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Cronaca
di Pino
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L'eccidio
di Ancona
Quando
1'8 giugno 1914, in Fusignano, portate dai giornali del mattino,
giunsero le prime frammentarie notizie dell'eccidio avvenuto in Ancona
per opera dei carabinieri di quella città contro tre giovani ed inermi
cittadini, un fremito di commozione e di ira s'impossessò della massa
popolare. Ad
Ancona il giorno 7 giugno, festa dello Statuto, i repubblicani, gli
anarchici ed i socialisti, invitati dagli agitatori: Nenni
(repubblicano) e Malatesta (anarchico), si adunarono a comizio privato
nella sede del Partito Repubblicano denominata VILLA ROSSA, per
protestare contro i fasti del militarismo e particolarmente contro le
compagnie di disciplina. Le
parole degli oratori, roventi ed ispirate a concetti di ribellione
contro i poteri costituiti, furono accolte con grande entusiasmo dai
numerosi presenti ma senza dar luogo ad incidente alcuno. Fu solo quando
gli intervenuti vollero recarsi in massa in Piazza Roma, ove suonava il
concerto militare, per inscenare una dimostrazione ostile, che ebbero il
primo contatto con la forza pubblica incaricata di impedire qualsiasi
formazione di corteo, e fu subito alla uscita da Villa Rossa che
incominciarono le apostrofi violente, le minacce, le colluttazioni, e
si ebbe la scarica dei Carabinieri contro i dimostranti, due dei quali
rimasero morti sul colpo, uno ferito mortalmente e molti altri feriti più
o meno leggermente. Altre
volte, in tempi recenti, erano accaduti simili eccidi ed altre proteste
a base di comizi, cortei e scioperi generali erano seguite, ma il
Governo centrale le aveva sempre tenute in nessun conto ed invece di
opporre provvedimenti atti a far meglio rispettare il diritto di
riunione e.la vita dei cittadini, era rimasto inetto quando non aveva
premiato gli esecutori degli eccidi. Onde
quello d'Ancona, specialmente nelle regioni ove più intensa ferveva la
vita dei partiti d'avanguardia, fu la goccia che fece traboccare il
recipiente e scatenò tale indignazione da far raggiungere in breve alle
manifestazioni di protesta, i limiti di una vera e propria sommossa di
popolo. Sintomi
di burrasca A
Forlì, a Ravenna, a Cesena, Faenza, Fabriano, Falconara, Senigallia ed
in altre città e paesi di Romagna e delle Marche, fu dichiarato
immediatamente lo sciopero generale senza neppure attendere la decisione
della Confederazione del Lavoro. Ovunque
si pubblicarono manifesti, si tennero riunioni, si inscenarono
manifestazioni pubbliche. In
certe località poi, ove maggiormente vibrava lo spirito rivoluzionario
e la folla era padrona della situazione, fu impedita la partenza dei
treni, vennero interrotte le comunicazioni, invasi e devastati caselli
daziari, uffici telegrafici e stazioni ferroviarie. Alla
agitazione non rimasero estranee neppure città come Roma, Firenze,
Milano, Napoli e molte altre della penisola, e la Confederazione del
Lavoro e le Direzioni Centrali dei Partiti Repubblicano e Socialista
decisero la proclamazione dello sciopero generale di protesta quando
esso era già un fatto compiuto. Ciò
sia notato a prova della spontaneità della massa popolare. Anche
a Fusignano, tosto conosciuta la luttuosa notizia, la Sezione
Repubblicana espose la bandiera abbrunata venendo poscia imitata dalla
Sezione Socialista e dalle organizzazioni economiche, mentre il giorno
seguente 9 giugno, gli operai sospesero il lavoro e fu reclamata e
ottenuta, senza ripulsa da parte degli interessati, la chiusura dei
negozi. Vigilia
agitata Il
giorno 10 giugno la Sezione Repubblicana pubblica un vibrato manifesto
stigmatizzante l'eccidio di Ancona ed invocante la virile protesta del
popolo contro gli autori e la politica del Governo: i socialisti
