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      Al mattino, quiete.
      Nessun indizio di ribellione. In chiesa fervono i preparativi per la
      solenne processione dell'indomani, perciò gli altari sono tutti vestiti
      dei migliori e più preziosi arredi sacri: tovaglie con ricchissimi pizzi
      ricamati in oro e seta dalle buone suore di S. Chiara di Faenza;
      baldacchino pure di seta e oro; pallio dell'altar maggiore, argenteria
      ecc.
      
      
       In sul far della
      sera incomincia un insolito movimento in piazza come nei giorni di
      comizio: si ode il cupo suono dei corni che chiama a raccolta, la piazza
      si affolla di faccie sinistre, corrono i bambini alzando
      
      al cielo
      le loro stridule voci, non mancano le donne d'ogni colore politico e già
      ascritte anch'esse alle diverse leghe.
      
        
      Ad un tratto entra
      in scena il Comitato rivoluzionario, il quale sta come gruppo serrato in
      mezzo alla piazza con a capo il sindaco Camillo Garavini. Un breve
      consulto... uno sguardo alla piazza... s'impartiscono ordini secchi... poi
      via di gran corsa all'assalto. La posta, il telegrafo e il telefono sono
      le prime vittime: si fracassano gli apparecchi, si sale sulle impalcature
      di una casa in riparazione e si strappano i fili elettrici. E ben
      naturale: si cerca l'isolamento. Indi viene la volta del Circolo
      monarchico: forzata la porta con leve e grossi pali, la turba furibonda si
      dà all'assalto e al saccheggio. Si videro allora volare fuori dalle
      finestre
      le immagini del Re Vittorio e della Regina d'Italia, poi sedie, tavolini
      di marmo, bottiglie, bicchieri: si vedevano i giovanetti, con un
      accanimento
      indescrivibile, afferrare bottiglie piene di liquore d'ogni colore e
      sbatterle contro le colonne della casa di fronte con gioia così pazza e
      con tale ironia che faceva fremere d'orrore e l'aria era talmente satura
      di odore alcoolico da non potersi descrivere.
      
       
      Terminata la
      distruzione del Circolo monarchico, la massa del popolo s'accalca
      all'entrata del Palazzo Municipale, ove eretto in precedenza un palco, si
      apprestano a parlare gli oratori. Primo a prendere la parola fu il sindaco
      Camillo Garavini, il quale con la solita veemenza oratoria da comizio e
      direi quasi come un ossesso, così arringa la folla: Compagni!
      Lavoratori! Finalmente Vittorio Emanuele è caduto! Finalmente è caduto
      l'odiato governo della borghesia! Finalmente comandiamo noi! Siamo noi ora
      i padroni della situazione e del governo! Andate nelle case, tirate in
      pieno petto alla borghesia, ecc. ecc. Risponde un'eco fragorosa di
      battimani e un urlo assordante: Bene!! Bene!! Evviva la Rivoluzione!
      Abbasso la borghesia! (Chi scrive queste memorie si trovava ad origliare
      dietro le persiane della canonica e perciò si vedeva ed udiva ogni cosa).
      
       
      Parla poi un
      secondo oratore, ma brevemente, e finalmente da tutta la massa del popolo
      si ode questo grido terrorizzante:  
      Alla stazione! Alla stazione!
      
       
      Come un'orda di
      selvaggi che non ha né leggi né freno, si lanciano di corsa alla
      stazione, si impadroniscono degli appositi ordigni e si danno a smontare
      le guide della ferrovia sul ponte di ferro sul Senio e le gettano in
      fondo al fiume; poi colle torcie a vento accese, incendiano e devastano
      parte della stazione ferroviaria.
      
      
      
       
       
      
       
      L'assalto alla
      chiesa parrocchiale
      
       
       
      
       
      Era circa l'ora di
      notte di quel dì, 10 giugno: io stavo cenando assieme a mia sorella
      quando, d'un tratto, una bambina si arrampica sulla finestra e, con occhi
      sbarrati dal terrore, grida: Signor Rettore vengono, vengono!!
      
