Alfonsine

 

 

La storia di Giacomina Tavolazzi, 
e del figlio della rivoluzione

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Narrativa sulla "Settimana Rossa"

(liberamente tratto e adattato dal libro di Enzo Tramontani "La Settimana Rossa" nella Romagna del 1914 ed Longo RA)

Giacomina Tavolazzi nacque 1893, il 18 maggio. Orfana fin da piccola della mamma Seconda Guardigli, all'età di 7 anni, il 29 settembre del 1900 nella Collegiata di San Michele in Bagnacavallo dal vescovo di Faenza mons. Gioacchino Cantagalli - ricevette la cresima.

Col babbo Federico fuori casa tutto il giorno per il lavoro nei campi, era cresciuta sulla strada come un 'maschiaccio'. 

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Giacoma Tavolazzi detta 'Mina' all'epoca della 'Settimana Rossa'

Durante la sommossa della "Settimana Rossa" a Mezzano Giacomina Tavolazzi detta 'Mina' si trovò unica donna di 21 anni in mezzo al gruppo dei rivoltosi più determinati e attivi. Partecipò a tutte le azioni dall'incendio del magazzino della stazione, al recupero di armi, all'oltraggio al parroco, al tentativo di assalto alla caserma dei carabinieri, fino all'episodio della distruzione della chiesa di Villanova e della trafugazione delle ostie consacrate. Fu lei, che armata di una rivoltella presa a Anastasio Monti, detto Sebastiano, la puntò al petto del parroco quando gli fecero togliere la veste talare e gli intimarono di consegnare il fucile da caccia.

Giacomina era anche col gruppo di rivoltosi che dopo aver desistito dall'attacco alla stazione dei carabinieri di Mezzano si avviò verso Villanova di Bagnacavallo e  alle 16.30 improvvisamente diede l'assalto alla chiesa e la incendiò.

Le notizie giunte da Mezzano avevano consigliato l'arciprete di Villanova, don Claudio Guerra, di trasferire l'eucaristia dalla chiesa in un armadio al piano superiore della casa parrocchiale: misura che il sacerdote giudica meramente precauzionale attorniato com'è da parrocchiani solidali. Tanto più traumatizzato e disorientato ne uscirà invece, quanto più improvviso e inaspettato giunge l'assalto: e mentre la porta principale della chiesa cade sotto i colpi delle mannaie e un chiasso indiavolato inonda la chiesa dove s'annunciano subito i primi focolai d'incendio, il povero don Guerra fugge da una porta retrostante nascondendosi nei campi e chiedendo a tarda sera ricovero in una casa di parrocchiani in preda a un pianto convulso.

In poco più di mezz'ora, dopo aver usato il petrolio per appiccare il fuoco, esaurite le suppellettili in legno trovate nel luogo sacro, gli incendiari penetrarono nell'attigua casa dell'arciprete gettando giù dalle finestre tutti i mobili che vi si trovavano, con l'intento di alimentare con essi il fuoco distruttore. È a questo punto che, spostando l'armadio dove don Guerra aveva riposto la pisside (il recipiente a forma di coppa, con coperchio e velo, dove erano contenute le ostie consacrate, i rivoltosi misero le mani sull'eucaristia. E fu proprio Giacomina Tavolazzi a impossessarsi delle ostie consacrate.

Leggende metropolitane

  Una voce, che non ha riscontro documentale ma che Don Enzo Tramontani dice di aver raccolto da più persone singole con una certa convergenza di dettagli  riferisce - come avvenuta in quella sera stessa - di una grande «cena sociale» tra i reduci dell'impresa incendiaria.

 E qui nasce una delle tante leggende legate a quei giorni, spesso simili tra loro anche se avvenute in luoghi diversi, il che lascia pensare che fossero alimentate appositamente da cappellani e arcipreti di chiesa dopo i fatti della Settimana Rossa per dimostrare al popolo che la risposta di Dio c'era stata, eccome!!