distribuiscono foglietti inneggianti allo sciopero generale
rivoluzionario e viene nominato un Comitato incaricato di organizzare
per il giorno seguente una grande dimostrazione di protesta. Formavano
il detto Comitato i cittadini: GROSSI PINO e CAPUCCI GIOVANNI per
Partito Repubblicano; COSTA EMIDIO ed EMALDI BATTISTA pel Partito
Socialista; SERVIDEI OLINDO per Gruppo Anarchico; TELLARINI LEOPOLDO e
VISTOLI EMILIO per le Organizzazioni Operaie. Verso
sera di detto giorno (10 giugno) giungono a Fusignano notizie di gravi
incidenti accaduti a Ravenna durante un comizio tenuto in Piazza ed al
quale avevano partecipato ben dieci mila persone. Si parla di un
incendio della Prefettura, di cattura del Prefetto da parte della folla,
di scariche di fucileria, di incendio di chiese, di assedio della Casa
del Popolo da parte della truppa, di uccisione del Commissario di P.S. e
di gravissimi scontri avvenuti fra la truppa ed i rivoltosi. Difficile
è immaginare l'impressione profonda destata da tali notizie: si
credette immediatamente all'inizio di quella rivoluzione che aveva
formato oggetto d'una predicazione oltre cinquantennale specialmente da
parte del partito repubblicano, e già i più accesi si offrivano a
compiere qualsiasi sacrificio pur di raggiungere l'esito desiderato. Dopo
diverse ore però le notizie furono riscontrate esagerate nel loro
complesso, anche se esatte in certi particolari. Infatti
gli incidenti di Ravenna consistevano nell'uccisione del Commissario di
P.S. Cav. Mignaggio, prodotta da un colpo di bottiglia alla fronte,
nella devastazione di due chiese di nessun valore storico e di cui i
mobili furono bruciati nella pubblica Piazza ed in una scarica di circa
80 colpi di fucile contro la Casa del Popolo, sede dei repubblicani. Non
esagerate però, né fantastiche furono riscontrate le notizie
riguardanti la situazione d'Alfonsine ove, a detrimento della società
del moto rivoluzionario, erano stati commessi fatti criminosi e
grotteschi. Si aggiunga poi che erano giunte assicurazioni sull'esito
trionfante della rivoluzione in Italia e tutto ciò contribuì ad una
maggiore esaltazione della folla dai di cui atteggiamenti e propositi
appariva che anche la burrasca si sarebbe scatenata sul nostro piccolo
paese. Notte
dal 10 all'11 giugno Durante
la notte dal 10 all'11 giugno, ad imitazione di quanto era accaduto in
altri paesi, anche a Fusignano vennero interrotte le comunicazioni
telegrafiche e telefoniche (nell'illusione forse di favorire la vittoria
del moto rivoluzionario) furono imbrattati i muri delle chiese e delle
case con iscrizioni sovversive, ed alcuni sconosciuti, penetrati nella
chiesa arcipretale di S. Giovanni Battista, mediante scasso di una
porticina laterale sinistra, avevano iniziata la distruzione di un
baldacchino che doveva servire per la processione del giorno seguente
(Corpus Domini) quando vennero scoperti e messi in fuga dal sacrestano
che in quella notte fu obbligato dall'Arciprete a dormire in chiesa
prevedendo disordini ed invasioni. L'
11 giugno Fin
dalle prime ore del mattino il Comitato sedette in permanenza nei locali
del Circolo Socialista ove impartiva ordine affinché la manifestazione
procedesse regolata ed unanime. Emise
dei lasciapassare a persone che doveva recarsi in altri paesi per
interessi indilazionabili, elargì ordini per la concessione di generi
alimentari ad ammalati, organizzò squadre per assicurare la chiusura
delle chiese e dei pubblici negozi meno le farmacie che furono lasciate
aperte ... Verso
le 9, mentre gli impiegati attendevano al loro lavoro una massa di oltre
500 persone si recò alla residenza Comunale per reclamare l'esposizione
della bandiera abbrunata e la chiusura degli uffici. Il Segretario Sig.
