libera presidiata militarmente, il "dipartimento del Corniolo", comprendente il territorio di quel comune e parte di quelli confinanti: Galeata, Santa Sofia, Premilcuore e Bagno di Romagna. Tutto questo sotto lo sguardo attento e la consulenza dei due generali di brigata inglesi, ma anche di quello di "Orsi". 

Il  "Dipartimento del Corniolo" aveva lo scopo di concentrare i tanti renitenti alla leva confluiti sull'Appennino, che bisognava organizzare nell'attesa, illusoria, di un rapido arrivo delle truppe anglo-americane. Un'esperienza breve e travagliata, con le continue critiche di Tabarri che lo accusava di non voler spingere all'azione gli uomini

Il Comando dei partigiani romagnoli, fu messo a conoscenza da una relazione del Tabarri, tendenzialmente orientata a "sputtanare" il più possibile Libero accusandolo di  interpreta la lotta partigiana in maniera alquanto personale: "l’atteggiamento è quello dell’ufficiale dell’esercito che accentra nelle sue mani il comando militare, politico e amministrativo, inoltre espropria beni alimentari e beni personali ai danni di piccoli proprietari come anche di grandi agrari, creando eccessi e tensioni che impediscono il formarsi di buoni rapporti con la popolazione. Di fronte a osservazioni e contestazioni interne mostra un’ostilità pericolosa; osteggia tutto ciò che non dipende dalla sola sua persona e conduce palesemente una vita di privilegi avvalendosi anche dell’aiuto di una ragazza, la Zita."

Successivamente, il 9 marzo 1944 fu catturato e trucidato dai fascisti "Orsi", il 13 marzo partirono i due generali, a metà dello stesso mese, cominciò la fase che porterà, a fine marzo, alla rimozione di Libero e poi, in aprile, arriverà il grande rastrellamento che distruggerà la brigata.

Alla fine di marzo del 1944, a seguito di tutti quei contrasti di natura strategica e politica tra il suo comandante Riccardo Fedel (Libero) ed il Comitato Militare di pianura (diretta espressione del PCI), la Brigata Garibaldi Romagnola venne trasformata in una Divisione suddivisa in tre Brigate più piccole (il Gruppo Brigate Romagna), e Libero sostituito al comando da Ilario Tabarri (Pietro Mauri) e da  Guglielmo Marconi, “Paolo“, suo vice e spesso braccio operativo della brigata romagnola. Marconi assunse di fatto le funzioni di comandante nella II zona, delimitata dal triangolo Meldola, Santa Sofia e Campigna.

Il 22 marzo infatti il Tabarri salì da Libero per comunicargli che era stato destituito e che il nuovo comandante sarebbe stato lui. 

Il 30 marzo durante una sosta ad Alfero, scoppiò una violenta discussione, tra Libero e Tabarri relativa ad un presunto storno di fondi destinati alla brigata da parte di Libero, evento che non risulta citato nel Rapporto che il Tabarri e il Marconi inviarono al comando di pianura (Boldrini, Cervellati, Fusconi, tramite "Savio" - Luigi Fuschini. 

Lo scontro si concluse con la richiesta di quest’ultimo, di essere inviato in Toscana, per contattare ed organizzare alcuni gruppi di partigiani che avevano espresso l’intenzione di volersi collegare con la Brigata Romagnola. Ilario acconsentì.

Libero si trasferirsi sull'Appennino toscano per mettere in piedi una nuova brigata.

Libero venuto a conoscenza di un lancio degli alleati avvenuto nella notte del 6 aprile, si diresse a S. Paolo in Alpe, facendosi consegnare un milione di lire. 

I comandanti del campo, credendolo autorizzato a farlo, non si opposero. Il vicecommissario Guglielmo Marconi (Paolo), recatosi sul posto, venne a sapere della cosa e lo rintracciò a Pian del Grado. Si fece riconsegnare la somma e gli chiese di ritornare a S. Paolo in Alpe dove Ilario lo avrebbe raggiunto. 

Libero non si presentò. Per questo e per altri motivi, in seguito, sarà condannato a morte e una volta rintracciato, verrà ucciso.