Durante la cena tra soci, quando furono portati in tavola tegami di stufato e polpette da far gola, Giacomina - esaltata da un'atmosfera surreale che aveva ormai rotto tutti i freni - sbriciolò con le proprie mani le ostie, ne cosparse i frammenti sui tegami fumanti e gridò con voce che soverchiava il rumore nella cameraccia: 

S' l'è vera ch'icvè u j è Nóst Signór còm ch'i dis i prit, ch'um ménda un segn in cvèl cha j ò int la pànza
(Se è vero che qui c'è Nostro Signore come dicono i preti, che mi mandi un segno in quello che ho nella pancia)

E mentre con un colpo di mano si toccò la pancia gravida per dare forza alla sfida blasfema che aveva appena lanciato, un fragoroso battimani fece di lei la regina della serata. Eccitata più che mai Giacomina afferrò la pisside ormai vuota, la sistemò sul pavimento e accovacciatasi sopra vi orinò dentro, suscitando un moto collettivo di entusiasmi scomposti.

E' proprio quella la frase che dimostra la non attendibilità di questa parte del racconto:

1°) La Giacomina sarebbe stata al corrente di essere incinta già al 11 giugno 1914, quando il figlio nacque il 3 marzo del 1915. Ciò significa che il rapporto sessuale che determinò la gravidanza fu proprio consumato in quei giorni. Come poteva sapere di avere già incinta e invocare Dio a inviare un segno per "quello che aveva nella pancia"?

2°) Un racconto simile fu diffuso anche per una ragazza alfonsinese che durante l'assalto alla chiesa di Alfonsine si sarebbe recata davanti all'altare e avrebbe detto rivolta con tono di sfida all'immagine della Madonna: "Se proprio ci sei - come dicono - allora mandami un segno". Quella ragazza era incinta e ebbe una figlia che nacque senza un braccio, tanto che fu ricordata come 'la moncherina'.

Comunque era incinta

Comunque, è proprio all'epoca dei fatti della Settimana Rossa di Mezzano e Villanova che, benché nubile, la Giacomina rimase effettivamente incinta. Il ragazzo era un ventenne della Rossetta: Emidio Rambelli.

Nasce il figlio della rivoluzione

 Il 3 marzo 1915 Giacomina Tavolazzi, la protagonista di vari episodi sacrileghi di nove mesi prima, diede alla luce il bimbo atteso. Il parto ebbe luogo nell'ospedale civile di Ravenna in piazza Anita Garibaldi, civico 3. Non era usuale, all'epoca, il trasferimento in ospedale per partorire: solitamente le donne, specie se di campagna, mettevano al mondo i loro figli nella propria casa, limitandosi a chiamare la levatrice del paese. Solo nel caso fossero subentrati problemi e timori di natura sanitaria veniva consigliato il ricovero. Forse fu solo per sottrarsi al clima mordace dei pettegolezzi ed eludere la curiosità morbosa di chi aspettava di vedere nascere un mostro, che Giacomina andò partorire in città.  

Sano come un pesce

Comunque il neonato nacque sano come un pesce. Stranamente, ciò alimentò ancor di più in lei il senso di ribellione verso certo perbenismo che l'aveva bollata e che - com'ella s'aspettava, grazie al suo sesto senso - ancora la segnerà a dito perché ragazza-madre. Per questo residuo d'astio verso tutto il mondo che la circonda (come spiegarlo diversamente?) ella nemmeno andò a denunciare la nascita del bambino allo Stato Civile del Comune, e se ne tornò a Mezzano col suo fagottino, a testa alta.