Foiera Antonio si oppose energicamente, poi visto l'atteggiamento poco
rassicurante della folla, aderì qualora i dimostranti avessero ottenuto
il permesso dal Sindaco. Una
Commissione, allora, mentre la folla stazionava in Municipio, si diresse
all'abitazione del Cav. Enrico Armandi ritornando poscia con l'ordine di
esporre la bandiera e di chiudere gli uffici. Dopo
questa facile vittoria i dimostranti volevano recarsi all'abitazione del
Sig. Avv. Demetrio Grossi, presidente del Circolo Cittadino, per
chiederne la chiusura, ma Pino Grossi assicurò che da solo si sarebbe
recato lui, che era suo cugino, sicuro di riuscire nell'intento. Ciò
infatti avvenne dopo breve cordiale colloquio al quale parteciparono
pure Costa Emidio e Venturi Domenico. Dopo
ciò la folla si sbandò per le vie del paese, illuminate dal sole che
splendeva alto nel cielo azzurro, in attesa di notizie le quali non
mancarono. Infatti
diversi sconosciuti, giunti in bicicletta, riferirono sull'incendio del
Palazzo Comunale d'Alfonsine, su quello della stazione di Castel
Bolognese, di Imola, della Chiesa di Mezzano e su altri avvenimenti di
rivolta e di distruzione, i quali, unitamente alle voci che correvano
d'un movimento rivoluzionario generale, elettrizzarono vieppiù la massa
rimasta tranquilla fino allora. L'albero
della libertà S'incominciò
quindi da certuni (i più focosi ed i meno coscienti) a lamentare
l'inettitudine della folla fusignanese e specialmente del Comitato
d'agitazione, dal quale si pretendevano ordini di saccheggi, di incendi
invece che parole di calma in attesa di avvenimenti decisivi e di ordini
degli organismi politici centrali; ma poi i malcontenti non ebbero
seguito nella massa la quale rimase disciplinata e composta. Soltanto un
gruppo alquanto numeroso di giovani, all'insaputa del Comitato di
agitazione, si recò nel bosco del Marchese Calcagnini, ove atterrò un
diritto frassino lungo non meno di 15 o 16 metri che fu trascinato fino
in Piazza Arcangelo Corelli e piantato di fronte alla Chiesa del
Suffragio portante in cima una bandiera rossa presa dalla sede dei
socialisti. Alla
cerimonia, svoltasi inaspettatamente e quasi con fulmineità, assisteva
la folla dei dimostranti e molti altri curiosi e l'albero della libertà
fu salutato da evviva alla rivoluzione e dalle note della Marsigliese,
dell'Inno dei Lavoratori e dell'Inno di Garibaldi suonati dal Concerto
cittadino che spontaneamente prestò l'opera sua. In
questo momento il paese aveva assunto un aspetto festivo: crocchi di
persone, non più preoccupate ma allegre, discutevano facendo i più
rosei pronostici sull'esito della rivoluzione in Italia; altre
riandavano con la memoria al 1848 quando cioè i nostri nonni, pure
nella stessa Piazza e quasi nello stesso punto alzarono l'albero della
libertà, e perfino le donne, attratte dai suoni e dalle grida di gioia,
non rimasero estranee alla dimostrazione. Il vecchio Valentino Bedeschi,
di anni 90, volle lui pure recarsi a vedere il rinnovato segnacolo
rivoluzionario e pianse. Strana coincidenza in un uomo d'ordine e di
religione quale egli era ... Terminata
la cerimonia dell'innalzamento dell'albero della libertà (erano circa
le 11) il Maestro Antonio Preda, dilettante fotografo, volle ritrarre la
scena che riprodusse in cartoline illustrate le quali servirono oltre
che pei clichè dei giornali "La Domenica del Corriere" e
"L'illustrazione italiana" (2° numero di giugno) anche per le
indagini della pubblica sicurezza. Ma questa non era intenzione del
Preda ed i rivoluzionari non gliene fecero addebito. L'episodio dell'albero della libertà interessò tutta la stampa italiana che lo volle illustrare mostrandosi anche benevola per il suo significato ideale. Intanto
la mattinata volgeva al termine e siccome fra la folla, come abbiamo
superiormente detto, non mancavano i facinorosi e gli elementi
turbolenti, il sopraggiungere dell'ora del pranzo procurò una
provvidenziale sosta alla dimostrazione, senza di che, e senza