 I tedeschi, il 6 aprile 1944, decisero di attaccare e di annientare, con enormi mezzi, i "ribelli di Romagna"». Prese avvio una vasta operazione di rastrellamento, noto come "il grande rastrellamento d'aprile", nella valle del Bidente, nel quadrilatero  Premilcuore-Pennabilli-San Sepolcro-Consuma, condotta da oltre 2.000 militi fascisti della G.N.R. ed SS tedesche della Divisione "Hermann Göring" con l'utilizzo di mortai e mezzi blindati. 

Uomini della divisione tedesca attaccarono dal versante toscano, sul versante romagnolo i militi repubblichini con mortai, autoblindo e artiglieria di piccolo e medio calibro, chiusero l'area Premilcuore, Consuma, San Sepolcro e Pennabilli. 
Sui monti Fumaiolo e Falterona si strinse un enorme cerchio di ferro e fuoco attorno al migliaio di partigiani, che sebbene male armati, con 450 uomini ancora senz' armi, seppero tenere testa per molti giorni alle preponderanti forze nemiche. 

Il 12 aprile dopo gli aspri combattimenti di Balze, Fragheto, Casanova e Poggio,  rintronarono i cannoni ed i mortai per tutta la valle del Bidente. Dalla strada della Campigna si mossero i tedeschi per occupare i crinali che portavano a Biserno. Gli assalti si susseguirono per tutta la giornata. 

Scarsamente armati, i partigiani subirono pesantissime perdite: alla 1ª Compagnia della 1ª Brigata, comandata da Amos Calderoni e di cui Terzo Lori era commissario politico, venne affidato l'incarico di resistere ad ogni costo presso Biserno (frazione di Santa Sofia), per dar tempo al grosso dei partigiani di sganciarsi, superare l'accerchiamento e tentare l'attacco del nemico alle spalle, per poi riprendere i contatti con il comando, che restava nelle zone di Strabatenza e Rio Salso, vicino a Bagno di Romagna. 

Fin dall'alba si batterono a Biserno i 40 partigiani (molti alfonsinesi) della 12a Compagnia guidati dal Comandante Amos Calderoni e dal Commissario politico di guerra Terzo Lori. 

Attaccati da forze preponderanti sgominarono ben 12 assalti accompagnati da fuoco di artiglieria, mortai e mitragliatrici. Per alcune ore riuscirono, sacrificando la propria vita e quella di altri dieci compagni, a bloccare l'avanzata nemica permettendo al resto della Brigata di ripiegare su posizioni favorevoli, limitando notevolmente le perdite. 

Si era a metà aprile, dopo appena quindici giorni di comando di Tabarri il costituendo Gruppo Brigate Romagna si sbandò, a causa di quel un massiccio rastrellamento nazifascista e di una "non felice" tattica di evasione impostata dal nuovo comandante.

Di tale disfatta, Tabarri non seppe o non volle mai assumersi completamente la responsabilità, scaricandola sulla presunta incapacità dei partigiani che da mesi combattevano in montagna e/o sulla presunta indegnità morale del loro primo comandante.

Il 21 aprile 1944, un "comitato di partito" interno alla Brigata, formato da Pietro (Ilario Tabarri), Savio (Luigi Fuschini), Paolo (Guglielmo Marconi), Lino (Angelo Guerra) e Jader (Jader Miserocchi) decise di chiedere al Comando centrale di pianura di autorizzare la condanna a morte di Libero. 

 

Sempre il 21 aprile 1944, Angelo Giovannetti (Il Moro), in un suo scritto al Comitato Militare Provinciale di Ravenna, segnala che Libero è tenuto isolato, nella zona di Cervia, per essere al più presto sottoposto ad un interrogatorio "stringente e duro", prima che "abbia la sensazione di essere in disgrazia presso il Prov.le". 

Lo stesso Giovannetti osserva che "la polizia [fascista] lo cerca e, se cadesse nelle sue mani, sarebbe un serio pericolo per l'organizzazione; con questo elemento bisogna andarci molto cauti come con la dinamite..."

Dopo di che, si sa che Libero rientrò in Veneto.

 

Ma il 22 aprile, dopo quel grande e devastante rastrellamento tedesco, ci fu un Comitato di partito delle brigate di montagna in cui si decise di regolare i conti con Libero. 