       
      Con grida ed urla
      selvaggie, tenendo in mano le torcie a vento accese, sottratte alla
      stazione, correndo all'impazzata, si avanzano le belve umane, precedute,
      come sempre, dal solito stuolo di ragazzi e si arrestano davanti alla
      porta laterale della chiesa cominciando una fitta sassaiuola contro i
      cristalli della canonica.
      
       
      Non si curano di
      chiedere le chiavi, né impongono al parroco di aprire la porta, ma
      afferrato un grosso palo telegrafico, con esso danno colpi tremendi, a
      guisa di ariete, sopra la porta e questa, dopo ripetute percosse,
      scricchiola, cede e si spalanca.
      
       
      Un urlo di gioia
      selvaggia! Oh Dio! Cade il cuore, vacilla la mente, trema la penna nel
      dover descrivere la scena spaventosa e veramente macabra!!  
      Dov’el clù
      cmanda! Dov'el ctù cmanda!  (dov'è colui che comanda)  
      e si lanciano di
      corsa alla ricerca delle Sacre Ostie per farne scempio: ma non le trovano,
      perché il Santissimo, in precedenza, era stato tolto e portato in una
      camera superiore della Canonica.
      
       
      Allora si dà mano
      al petrolio: si entra in sacrestia e si incendiano tre grandi armadi pieni
      di arredi sacri e il banco che serve ai sacerdoti per appararsi e gli
      sgabelli e le porte (cinque solo in sacrestia) e gli apparati sacri.
      
       
      In Chiesa intanto
      si incendiano le grosse porte esterne, i confessionali, e si appicca il
      fuoco a un gran mucchio di sedie che erano del sagrestano, circa 160. I
      magnifici banchi di noce massiccia vengono ammucchiati fuori della porta
      laterale; si spacca a furia di colpi il coro di legno noce e si fa una
      grande catasta cui si appicca il fuoco producendo un'alta colonna di fumo
      e di fuoco sicché le fiamme furono scorte persino dalla vicina Fusignano.
      
       
      Io intanto solo,
      solo (giacché tutti i sacerdoti erano corsi alle loro case) con la
      disperazione e col pianto e col terrore stavo osservando la tremenda scena
      guardando di tanto in tanto, di dietro alle persiane della finestra della
      Canonica e vidi... vidi... il bel S. Giuseppe, il magnifico capolavoro
      degli antichi Graziani di Faenza, essere gettato tra le fiamme divoratrici;
      vidi il bel S. Antonio, immagine tanto cara e tanto venerata dagli
      Alfonsinesi e l'Addolorata, pure degli antichi Graziani, subire la stessa
      sorte; la statua della B. V. di Lourdes, di S. Francesco Saverio, della B.
      V. del Rosario gettate tutte entro il rogo immenso per essere ridotte in
      cenere.
      
       
      Gran parte del
      popolo assisteva muto e stupefatto, in lontananza, al triste bagliore
      delle fiamme, all'orrenda scena e in cuor suo fremeva senza però osare di
      affrontare i ribelli.  
      E i Carabinieri? E
      il Delegato di P.S.? Meglio non parlarne. Il Delegato fu portato
      semisvenuto e colpito da dissenteria all'ospedale e i Carabinieri
      ritennero prudente, sebbene fossero in tredici, coi cavalli, asseragliarsi
      in caserma e barricare le porte.
      
       
      Sono le 11 di
      notte. Si odono le urla selvaggie e le risa e le orribili bestemmie e le
      imprecazioni e il tonfo delle statue fatte precipitare dall'alto delle
      loro nicchie e lo scricchiolio delle tavole infrante condannate
      all'orribile distruzione.
      
       
      Il fuoco intanto
      ardeva in Chiesa, in diversi punti: sul sagrato della Chiesa, e questo era
      il rogo maggiore, ardeva in sacrestia e anche nel cortile interno. Il
      sinistro bagliore delle fiamme che crepitando salivano al cielo, l'acre
      odore delle sostanze resinose sparso per l'aria, il nero fumo che a guisa
      di colonna sorpassava le più alte vette e ripiegava ondeggiando spinto
      dal vento, davano alla scena un senso di mestizia e di terrore, sicché la
      fantasia, riscaldata da tante e tante paurose visioni, accresceva
      maggiormente l'orrore di quella notte veramente infernale!!
      