l'interessamento e le esortazioni di alcuni membri del Comitato
d'Agitazione, avrebbe degenerato nell'incendio del Municipio e delle
Chiese, poiché il mimetismo fu il principale ispiratore della folla. Pomeriggio
agitato Giunse
quindi il pomeriggio e con esso il pericolo grave di veder ripetersi in
Fusignano ciò che aveva funestato altri paesi, stante anche l'assenza
completa della pubblica forza, la quale dal giorno precedente rimaneva
tappata in Caserma non si sa se per ordini ricevuti dall'Autorità
politica o per prudenza essendo la locale stazione dei Carabinieri
composta di soli quattro uomini, numero esiguo in confronto della
moltitudine e compattezza dei dimostranti. Inoltre
continuavano a giungere notizie di conflitti tra rivoluzionari e forza
pubblica, di distruzioni, saccheggi e ciò eccitava sempre più la folla
costringendo il Comitato di Agitazione a prendere in esame la
situazione. In
una sua adunanza prevaleva la determinazione di dare le dimissioni,
visto che gli intendimenti della maggioranza della folla si trovavano in
stridente antagonismo con quelli del Comitato, il quale voleva attendere
ordini ed istruzioni dal Comitato di Ravenna prima di dare alla folla la
libertà di agire, quando giunse in motocicletta il dottor Benedetto
Gessi repubblicano d'Alfonsine, trafelato, con gli occhi congestionati,
in preda ad evidente agitazione il quale riferì che da notizie portate
dal signor Marini, alfonsinese, reduce da Roma, il Re era fuggito, parte
dell'esercito s'era ribellato, che tutte le grandi città italiane erano
insorte e che a Ravenna la Casa del Popolo, gremita di un migliaio di
dimostranti, era assediata dai soldati ed era doveroso e necessario
armarsi per marciare verso Ravenna per liberare gli amici assediati. Pino Grossi, unico che conosceva il Gessi, rassicurò la folla, era un amico della causa repubblicana e ogni diffidenza verso di lui doveva essere messa da parte. Inoltre il Grossi chiese maggiori schiarimenti e volle decise assicurazioni sulla veridicità dei fatti raccontati, a cui il Gessi aderì e di ciò ne fu informata la folla con un breve discorso del Grossi, il quale, per uno scrupolo di coscienza e nonostante le esplicite dichiarazioni dell'informatore, volle declinare ogni responsabilità personale e del Comitato sulla fondatezza delle notizie, richiamando la folla al senso della responsabilità ed esortandola a rifuggire dal compiere atti criminosi all'infuori del sequestro delle armi ai cittadini. Requisizione
delle armi Quando
il Grossi, a nome del Comitato, ebbe terminato il discorso (erano circa
le 16,30), i dimostranti in numero di 500, fra grida di viva la
rivoluzione, abbasso la monarchia, si riversarono per le vie del paese
per requisire le armi dei privati e disporsi a marciare verso Ravenna
per liberare i prigionieri della Casa del Popolo, dei quali aveva
parlato il Gessi assicurando che uguale spedizione era stata organizzata
da Mezzano, Alfonsine e da altre località della provincia. Contemporaneamente
che circa 300 dimostranti compivano la requisizione delle armi in paese
e nelle ville, corse fra la folla rimasta in piazza Corelli ad attendere
e fronteggiare gli eventi una vaga voce dell'arrivo imminente della
cavalleria da Lugo. In un batter d'occhio tale notizia, che poi fu
riscontrata immaginaria come molte delle altre che avevano tenuti
sospesi gli animi, determinò tale agitazione che la fotta
istintivamente corse ai ripari. "Facciamo
le barricate", propose uno della folla. E le barricate che avevano
costituitala difesa dei rivoltosi durante la cacciata dei tedeschi dalle
città italiane e sulle quali si erano coperti di gloria tanti popolani,
solleticarono talmente la fantasia della folla che in brevissimo tempo
vennero alzate agli sbocchi delle vie coi banchi, coi confessionali, con
porte, sedie ed altri mobili asportati dalle Chiese di S. Giovanni
Battista, del Suffragio, di S. Rocco e dell'Orfanotrofio. Naturalmente