Durante la degenza nell'ospedale di Ravenna Giacomina aveva conosciuto una suorina dai modi gentili e sempre sorridente, luminosa nel viso incorniciato dal velo, che le era stata così vicina come una di famiglia nei giorni del travaglio, e non riusciva più a cancellarla dalla mente. In vita sua, anche per l'assenza della mamma perduta prematuramente, non aveva mai ricevuto tante attenzioni e tenerezze. Ma ciò che l'aveva colpita maggiormente era che suor Scolastica (questo il nome della religiosa) non mostrò affatto di volerla convertire dopo che Giacomina aveva rifiutato di ricevere la comunione dal frate che passava ogni mattina all'alba. Separandosi si erano abbracciate con amicizia e sui silenzi imbarazzati di Giacomina le disse «Pregherò, pregherò sempre per il tuo bambino».

Ora, nuovamente a casa, i vagiti della sua creaturina andavano a intrecciarsi con gli echi di quella promessa d'orazione e Giacomina ne fu sedotta e irritata a un tempo perché avvertiva che qualcosa stava per mettere in discussione le sue certezze e un vissuto di paese che l'aveva resa una «primadonna». Fu in tale stato d'inquietudine e conflitti ch'ella diede il proprio assenso, a pochi giorni dal rientro a casa, quando una vicina ligia all'usanza dei vecchi le propone, prendendo tra le braccia il bambino: «Se vuoi, ci penso io a farlo battezzare». Ovviamente la neo-mamma non andò con loro: con quale faccia avrebbe potuto presentarsi al prete che appena nove mesi prima ella aveva osato minacciare con la pistola?

Figlio illegittimo di Rambelli Emidio e di Tavolazzi Giacoma

Nel registro dei battezzati di Mezzano (Anni 1914-1930, pag. 4, atto n. 10) alla data 20 marzo 1915 il parroco don Giuseppe Strani scrisse: «Oggi il cappellano don Augusto Tasselli ha battezzato in questa chiesa parrocchiale un bimbo nato in questa stessa parrocchia (sic) il giorno 2 (sic) di questo mese, figlio illegittimo di Rambelli Emidio e di Tavolazzi Giacoma, non sposati, al quale viene dato il nome di Athos-Joffre essendo madrina Montanari Teresa, moglie di Martoni Giuseppe anch'essi di questa parrocchia».  

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Athos-Joffre Rambelli (il futuro don Scolastico)

Il documento ci attesta che padre naturale del bambino è, dunque, Emidio Rambelli. Si tratta di un ventenne della Rossetta, in territorio di Fusignano, forse presente anch'egli al battesimo del figlioletto del quale comunque aveva già deciso i nomi di Athos e Joffre (nella registrazione latina dell'atto il sacerdote traduce Joffre con Afro, Afrum vulgo Joffre). E indicativo di un orientamento moderato del soggetto il fatto che, mentre all'epoca pullulano nomi che rimandano al credo politico dei padri, questo giovane scelga per il proprio figlio il nome di uno dei moschettieri creati da Dumas padre (Athos) famosissimi allora tra i lettori di romanzi popolari, aggiungendovi quello del generale che comandava l'esercito francese (Joffre) e che la contemporaneità della prima guerra mondiale rendeva noto attraverso le cronache giornalistiche.

Emidio Rambelli morì in guerra il 14 febbraio 1916

Di lì a qualche tempo, quando il 24 maggio 1915 anche l'Italia entrò nel conflitto, Emidio Rambelli fu chiamato alle armi e vestì il grigioverde.  

Dividendo la sorte comune a tutti gli arruolati romagnoli per le ben note vicende legate alla «Settimana Rossa», come si è detto, il fante Rambelli venne mandato sulla linea del fuoco dove concluderà la breve esistenza nel volgere di nemmeno nove mesi, durante l'offensiva di Cadorna sul fronte dell'Isonzo.

Il Ministero della Guerra così lo registrò tra i caduti: « Rambelli Emidio di Luigi, soldato del 79° Reggimento fanteria, nato il 21 giugno 1895 a Fusignano, distretto militare di Ravenna, morto il 14 febbraio 1916 sul campo per ferite riportate in combattimento». Due sorelle del defunto, materassaie alla Rossetta, non cesserono di considerare il figliolo della Tavolazzi come proprio nipote, accogliendolo in casa anche da adulto. 