       
       
      
       
      Assalto alla
      canonica
      
       
       
      
       
      Intanto, come
      purtroppo si temeva, alcuni stavano preparando l'assalto alla Canonica e
      infatti, con un grosso palo di ferro, si tenta di far leva e di far
      saltare la porta. Allora si odono ben distintamente le voci di alcune
      buone amiche della mia sorella Maria.  
    Maria!
    Maria! Salvati! Maria vieni giù! E questo grido era ripetuto a più
    riprese. Ma essa sebbene con la disperazione nell'animo e col terrore nel
    volto, andava ripetendo al fratello:  
    No, no, no, se non vieni anche tu!
    
     
    Allora
    prevedendo una situazione insostenibile, sebbene a malincuore fu decisa la
    fuga e furono prese tutte le precauzioni. Entrai nella piccola stanzetta ov'era
    nascosto, come un prigioniero, Gesù Sacramentato: aprii la porticina del
    tabernacolo, ne tolsi la Sacra Pisside che era molto grande e la Sacra Teca:
    riposi ogni cosa nella tasca interna della veste e per non far scorgere le
    traccie di ciò che tenevo sul petto, mi gettai una veste ripiegata sulla
    spalla sinistra e discesi le scale.  
    Pensai
    alla fuga di Gesù in Egitto cercato a morte dal crudele Erode. Oh! in quel
    momento, lo confesso, piansi di commozione. Pensai (e lo ricordo benissimo)
    al buon giovinetto Tarcisio, là nelle catacombe romane, che stringendo al
    petto il prezioso tesoro, si avviava frettoloso per le vie di Roma, non
    senza un giusto timore che Esso cadesse fra le mani sacrileghe dei
    persecutori di Cristo. Tutto questo passò nella mia mente in un baleno:
    feci un raffronto con la mia situazione e mi disposi ad affrontare anche la
    morte. Ho forse esagerato? Chi conosceva le intenzioni di quei forsennati?
    Quali erano i loro progetti, quali le loro idee?
    
     
    Aprii
    con circospezione la porta davanti: misi fuori il capo per spiare... e
    mandai innanzi la sorella la quale in un istante si trovò tra le braccia
    delle fide amiche.
    
     
    Fu caso o fu tattica?
    Vicino alla porta non vidi anima viva. Allora uscii io pure: richiusi pian
    piano dietro di me la porta... ma... non avevo fatto neppure un passo, ecco
    scorgo due uomini i quali corrono verso di me: mi afferrano uno per un
    braccio ed uno per l'altro [.... ] e, senza proferire parola, mi conducono a
    viva forza nell'andito della casa delle sorelle Lanconelli e mettono il
    catenaccio alla porta. Io mi vidi perduto e pensando essere giunta l'ultima
    mia ora, piangendo e singhiozzando, gridai:  
    Lasciatemi la vita!
    Lasciatemi la vita! Che cosa vi ho
    fatto? E quei due: Ora stia qui, adesso andiamo a prendere gli ordini del
    Comitato rivoluzionario.
    
     
    Uscirono
    per un'altra porta e scavalcarono un muro. In quell'andito regnava un buio
    perfetto: la mente era smarrita, il cuore mi batteva fortemente. Furono
    momenti che non si possono descrivere.
    
     
    Ad un
    tratto ecco aprirsi una porticina oscura, e come un'ombra, apparire un
    giovane alto e tarchiato. Che cosa fa qui signor Rettore? mi dice. Venga,
    venga con me, non abbia alcun timore.
    