Il documento che segue è la condanna a morte del TRIBUNALE MILITARE DELLE FORMAZIONI PARTIGIANE PRESSO IL COMANDO 8° BRIGATA GARIBALDI "ROMAGNA". 

La serie di accuse infamanti appaiono inventate apposta per giustificare la condanna a morte di Libero.

La firma è di  Ilario Tabarri.

La data è del 22 aprile 1944, mentre sotto c'è la data 11/8/48.

Da notare che il nome di Fedel Riccardi viene storpiato in "Ricciardi"

I due capi partigiani Ilario Tabarri e Guglielmo Marconi hanno personalmente distrutto ogni documento della Brigata che avesse una data anteriore all’aprile 1944 e hanno – sempre personalmente – curato la formazione dell’archivio dell’ISR di Forlì (come dice Luciano Marzocchi nella prefazione a ISR-Forlì, “L’8ª Brigata Garibaldi nella Resistenza”).

 

 

Le accuse di Tabarri e di Marconi furono rese note in pianura tramite "Savio" - Luigi Fuschini. 

"Savio" il 27 aprile venne inviato in pianura per riferire al comando delle difficoltà in cui versava la Brigata e dei motivi e delle circostanze che avevano portato alla rimozione di Libero dal Comando (rimozione che dunque non risulterebbe concordata in precedenza con la pianura, come invece contraddittoriamente affermato nello stesso Rapporto generale di Tabarri): infatti Boldrini registra nel suo "Diario di Bulow" in data 27 aprile 1944: "(...) Intanto Savio ci raggiunge. Dalla sua informazione risulta che si sono costituite, alla fine di marzo, tre brigate (...). Non è stato facile sostituire Libero che comandava con metodi autoritari. Il comando del gruppo brigate romagnole è stato assunto da Pietro (...) capo di stato maggiore Libero (...). Dalle notizie che ci fornisce Savio, sembra che Libero abbia in passato trattato col nemico per una tregua concordata e che sia scappato prelevando alcuni fondi. Rimaniamo costernati. È il primo caso di un così alto tradimento!"

Boldrini restò costernato, ma poi in seguito a un'indagine, quelle accuse non vennero ritenute credibili dai comandi di pianura (Boldrini, Cervellati, Fusconi...). 

 

Bulow nel suo memoriale redatto nel 1985, ricorda che in data 11 maggio 1944: "(...) raggiungo "casa Spada d'Oro" per discutere di Zita (la compagna che convive con Libero) e del comportamento di Libero. Apprendiamo dai compagni di Taglio Corelli, con i quali abbiamo un rapido contatto, che Libero è transitato in bicicletta per raggiungere il Ferrarese o il Veneto. Con Radames [Luigi Bonetti] ci rechiamo nuovamente dalla famiglia Antonio Pini, una di quelle basi sicure che non vorremmo venisse compromessa dalla presenza di Zita che si è rifugiata presso di loro. Dopo lunga e animata discussione, convinciamo Zita a mettersi in contatto con Libero per un suo ritorno al comando dell'8ª Brigata. Speriamo che le cose procedano come abbiamo deciso. Attraverso i nostri canali avvisiamo i compagni del Forlivese di quanto è accaduto e dell'esito della nostra missione."

Nessun ordine di uccisione di Libero fu mai emanato dalla Pianura, peraltro confermato dallo stesso Tabarri, il quale nel suo "rapporto generale" afferma: "Il 21 [aprile 1944] fu decisa la partenza di Savio per la pianura onde fare un rapporto sulla situazione e sulle prospettive oltre a chiarire la questione di Libero e prendere le misure del caso (...). Savio deve rientrare entro il 5 maggio al fine di poter prendere tutte quelle decisioni che, in base alle disposizioni che avrebbe portato dal Comando centrale, si rendevano necessarie. La questione di Libero doveva essere regolata secondo il sistema da operare per i traditori ed in base a quello che risulta dal presente rapporto. La condanna a morte era il meno da farsi soprattutto per il pericolo che rappresentava per essere a conoscenza di troppe cose dell'organizzazione (...). Io non rilascio a Savio nessun rapporto scritto perché ne mancava il tempo (...) e perché non potevo non aver fiducia nel Commissario il quale condivideva pienamente i nostri punti di vista e prospettive. Non potevo neppure dubitare che non ritrasmettesse abbastanza fedelmente il contenuto della riunione (...). Savio non ritorna nel tempo previsto e risulta che non ha fatto nemmeno quello che era suo dovere e si era assunto di fare."