ognuno può immaginare a quale difesa potevano servire tali barricate
costruite senza alcun criterio tecnico e senza alcuna solidità. Durante
lo svaligiamento delle Chiese non si ebbero a dèplorare che qualche
rottura di immagini sacre compiute da ragazzacci che si erano intromessi
fra i dimostranti, anzi uno di questi, rimasto sconosciuto, che era
penetrato nella torre dell'orologio con l'intento di atterrare la
cosidetta Madonna Nera, visto dallo studente Renato Emaldi e da Pino
Grossi, fu redarguito e la Madonna non venne toccata. Requisizione
d'automobile Intanto
che la requisizione delle armi e la costruzione delle barricate
procedeva febbrilmente, fu avanzata l'idea di inviare una commissione a
Ravenna per attingere notizie sicure ed avere ordini sul come doveva
procedere la dimostrazione. La
assennata proposta fu accolta entusiasticamente e siccome non si poteva
ricorrere al servizio di vetture e biciclette perché troppo lente, si
pensò di requisire la automobile del Sig. Dottor Carlo Piancastelli,
ricco fusignanese che in quel giorno trovavasi nella sua dimora di Roma. Immediatamente
una colonna di dimostranti si recò all'abitazione dell'agente del
Piancastelli, Rag. Carlo Francesconi, al quale fu inviata una
Commissione col preciso incarico di chiedere l'automobile per un viaggio
a Ravenna, ma siccome dopo aver ripetutamente bussato alla porta non si
ebbe risposta alcuna, i dimostranti atterravano la porta. Fu solo allora
che comparve il Francesconi, spaurito e tremante, il quale dopo un
colloquio con Baruzzi Antonio e Ruffini Pietro, cantoniere idraulico, e
dietro assicurazione che non si sarebbe recato alcun danno
all'automobile, aderì alla richiesta dei dimostranti. Allora, per
ordine della Commissione, venne rimessa a posto la porta atterrata,
mentre vari cittadini dimostranti fra i quali lo studente Renato Emaldi,
Venturi Domenico muratore ed il Ruffini Pietro, salirono sull'automobile
diretti a Ravenna, accompagnati dallo chauffeur del Sig. Piancastelli,
certo Cimatti Carlo. La
scena della requisizione delle armi, dell'automobile e della costruzione
delle barricate, avvenne alla presenza di molti elementi monarchici e
clericali del paese che fino dalla mattina circolavano indisturbati come
se essi pure partecipassero alla manifestazione rivoluzionaria. Qui
è doveroso notare che alcuna molestia e danno fu rivolto alle persone
ed alle cose private, e che furono perfino respinte le offerte di denaro
e di generi alimentari fatte dai ricchi timorosi ai dimostranti che si
presentarono per la requisizione delle armi. Intanto
che l'automobile requisita al Sig. Piancastelli filava alla volta di
Ravenna, la massa dei dimostranti era in preda a grande agitazione e si
parlava di assalire i magazzini dei ricchi, ma, anche questa volta, per
intromissione dei maggiorenti dei partiti repubblicano e socialista, la
folla si persuase di rimettere ogni sua azione al ritorno della
Commissione che erasi recata a Ravenna. A
calmare gli animi concorse pure uno scroscio d'acqua e di grandine che
diede luogo al ritiro della folla sotto i portici a continuare i
commenti agli incidenti della giornata. Passarono
quindi fra l'ansia, il turbamento ed i preparativi difensionali
(barricate e requisizione delle armi), che furono ripresi col cessare
del temporale, circa 2 ore, dopo le quali giunsero contemporaneamente il
socialista Martoni Giovanni da Massalombarda e la Commissione con
l'automobile da Ravenna, i quali assicurarono che tutto era tornato alla
calma, che la Confederazione del Lavoro aveva deliberato la fine dello
sciopero; ed i giomali erano usciti con le notizie che il preteso
movimento rivoluzionario si era limitato alle provincie rosse delle
Marche e della Romagna, senza neppure essere meritevole di grande
rilievo e di provvedimenti straordinari da parte del Governo. La
fine dell'illusione Tanta
era grande e generale l'illusione dell' avvenuta instaurazione della