     
    Era
    certo Domenico Corbelli: il mio salvatore! Mi condusse per oscuri sentieri e
    per vie deserte fino alla casa di d. Serafino, distante circa 400 metri.
    Quivi fui accolto con la solita gentilezza e cordialità e, fatto un cenno
    al sacerdote che subito intuì, fu portato il Santissimo Sacramento nella sua
    camera da letto e rinchiuso in un armadio, dove rimase 17 giorni, a tutti
    ignoto: noto soltanto ad alcune pie donne le quali di tanto in tanto si
    recavano in pio pellegrinaggio a far visita al S.S. Sacramento.
    
     
    Non
    molto mi fermai in quella casa: appena messe in salvo le Sacre Specie, volli
    ad ogni costo far ritorno alla mia Canonica deciso a vivere o morire presso
    la mia Chiesa, piuttosto che vilmente disertare ed anche per vedere e
    constatare lo scempio che si era fatto della casa di Dio.
    
     
    Era di
    poco passata la mezzanotte e quasi tutti se ne erano andati al riposo; pochi
    restavano ancora i quali, appena mi videro e certi di essere da me
    riconosciuti, vigliaccamente si profersero di fare opera di spegnimento,
    mentre poi essi medesimi erano di quelli che dianzi avevano appiccato il
    fuoco. Ricordo benissimo che io, sia perché li ritenni veritieri, sia per
    cattivarmi l'animo loro, ebbi il pensiero di offrire loro alcuni fiaschi del
    mio vino migliore.
    
     
    La mia
    sorella, non so come, saputo del mio ritorno in Canonica, me la rividi al
    fianco. Ritornato il silenzio (non si udiva che il crepitare delle fiamme),
    tutto solo, decisi di fare una ricognizione in chiesa, Mio Dio!! Nella
    sacrestia tutto l'intonaco dei muri era caduto: le finestre e le porte e i
    tre grandi armadi erano già ridotti in cenere e il braciere, senza
    esagerazione era alto pili di mezza gamba, in modo che per passare fu
    giocoforza fate una corsa a gambe levate. Con in mano una candela accesa, al
    sinistro bagliore delle fiamme che ancora qua e là ardevano, tenendo ben
    tappata la bocca per non essere soffocato dal fumo, cautamente mi avanzai.
    
     
    Il busto
    in gesso del defunto parroco d. Ricibitti era senza naso, senza un occhio,
    senza un orecchio. Qualche lampada a terra tutta contorta, qualche brano di
    statua, qualche candelliere spezzato, croci e immagini a terra. I cancelli
    in stile gotico della graziosa cappellina di Lourdes affissi al muro erano
    spaccati. Avanti ancora: Mio Dio!! Che si vede là in terra? la statua di S.
    Luigi era stata decapitata e il tronco giaceva al suolo senza testa!  
    (Mi è
    sempre stato affermato, anche dal cappellano d. Serafino, che il carnefice
    di quel povero santo fu il sig. [...], il quale l'aveva a morte con lui
    perché il santo della purezza).
    
     
    Fatta
    questa rapida ricognizione, ritorno alle mie stanze e mi pongo alla finestra
    dietro le persiane per spiare e per osservare: era poco piu' dell'una dopo
    mezzanotte. Non si vedeva anima viva: regnava un silenzio sepolcrale! Giù
    nella piazza che fiancheggia la chiesa, ardevano ancora i resti di quello
    che fu il Circolo monarchico. Scorgo però in lontananza avanzarsi due
    ombre: chi sono?... sono due carabinieri che vengono dalla caserma: si
    avanzano cautamente tenendo il moschetto imbracciato, ossia in posizione di
    sparo: vanno pian piano fino al rogo, si fermano un istante... danno uno
    sguardo intorno... e poi di nuovo alla caserma.
    
     
    Poco
    dopo, nel cupo silenzio, interrotto soltanto dal continuo abbaiare dei cani,
    scorgo altre due ombre avanzarsi verso la Canonica: non fui capace di
    riconoscerli... Andiamo sul campanile, dice l'uno di essi, andiamo a suonare
    il campanone. Mi corse un brivido per le vene. Mi precipito allora ad
    avvertire la sorella che era andata a riposare, prevenendola ed
    assicurandola a non aver paura: era tanto terrorizzata! E le campane
    cominciano a suonare nella notte triste e lugubre, non già per invitare i
    fedeli alla preghiera e al sacro tempio, ma per avvertire che i
    rivoluzionari erano essi  padroni del campo!!
    