La condanna a morte era il meno da farsi scrisse qui Tabarri  per il pericolo che Libero rappresentava, per essere a conoscenza di troppe cose nell'organizzazione e per avere la spiccata tendenza a passare nel campo nemico.

 

Attorno all'11 maggio 1944 Boldrini, Cervellati, Fusconi richiamarono Libero. Libero con Zita passò in bicicletta da Taglio Corelli, frazione di Alfonsine, poi da solo si recò a Mogliano Veneto dalla famiglia. 

Libero è transitato in bicicletta per raggiungere il Ferrarese o il Veneto. Con Radames [Luigi Bonetti] ci rechiamo nuovamente dalla famiglia Antonio Pini, una di quelle basi sicure che non vorremmo venisse compromessa dalla presenza di Zita che si è rifugiata presso di loro. Dopo lunga e animata discussione, convinciamo Zita a mettersi in contatto con Libero per un suo ritorno al comando dell'8ª Brigata.

 

Zita rimase rifugiata presso la famiglia Antonio Pini, "una di quelle basi sicure che non vorremmo - scrive Boldrini - "venisse compromessa dalla presenza di Zita"

Dopo lunga e animata discussione, convinsero Zita a mettersi in contatto con Libero per un suo ritorno al comando dell'8ª Brigata. 

Questi ritornò in Romagna, ma solo in apparenza: "scomparve"... 

dando così nuovo credito alle accuse mosse nei suoi confronti.

In ogni caso, è certo che l'epilogo della vicenda sia stata la uccisione di Libero da parte degli stessi partigiani, anche se le fonti sono poco chiare circa le modalità con cui si arrivò a questo esito.
Secondo la ricostruzione effettuata attraverso testimonianze orali dalla ricerca dello storico Graziani, Libero sarebbe stato ucciso con una sventagliata di mitra ai primi di giugno del 1944. Tuttavia, rimasto ignoto il luogo dell'uccisione, il suo corpo non fu mai ritrovato e Riccardo Fedel fu ufficialmente dato per disperso, come militare. 

Bulow nel 1945 riconfermò i suoi sentimenti di 
amicizia verso Libero

Nel 1945, dopo la Liberazione, Bulow affermò in una lettera alla famiglia di Riccardo Fedel di non avere più avuto notizie sulla sua sorte dopo la primavera del '44, riconfermando i suoi sentimenti di amicizia verso Libero, e confermando quindi, indirettamente, che della morte o condanna di Libero nulla sapeva. 

Fu solo nel dopoguerra che Ilario Tabarri comunicò alla famiglia di Riccardo Fedel (in via privata) l'esistenza di una sentenza di morte emessa nei suoi confronti per diserzione e disobbedienza
Nel 2008, la figlia di Tabarri, Bruna, ha reso noto come, dalle carte del padre in suo possesso, risultasse come data di morte di Libero il 12 giugno 1944.
Tale data avrebbe trovato conferma in un documento che nell'estate 1944 Sergio Flamigni, in qualità di commissario politico della 29ª Brigata GAP "Gastone Sozzi", avrebbe inviato al Comando dell'8.a Brigata, riportante le seguenti parole: "La sentenza di morte emessa il 22 aprile 1944 dal tribunale militare dell'8ª Brigata Garibaldi Romagna contro l'ex comandante Libero Riccardi è stata eseguita dal 2º Distaccamento della 29ª Gap in data 12 giugno 1944". 

Sull'autenticità del documento sono stati sollevati non pochi dubbi, visto anche che Bulow disse "di non avere più avuto notizie sulla sua sorte dopo la primavera del '44".

 Resta, in ogni caso, che nel Rapporto Tabarri - inviato in pianura il 7 luglio 1944 - di tale sentenza non si fa alcuna menzione, pur essendo la questione "Libero" il principale argomento del Rapporto.

Una versione diffusa dice che verso la metà del maggio 1944, a Cervia, fu catturato insieme alla sua compagna Zita da due partigiani garibaldini. 