repubblica o quanto meno la sommossa dell'intero popolo italiano, che la
notizia non si volle credere. Vi fu anzi chi tentò di smentirla
recisamente affermando essere stata divulgata da agenti governativi
mentre altri esortavano la massa a mantenersi in armi per condurre alla
vittoria il movimento rivoluzionario. Ma
raccolti i dimostranti nel cortile della Casa Socialista dopo un
discorso di Pino Grossi, il quale sostenne non doversi continuare la
protesta dopo che era stata dichiarata chiusa dagli organi centrali del
movimento economico e politico d'Italia, e doversi invece consegnare
immediatamente le armi ai loro legittimi proprietari, la massa aderì a
tali suggerimenti e la dimostrazione rivoluzionaria fu dichiarata
finita. La
notizia si sparse fulminea nel paese: i negozi si aprirono, le osterie,
i caffè si affollarono di clienti assetati perchè durante tutta la
giornata gli esercizi pubblici rimasero completamente chiusi e neppure
era stato possibile bere nei circoli repubblicano e socialista perché i
dirigenti avevano impedita la vendita di vino; i timorosi, rimasti
tappati in casa dalla mattina, sortirono a passeggio e la vita normale
del paese fu ripresa. Come
ultimo bagliore del movimento rivoluzionario una colonna di giovani coi
fucili in ispalla, marciando in ordine militare, attraversò il paese al
canto d'una canzone sull'aria della Marsigliese dando una pallida idea
di una scena della rivoluzione francese. Un
Canard Verso
le 22, a Lugo, ove non erano accaduti incidenti di sorta pure essendo
rimasta pronta la popolazione a qualsiasi cimento decisivo, giunsero,
non si sa come, notizie fantastiche ed impressionanti sulla situazione
di Fusignano. Si diceva che i dimostranti avevano incendiato il palazzo
Piancastelli, invasi e saccheggiati i magazzini dei ricchi e che era
stato deciso l'incendio del palazzo comunale. Il
Sotto-Prefetto, giustamente impressionato, assieme al Capitano dei
RR.CC., si recò all'abitazione del Rag. Giacomo Valli, grande
industriale ed influente repubblicano di Lugo, scongiurandolo di recarsi
a Fusignano in automobile per portare una parola di pace ed esortare i
rivoluzionari a ritornare nella legalità. Consigliò inoltre la massima
prudenza avendo saputo che la strada da percorrere era irta di ostacoli
e di barricate ed una corsa in automobile poteva riuscire pericolosa. Nonostante
il quadro impressionante, alcuni amici del Valli presero l'impegno di
compiere la gita a Fusignano; infatti, montati in automobile, si
diressero non senza dimenticare l'avvertimento del Sotto-Prefetto, verso
il preteso teatro della rivoluzione: Fusignano. Ma
quale fosse la loro sorpresa nel constatare all'arrivo che non solo non
esistevano le famose barricate e non bruciava alcun palazzo, ma che
erano perfino spenti i fanali degli esercizi pubblici, non è facile
immaginare. I
messaggeri lughesi, constatata la falsità dell'informazione pervenuta
al Sotto-Prefetto, vollero attingere notizie precise sulla situazione e
si recarono all'abitazione del capo dei socialisti, Costa Emidio, il
quale dormiva saporitamente e per svegliarlo fu giocoforza scaraventare
sassi nella finestra della sua camera da letto. Dopo un breve colloquio
i lughesi fecero ritorno a Lugo ad assicurare il Sotto-Prefetto che
tutto era tornato normale e che gli erano state raccontate delle
fandonie. Atterramento dell'albero della libertà L'indomani
dell'abortita rivoluzione vennero liberate definitivamente le strade
dall'accavallamento dei mobili e legnami ed a quest'opera, pagati
dall'Arciprete Mons. Albertini, parteciparono i facchini del paese,
mentre l'atterramento dell'albero della libertà fu ordinato dal Sindaco
Cav. Enrico Armandi ed eseguito alle ore 11.30 dai cantonieri comunali
Guerra Anacleto e Serafino sorvegliati dalle guardie municipali, dal
Maresciallo dei RR.CC. e da vari carabinieri alla presenza di molti
cittadini che commentavano con rammarico. L'albero,