Cambiò nome al figlio e lo chiamò 'Scolastico', come la suorina dell'ospedale

L'evento della morte in guerra di Emidio Rambelli, che dissolse traumaticamente i sogni di una futura famiglia, gettò Giacomina - stretta al suo bambino - in uno stato di smarrimento e oscuro abbandono, e forse tutto ciò concorse al lento progredire in lei di una revisione di vita che la porterà alfine a disconoscere quegli strani nomi coi quali il suo piccolo era stato originariamente registrato (ma solo in chiesa), per legarlo a una identità con i sigilli della novità liberante. Il 3 febbraio 1917 (quando al figlioletto manca un mese al compimento dei due anni) essa si presentò negli uffici del Comune di Ravenna e, presentando preventivamente copia autentica della sentenza del Tribunale cittadino che ordinava all'ufficiale di Stato Civile di accettare la tardiva dichiarazione, denunciò che «alle ore 10.45 pomeridiane del 3 marzo 1915, in città presso l'ospedale civile posto in piazza Anita Garibaldi n. 3, dalla sua unione naturale con uomo celibe, non parente né affine ecc., è nato un bambino di sesso maschile a cui dà il nome di Scolastico». Scolastico: l'antica amicizia con la suora, forse coltivata con rinnovati incontri, entrò nel destino del bambino che d'ora innanzi (col cognome della madre, perché di padre ignoto) legherà il proprio nome alla religiosa che per la crescita di lui aveva assicurato la sua incessante preghiera. 

Si sposò dopo anni anche con rito religioso 
proprio nella chiesa di Villanova

Dopo anni, il cammino della Tavolazzi verso un ideale di famiglia coi crismi della regolarità approdò all'amore del giovane Dante Berardi, persona mite e di sani princìpi il quale - con il matrimonio celebrato in Comune a Bagnacavallo il 21 agosto 1923 - riconobbe come proprio figlio, con Seconda nata nel 1919, anche Scolastico già di otto anni che così assunse definitivamente il cognome Berardi. Cinquanta giorni dopo, la sera dell' 11 ottobre, le nozze civili vennero regolarizzate in chiesa con il matrimonio religioso celebrato a Villanova di Bagnacavallo: quali emozioni abbiano invaso l'animo della Tavolazzi nella circostanza del rito di benedizione compiuto proprio in quel luogo dai sinistri ricordi, forse nemmeno la diretta interessata avrebbe potuto descriverceli.

Nel 1929, a 31 anni il marito di Giacomina Dante Berardi morì di tubercolosi 

Altre tappe, in un'alternanza di dolori e speranze, ritmarono l'esistenza già così gravida di vicende della Tavolazzi. Il 5 marzo 1929 il mal sottile (tubercolosi polmonare) si portò via la giovane vita, ad appena 31 anni, di Dante Berardi. 

Si risposò in seconde nozze nel 1930

Il 19 gennaio 1930 Giacomina si unì in seconde nozze - questa volta col nuovo rito concordatario - con Ugo Blosi che le rimarrà al fianco fino alla morte, avvenuta nel 1965. La protagonista della nostra storia sopravvivrà al secondo marito per quindici anni: ma la vicenda di lei, così ricca di sorprese, andrà sempre più intrecciandosi con quella del figlio Scolastico. 

Scolastico Berardi si fece prete

Il fanciullo - appena decenne - non aveva ancora frequentato la quinta classe elementare che don Mazzanti ruppe gl'indugi e gli prospettò d'andare in seminario in quell'anno stesso. Il prescelto ne fu visibilmente contento e la famiglia finì con l'accettare, anche per i vantaggi di ritorno: lì dai preti, con poca spesa e lontano dai pericoli, poteva almeno continuare a studiare togliendosi dai condizionamenti di un piccolo paese di campagna. Non sappiamo se in famiglia si pensasse davvero che il figlioletto potesse arrivare all'altare, ma è certo che non posero ostacoli alla sincera determinazione di lui a divenire sacerdote. In data 9 novembre 1932, quando il non ancora diciottenne Scolastico Berardi inoltrò al vescovo di Faenza, mons. Antonio Scarante, rispettosa domanda di poter essere ammesso alla Sacra Tonsura (rito cui corrisponde l'ingresso formale nel clero della diocesi), il rettore don Paolo Babini - futuro vescovo di Forlì - diede dell'alunno il seguente giudizio: "È intelligente, studioso, buono. È quindi raccomandabile. Ciò che non è lodevole è l'ambiente famigliare... ma questa non è cosa che dipenda da lui". 