Fu portato a Forlì dove, in un casolare isolato, dopo un processo sommario, vennero messi contro un muro e fucilati da una sorta di plotone d'esecuzione composto da altri partigiani.

Liquidato brutalmente, ucciso insieme alla sua compagna Zita Chiap e diffamato soprattutto anche dopo la morte.

Dopo l'uccisione, si cominciò a far girare la voce che Libero era stato una spia dell'Ovra, la polizia segreta fascista. A guerra finita, nel 1946, il suo nome vero, Riccardo Fedel, comparve addirittura in un elenco dei confidenti dell'Ovra sulla 'Gazzetta ufficiale". 

L'origine di questa strana e complicata storia: 

"assunto" come confidente della Milizia per la Sicurezza Nazionale (MVSN)

Sino al 1922 Riccardo frequentò Mestre solo durante le vacanze scolastiche. Fu in uno di questi periodi di vacanza, alla fine del 1920, che Riccardo, ancora tredicenne, si iscrisse ai Fasci italiani di combattimento di Mestre cui rimase iscritto fino al 1923 quando, a 17 anni, cambiò idee politiche diventando comunista

Fu proprio nel 1923 che Riccardo si arruolò volontario nel Regio Esercito. Frequentò la scuola allievi sottufficiali a Modena e diventò Sergente. 

Fu congedato nel dicembre 1925 dopo un tentativo di azione antifascista (la sottrazione delle armi dalla caserma di Ravenna in cui prestava servizio)

Rimpatriato da Ravenna a Mestre con una scorta nel dicembre del ‘25, fu poi arrestato dalla polizia politica veneziana con l'accusa strumentale di porto abusivo d'arma per la quale fu condannato a 6 mesi di carcere. Nel frattempo, fu denunciato per complicità nell'attentato Zaniboni-Capello. 

Prosciolto dalle accuse più gravi, fu liberato ma sempre più strettamente sorvegliato. 

Ma tra le carte della Milizia presso l'Archivio Centrale dello Stato è stato trovato da Davide Spagnoli, un fascicolo Ovra intestato proprio a un certo Riccardo Fedel. «un documento, datato 14 novembre 1927, inviato dal Comando generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn) al ministero dell'Interno, otto dense pagine dattiloscritte con oggetto "Confidenze dell'ex confinato politico Riccardo Fedel, relative a un complotto comunista organizzato in Ravenna nell'anno 1925"». 

Un fascicolo ricchissimo di delazioni - scrive Davide Spagnoli - fatte proprio da Riccardo Fedel, documenti in cui fa i nomi di tutti quelli con i quali viene in contatto»; consegnando «anche i cifrari e tutte le indicazioni atte a colpire le organizzazioni del Pci».

Eppure Fedel Riccardo incominciò a essere sorvegliato dalla Polizia come sovversivo e "
pericoloso comunista" (con conseguente apertura di un fascicolo biografico al Casellario Politico Centrale).  

Prima condanna al confino politico

Riccardo Fedel nella foto segnaletica del Casellario Politico Centrale, Venezia 1926 

Venne poi arrestato nuovamente nell'ottobre del '26 e, appena approvate le leggi fascistissime, condannato a 3 anni di confino perché considerato elemento capace di organizzare attentati contro il Duce.

Subì il confino politico a Pantelleria dal 22 novembre 1926 al 16 marzo 1927 e poi a Ustica fino al 9 ottobre 1927.

Fedel fu sottoposto ad una visita sanitaria, e il dottore in base ad una circolare ministeriale decise per l'invio in un Sanatorio, fino a che il 9 ottobre 1927 venne liberato condizionalmente per le sue precarie condizioni di salute e in cambio di un'estorta promessa di testimonianza a un processo contro Bordiga e altri confinati.

Rimpatriato in Veneto, dove risiedeva la famiglia, in attesa che rendesse la sua testimonianza al processo di Palermo contro Bordiga, venne "assunto" come confidente della Milizia per la Sicurezza Nazionale (MVSN) e inviato in servizio a Gorizia. 