appena atterrato, venne trasportato nel cortile del palazzo comunale ove
fu fatto a pezzi, uno dei quali unitamente alla rossa bandiera che vi
sventolava in cima fu consegnato al Circolo Socialista ed uno a Pino
Grossi, per ricordo. E
qui per la verità e per debito di coscienza debbo aprire una parentesi
per affermare che, nonostante la completa assenza degli agenti di
pubblica forza e di qualsiasi altro freno che non fossero le fraterne
esortazioni dei capi dei partiti, la folla che durante una intera
giornata era rimasta padrona del paese, non si macchiò di alcuno di
quei reati comuni che in altri paesi offuscarono e disonorarono il
movimento politico. Nessun
avversario fu maltrattato né ingiuriato; le loro case furono
rispettate, non fu asportata alcuna cosa; nè denari nè generi
alimentari, anzi a chi ne offriva si opponeva un rifiuto. Ma
ciò non valse a frenare gli istinti di vendetta degli elementi
conservatori e reazionari, i quali, appena il paese fu presidiato da
molti militari e forze di pubblica sicurezza, iniziarono una accanita
campagna a base di calunnie e di esagerazioni contro le persone più in
vista del partito repubblicano e socialista, che determinò molti
arresti ed un lungo processo come vedremo più avanti. La
lotta elettorale Intanto
che l'autorità di pubblica sicurezza compiva l'inchiesta per scovare le
responsabilità dei singoli partecipanti al movimento, i partiti
affilavano le armi per la lotta elettorale della domenica successiva. Il
21 giugno, infatti, il corpo elettorale fusignanese era chiamato ad
eleggere l'amministrazione comunale, che fino allora, meno un brevissimo
intervallo durante il quale erano saliti in Comune i repubblicani, era
stata retta dal partito clerico-moderato. Socialisti
e repubblicani che male avevano sopportato tale dominio ma che per
rancori politici non avevano mai tentato una alleanza per abbatterlo,
pensarono esserne venuta l'ora, e mentre i monarchici ed i clericali con
un violento manifesto lanciavano il grido di guerra contro i
repubblicani ed i socialisti invitando il corpo elettorale a pronunciare
la sua condanna contro di essi prima ancora dell'autorità giudiziaria,
socialisti e repubblicani accettarono d'accordo la sfida. I
primi avevano scelto per candidati tutti i maggiorenti del paese, fra i
quali il Cav. Enrico Armandi ex-Sindaco, il Cav. Dottor Carlo
Piancastelli, l'Avv. Demetrio Grossi, Fedele Tazzari ex-capitano dei
bersaglieri, l'Avv. Francesco Tazzari, Preda Sebastiano, mentre gli
altri avevano per candidati tutti operai scelti nel campo socialista
perché i repubblicani vollero essere esclusi. La
lotta si svolse accanita, ma senza incidenti; l'accorrenza alle urne fu
enorme e raggiunse la percentuale dell'80%, la vittoria della lista dei
sovversivi fu completa ottenendo 420 voti in più di quella degli
avversari. Appena
conosciuto l'esito i vittoriosi improvvisarono una grande manifestazione
di entusiasmo con grida di evviva e canti, mentre i monarchici ed i
clericali si ritirarono nelle loro case mortificati e dolenti per la
imprevista e schiacciante sconfitta. Il
giorno seguente repubblicani e socialisti festeggiarono la vittoria con
balli e musiche in Piazza Corelli e nella sede del circolo socialista
facendo i migliori propositi di mantenere saldi i vincoli di amicizia e
fratellanza incontrati nella manifestazione rivoluzionaria e nella lotta
elettorale. Ma
la gioia non poteva essere duratura perchè l'Autorità giudiziaria
imbastiva un processo e la burrasca reazionaria doveva scatenarsi anche
sopra Fusignano come già era accaduto negli altri paesi ove la protesta
contro l'eccidio di Ancona aveva assunto proporzioni di moto
rivoluzionario. Annusato il vento infido alcuni, fra i quali Amadei
Pasquale (segretario della sezione giovanile socialista) e Pino Grossi
(segretario di quella repubblicana), si ricoverarono in territorio che
assicurava loro libertà, infatti il primo raggiunse la Repubblica di S.