     
    Quel
    suono insolito nel cuore della notte, quei rintocchi, quel disordinato
    scampanio metteva terrore in ogni cuore e presagiva quello che sarebbe
    avvenuto nella seguente giornata.
    
     
    Nella
    vana speranza fossero già sazie del loro bottino, ma pur sempre dubitando,
    scendo di nuovo nella Chiesa: passo di corsa sul braciere ardente della
    sacrestia, infilo la scala a chiocciola che mena a uno stanzino superiore e,
    trovate tutte le bandiere delle Confraternite, ricamate in oro e seta,
    ancora intatte, le porto in Canonica. Ritorno sul luogo, afferro con ambe le
    braccia tutti gli apparati di seta che restano e giù a precipizio per le
    scale, passando di nuovo fra il fumo asfissiante e il braciere di fuoco
    della sacrestia e tutto metto in salvo.
     
    
      
       
      Già
      è spuntata l'alba: comincia ad affacciarsi qualche brutto ceffo e spiando
      dalla porta dice al parroco: Va pur là, porta pure dentro... fra poco
      ritorniamo a fare il resto.
      
       
      Infatti
      non trascorre molto tempo che la folla comincia ad ingrossare, e varcata
      la soglia della porta, che avevo alla meglio sbarrata, si prepara a
      sterminare il resto.
      
       
      Io
      sono in mezzo a loro in Chiesa e nessuno mi tocca: solo quando mi chino
      per raccogliere da terra una lampada, uno dei quei brutti ceffi mi dice in
      tono arrabbiato: Lei non deve prendere niente, dobbiamo distruggere
      tutto il resto.
      
       
      Prima
      di allontanarmi volle il caso che io assistessi ad una scena che ancor
      oggi, dopo tanti anni, ho presente alla fantasia e ancora mi fa tremare di
      orrore.
      
       
      Vi era
      all'altare del S. Sacramento un magnifico Crocefisso intagliato in legno,
      opera pregevole ed artistica e venerato dai fedeli come un simulacro
      miracoloso, che veniva scoperto soltanto raramente nelle pubbliche calamità,
      ed essendo coperto da una tendina, era rimasto nascosto ed inosservato.
      Ebbene (fremo d'orrore) vidi i due fratelli [....] afferrarlo uno per i
      piedi e l'altro per la testa e portarlo fuori sul rogo che ancora ardeva,
      dopo averlo coperto di dileggi e di scherno. Questa, per me, fu l'ultima
      cosa cui assistetti, poi rientrai nel mio ufficio.
      
       
      Tutto
      ciò che sto narrando sembrerebbe inverosimile e fantastico, se io stesso
      non avessi assistito a queste scene e non fossi stato testimone oculare.
      
       
      Era
      rimasto intatto ancora, perché inosservato, il bell'organo costruito
      dalla ditta Strozzi di Ferrara: in un baleno un gruppo sale
      nell'orchestra, con bastoni si comincia a percuotere la tastiera d'avorio
      e il meccanismo interno, riducendo il tutto ad un informe groviglio di
      ferri, poi si tolgono dal loro posto le magnifiche canne di stagno della
      facciata e poi quelle di piombo e di zinco (in tutto circa 800) e si danno
      ai bambini, i quali, suonando a tutto fiato, corrono nella piazza e
      incomincia allora quella musica barbara, quella nenia che i poveri
      Selvaggi dell'Africa sogliono fare durante le loro feste cannibalesche.
      
       
       
      
       
      Assalto
      alla canonica
      
      
      
       
      Sono
      circa le otto del mattino del giovedì, festa del Corpus Domini. Tutta la
      piazza è rigurgitante di uomini: i messi dei rivoluzionari avevano
      battuto per lungo e per largo tutta la campagna dicendo:  
      Se non verrete in piazza ad assistere allo spettacolo, noi appiccheremo il
      fuoco alle vostre case e ai vostri fienili. Potete quindi immaginare se
      non erano intervenuti.
      