Fu un certo tenente Loquasco, che conosceva il Fedel, ad approfittare per spingerlo ad accusare 57 compagni di Fedel, confinati a Ustica, di tramare per una rivolta, non senza promettere il certissimo ritorno a casa.

Nel marzo 1928 la Milizia accreditava il «sig. Fedel Riccardo […] quale suo informatore fiduciario sul movimento sovversivo». 

 

Libertà condizionale 

dal primo confino politico.

 

Dopo pochissimi giorni, però, Fedel dimostrò di non voler collaborare e, tempo una settimana, i responsabili della MVSN ne denunciarono la malafede e lo rinviarono a Mestre, "licenziandolo in tronco". 

Qui, Riccardo continuò però a spacciarsi per agente della Milizia, al fine – secondo un'interpretazione – di poter compiere indisturbato azioni contro il regime. 

Ma agli atti c'è anche una "lettera di accompagnamento" indirizzata in data «9 marzo 1928 dalla 49ª Legione Mvsn San Marco di Venezia al comando della Coorte Mvsn (63ª Legione) Pordenone. Riservata personale. Oggetto: presentazione di un informatore del Comando Generale».
Che così recita: «Il latore della presente sig. Fedel Riccardo è stato raccomandato dal Comando Generale della Mvsn quale suo informatore fiduciario sul movimento sovversivo. Egli ora, d'accordo con l'Upi del Comando Generale stesso, deve indagare su fatti e persone di Pordenone. Si informa di quanto sopra allo scopo che il Fedel non venga intralciato nella sua opera, e nei limiti del possibile sia invece aiutato. Il Console comandante la Legione Muratori».

A Pordenone cosa combinò il Fedel? 

Da una lettera "riservata" inviata dal Prefetto di Venezia alla Direzione generale di Ps del ministero dell'Interno, il funzionario informa che Fedel «ha incaricato il fascista R. di procurargli tre bombe sipe da fare esplodere alla sede del Fascio, alla sede dei Sindacati ed alla Caserma della Milizia. Tali bombe non dovrebbero recare danni alle persone ma dovrebbero servire a provocare disordini e conseguenti numerosi arresti di individui sospetti»

In realtà sembrerebbero essere tutte azioni di millantato credito:  

a Pordenone si sa che Fedel riuscì solo a far stampare e a distribuire dei manifesti sovversivi che inneggiavano allo sciopero degli operai tessili e al Partito Comunista. 

Questa azione scatenò la dura reazione fascista: Fedel fu considerato dal capo della Polizia Bocchini un agente del partito comunista che tentava di infiltrarsi nella MVSN, venne nuovamente condannato al confino come "comunista pericolosissimo" per altri 3 anni.

Tutte queste manovre di cui si è detto, per la loro dose di ambiguità, furono comunque all'origine dell'inserimento del nome di Fedel Riccardo nelle liste provvisorie dei collaboratori dell'OVRA.

Ma poi nel novembre del 1928 ci fu una sentenza emessa al termine del processo ai 57 compagni di Fedel, confinati a Ustica e accusati da lui di tramare per una rivolta.

Achille Muscara, Claudio Perini e Giuseppe De Rosis, giudici del Tribunale Speciale e rispettivamente Generale di Divisione, Console e Seniore della Milizia assolsero tutti gli imputati «per la scarsissima credibilità dei testi di accusa»

relazione tribunale 1927.jpg (2396447 byte)

Tale sentenza faceva i conti con una così evidente montatura, che i giudici fascisti, assolsero i confinati da lui accusati di complotto "ritenendo inaffidabile lo stesso Fedel come spia".

Tra i confinati si notano il primo segretario del Partito Comunista d’ Italia, Amadeo Bordiga e il repubblicano Mario Angeloni.

 "Tali accuse - aggiunsero i giudici - formulate «da tre degli stessi confinati [… ] fanno capo a Fedel» e «il processo sorse perché alle stesse ha dato credito il centurione Mammì facendole sue con non molta avvedutezza». I

E ancora: il Fedel è capace «di palesare fatti o addirittura di inventarli, come avvenne a Gorizia, dove simulò un’aggressione in effetti mai patita».

I giudici fascisti, come si può vedere, ritennero inaffidabile il delatore Riccardo Fedel. 

Comunque il suo nome apparve nel registro dei confidenti dell'OVRA, reso pubblico nel 1946.