Marino, ed il secondo la Svizzera ove si trattennero per circa una
ventina di giorni e se ne ritornarono a casa in seguito ad assicurazioni
che per loro non vi sarebbe stato mandato di cattura. Se non che tre
giorni dopo il loro arrivo avvenne ciò che i fuggiaschi avevano
preveduto. La
notte dell' 11 luglio (proprio nel trigesimo del tentativo
rivoluzionario) giunsero a Fusignano alla spicciolata: guardie,
carabinieri e delegati di P.S. oltre una compagnia di cavalleggeri. In
breve furono chiusi gli sbocchi delle strade ed incominciò la retata. Le
case di coloro pei quali era stato emesso mandato di cattura furono
circondate poi invase e perquisite con tale accanimento ed inurbanità
come se fossero nascondiglio di briganti e di pericolosi criminali. Non
si ebbe riguardo né compassione a nessuno: fossero spose incinte, o
vecchie nonne, o bambini malati; tutto fu messo sottosopra specialmente
ove riuscivano infruttuose le ricerche per l'esodo dei catturandi,
alcuni dei quali furono avvisati della sorte che loro spettava da un
militare che doveva prendere parte alle operazioni. Fu
infatti per tale circostanza che Pino Grossi, Renato Emaldi, Costa
Emidio, Tellarini Leopoldo, Emaldi Battista e Tabanelli Emidio ebbero
campo di sottrarsi all'arresto e di prendere il volo per altri lidi. Ed
i primi due raggiunsero la Repubblica di San Marino e gli altri si
ricoverarono in Svizzera. Così
vennero tradotti nelle carceri di Ravenna soltanto i seguenti: Amadei
Pasquale, Guerrini Luigi, Tellarini Luigi, Sassatelli Vincenzo,
Montanari Emilio, Emaldi Alcide, Morandi Domenico, Montanari Pasquale,
Abbondanti Giuseppe, Marcucci Silvio, Marcucci Augusto, Marcucci Emilio,
Emaldi Antonio, Ferrucci Filippo, Cantagallo Giovanni, Alberani Matteo,
Guerrini Guido, Malpeli Piero, Ricci Giulio, Morandi Giulio, Babini
Edoardo, Malpeli Alfredo, Tabanelli Umberto, Pasquali Domenico, Ruffini
Pietro, Alberani Annibale, Venturi Domenico, Luisa Menetti. Il processo Durante
la permanenza dei profughi nella Svizzera e nella Repubblica di San
Marino, l'On. Ulderico Mazzolani, deputato del 2' Collegio di Ravenna,
sollecitava le pratiche processuali e compiva una umanitaria opera di
conforto e di assistenza alle famiglie dei carcerati acquistandosi le
simpatie generali della popolazione. Trascorsero
così quattro mesi, finalmente il Procuratore del Re: Avv. Rossi Doria
ordinava il rinvio a processo di 32 sui 50 imputati fissando l'udienza
per il 16 novembre 1914 al Tribunale Civile e Penale di Ravenna. In
detto giorno, oltre agli arrestati, si costituirono pure Pino Grossi e
Renato Emaldi reduci dall'esilio di San Marino volendo assumere le loro
responsabilità. Grande
interesse destò in tutta la Romagna e nella stampa emiliana il processo
per i fatti di Fusignano, e ad ogni seduta presenziava un folto
uditorio. Alla
difesa degli imputati sedevano gli Avv. On. Mazzolani e Borciani, e gli
Avv. Cantalamessa di Lugo, Bondi di Forlì, Cilla e Ghiselli di Ravenna
e Calderoni di Russi. Il
processo che si svolse nell'aula della Corte d'Assise durò 10 giorni ed
alle ore 19.30 del 26 novembre si ebbe la sentenza che assolveva per
insufficienza di prove: Emaldi Renato, Ruffini Pietro e Venturi Domenico
accusati di violenza privata perrequisizione dell'automobile del Sig.
Piancastelli; assolveva pure Tabanelli Emidio, Malpeli Alfredo, Faccani
Natale, Ferri Sileno, Marcucci Emilio e Malpeli Pietro, mentre gli altri
venivano condannati a pene varianti da 6 mesi a 4 anni. L'autore
di queste cronache venne condannato a 6 mesi per un reato che non aveva
commesso: la costruzione di barricate. L'impressione che sollevò in
tutta la Romagna tale sentenza fu enorme non ritenendosi giustificata la
severità dei giudici in confronto degli avvenimenti fusignanesi, e fra
i più addolorati figuravano gli stessi denunziatori, i quali o per
rimorso di coscienza, o per tema di rappresaglie e vendette, si
sottraevano ben volentieri e con intenzione ad incontri coi familiari ed
amici dei condannati, ed evitavano di frequentare luoghi pubblici. torna alla pagina iniziale della Settimana Rossa di Fusignano |
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