Diventò sacerdote il 18 settembre 1937, con una speciale dispensa del papa per l'età: mancavano infatti diciassette mesi e quindici giorni ai 24 anni canonici previsti per poter ricevere la sacra ordinazione.

'Vedete come sa vendicarsi Dio?'

Nella circostanza, parlando ai propri fedeli di Mezzano, don Giuseppe Strani ricordò: «Durante la Settimana Rossa una donna mi puntò la rivoltella al petto, ora il figlio che allora la donna portava in grembo è divenuto sacerdote. Vedete come sa vendicarsi Dio?». Tra gli uditori c'è un ragazzino che poi si farà prete: è dalle sue labbra che Enzo Tramontani scrive di aver raccolto questa testimonianza.

Dopo alcuni anni di esperienza pastorale come cappellano a Reda, nel 1942 - appena ventisettenne - don Scolastico fu nominato parroco di Pergola: qui visse con dedizione eroica il passaggio del fronte bellico nell'ultimo scorcio del 1944, dispensando serenità e una carità discreta a quanti ricorsero a lui. Nel 1946 fu promosso alla chiesa parrocchiale di Errano, sulle prime propaggini faentine, dove c'era una eredità di presenza e sensibilità cristiane lasciata dal predecessore don Giovanni Zannoni da raccogliere, conservare, far maturare in rapporto ai tempi e problematiche nuove. 

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Don Scolastico a Errano con la mamma Giacomina 
e in mezzo la sorella Seconda

Con umiltà e senso pratico, don Scolastico camminò con i suoi parrocchiani che affollavano la chiesa sui sentieri del rinnovamento conciliare aprendosi al nuovo con mente intuitiva, ma sempre fedele alla genuina tradizione della Chiesa. Fu sempre disponibile ad ogni iniziativa che aiutasse la famiglia, e stimolasse i suoi giovani a uscire dall'orticello della parrocchia per impegnarsi a livello diocesano, o nelle istituzioni civiche. 

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Ultima immagine di Mons. Scolastico Berardi spentosi a 83 anni nel 1998

A lui stesso vennero affidati incarichi diocesani come assistente dei maestri cattolici, responsabile della sezione pastorale e parroco consultore. Non mancarono apprezzamenti e riconoscimenti ecclesiastici: nel 1952 diventò canonico onorario della Collegiata di Bagnacavallo, nel 1979 ricevette il titolo di monsignore. Ma don Scolastico fu ricordato soprattutto come uomo di preghiera e per lo splendido esempio di fede. Nel 1990, aggredito dalla malattia, lasciò l'amata parrocchia e viene accolto nel «reparto sacerdoti» dell'Opera Santa Teresa di Ravenna, il Cottolengo della Romagna: qui, inchiodato su una sedia a rotelle, si consumò nella preghiera e nell'accettazione serena delle sofferenze, finché il 12 febbraio 1998 morì. Riposa ora in terra nel camposanto di Errano, tra i suoi figli. Per trentasette anni don Scolastico Berardi aveva diviso la vita di parrocchia con la mamma.

Giacoma Tavolazzi l'aveva raggiunto a Pergola nel 1943 e accanto al figlio sacerdote passò tutti gli anni che le restarono da vivere, spegnendosi con la benedizione di lui il 7 agosto 1980.

Ultima foto di Giacomina Tavolazzi spentasi all'età di 87 anni

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