 

Seconda condanna al confino politico
 dal 16 maggio 1928 sino al 1930

Riccardo fu inviato in provincia di Potenza, dove rimase (con alcune ‘pause’ carcerarie: 6 mesi a Potenza e 14 mesi ad Avellino per tentata fuga) dal 16 maggio 1928 sino al 1930, quando venne trasferito – come ulteriore misura punitiva – alle isole Tremiti, ove terminò di scontare il periodo di confino il 30 settembre 1931. 

Dal confino lucano, sposò, per procura, Anita Piovesan, figlia di un sindacalista anarchico di Mestre (autore dello Statuto del sindacato dei panificatori), che potrà così raggiungerlo e fargli compagnia per qualche mese, finché non rimase incinta e tornò a Venezia per partorire. 

Fu proprio per raggiungere la moglie dopo la nascita del primogenito Luciano che tentò la fuga dal confino e, catturato a Sala Consilina, fu condannato a oltre 14 mesi di carcere che scontò ad Avellino. Durante la sua detenzione, il figlio Luciano morì senza che lui riuscisse nemmeno a vederlo. Scarcerato, fu inviato alle Tremiti, per terminare la condanna al confino.

Sorveglianza politica

Tornato in Veneto, cominciò una vita da sorvegliato politico tra Milano e Mestre, con un breve periodo trascorso anche a Roma. Riccardo, in una prima fase, cercò di sottrarsi alla sorveglianza (scontò 6 mesi di carcere a Brescia per contraffazione di documenti) e poi di fare una vita ritirata, in considerazione dei desideri della moglie (era nel frattempo nato il secondogenito Luciano, omonimo del primogenito, morto a pochi mesi di età) e dei bisogni della famiglia. Nel 1936 nacque anche il terzo figlio, Giorgio.

 

1937-1943: in età matura

Grazie alla sua abilità di grafico, riuscì a mantenere più che dignitosamente la famiglia, lavorando per l'editore Sonzogno di Milano. Richiamato sotto le armi nel '39, rientrò con la famiglia in Veneto.

Attività di propaganda antifascista

Nel 1940, all'entrata in guerra dell'Italia, tornò all'attività politica, con modalità e spirito però più maturo, divenendo animatore di un gruppo di propaganda antifascista operante, nelle fabbriche e nelle caserme, tra Mestre, Padova e Treviso. Pur sorvegliato, riuscì a esercitare la propria attività con abilità cospirativa, evitando l'arresto.

Nel 1941 venne richiamato ancora sotto le armi (aveva conseguito il grado di sergente già nel 1924 durante il servizio di leva), ma rimase in Italia presso il distretto di Mestre potendo quindi continuare nell'attività di propaganda antifascista.

Nel 1942 partì per il Montenegro destinato al 120º Rgt. Fanteria della Divisione Emilia, lasciando a Mogliano Veneto la famiglia composta dalla moglie e dai tre figli maschi. 

A Castelnuovo, alle Bocche di Cattaro, conobbe Arrigo Boldrini (Bulow), con il quale riprese i contatti ai primi di settembre del '43.

Tornato in Italia nel 1943, riprese contatto con i compagni di propaganda con i quali aiutò numerosi soldati italiani a sfuggire alla deportazione nei treni piombati. 

Dopo l'8 settembre si recò a Ravenna per riprendere contatto con Arrigo Boldrini. 

L'11 settembre, partecipò a una riunione con i dirigenti comunisti romagnoli all'Hotel Mare-Pineta di Milano Marittima cui partecipano, oltre a lui, Arrigo Boldrini, Mario Gordini, Gino Gatta, Giuseppe D'Alema, Ennio Cervellati, Giovanni Fusconi, Agide Samaritani, Rodolfo Salvagiani e Zoffoli. 

Riunione nel corso della quale gli venne conferito l'incarico di occuparsi della costituzione di una formazione partigiana di montagna. Rientrato in Veneto, probabilmente per avvisare la famiglia del ruolo che stava per assumere, prese parte ai combattimenti in corso presso Gorizia, sino allo sbandamento di quella Brigata Proletaria.

Il suo corpo giace sottoterra, da qualche parte, in Romagna.

 

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