       
      Ad un
      tratto, mentre io e la sorella stavamo rinchiusi entro l'ufficio
      parrocchiale, si odono dei colpi tremendi alla porticina che comunica con
      la Chiesa: i colpi si ripetono e la porta si spalanca. Appena entrati quei
      forsennati afferrano un magnifico armonium della ditta Tubi, giunto da
      pochi giorni da Lecco, e senz'altro lo gettano nelle fiamme: tutto quello
      che prima era stato con tanta fatica salvato, viene dato in pasto alle
      fiamme: libri, scansie, cappelli, vesti personali, tavolini, finestre, due
      casse piene di candele, ombrelli, registri parrocchiali dei morti, dei
      battezzati, dei cresimati e dei matrimoni. Una cosa soltanto non viene
      consegnata al fuoco, ossia il tesoro della B. V. di Lourdes consistente in
      molti pregevoli oggetti d'oro, catene, braccialetti, orecchini, anelli,
      orologi d'oro, fermagli ecc.: questi oggetti vengono spartiti fra uomini e
      donne.
      
       
      Una
      volta spalancata la porta di casa e degli appartamenti privati, non v'era
      più nulla a sperare e non restava che tentare di nuovo la fuga. Infatti
      ambedue piangendo, abbandonammo ogni cosa (ricordo che mi fu gettato
      contro un tizzone ardente) e cercammo uno scampo presso due famiglie,
      accolti con cortese ospitalità. Quello che poi accadde è più facile
      immaginare che descrivere: saliti sul campanile continuarono quasi tutta
      la giornata a suonare a distesa le campane, finché, stanchi del suono, si
      tentò di spaccarle e, non riuscendovi, furono staccati i battagli e
      gettati entro il pozzo della canonica; pure nel pozzo furono gettati i due
      ombrelli pel S.S. Sacramento, candellieri, pietre, legni e fu divelto
      persino il davanzale del pozzo stesso e infine con travi sporgenti ne fu
      chiusa l'apertura. La malignità dei ribelli giunse persino a spezzare le
      pietre sacre degli altari: armati di pistole e di fucili spezzarono tutti
      i cristalli, in numero di circa 300, del coro, dei lunettoni, e del teatro
      parrocchiale, e profanarono la Chiesa con atti schifosi ed orrendi e
      sacrileghi. Con le loro pistole presero a bersaglio i busti marmorei dei
      poveri morti e la balaustra di marmo dell'altare maggiore che ancora ne
      porta le cicatrici.
      
       
      Tutto
      il giorno fecero gozzoviglia e finalmente, non rimanendo più nulla da
      distruggere, presero di mira la protettrice del paese, la B. V. delle
      Grazie. E qui la B. V. si rivelò con un vero prodigio.
      
       
      Sopra
      l'ancona del coro, ad una altezza di circa cinque metri, circondata da una
      bella cornice, era collocato un quadretto di terracotta raffigurante la
      B. V. delle Grazie col Bambino. I rivoluzionari salgono sui gradini dell'altar
      maggiore e cominciano a tirare colpi di sasso contro l'immagine: il
      quadretto, appeso ad un cordoncino, dondola, ma non si spezza e non cade.
      Visti inutili i sassi, allora danno mano al fucile:
      
      si spara,
      il quadretto dondola ancora, ma non si spezza. Visto inutile ogni
      tentativo, si abbandona l'impresa e il quadretto, a loro dispetto, rimane
      fermo al suo posto.
      
        
      Oh!
      Vergine Santa: o cara nostra protettrice: le anime buone, inorridite da
      così orrenda strage di sacre immagini e di tante cose consacrate al culto
      di Dio avrebbero voluto un segno di vendetta divina e chiedevano che
      almeno una mano di quei sacrileghi fosse rimasta inaridita e quasi quasi
      ne furono scandalizzati e ne fu scossa la loro fede, ma ecco che Tu, o
      Madre buona, con un mirabile prodigio, con un atto così significativo hai
      voluto vendicarti dando chiaramente a conoscere che Dio non vuole la morte
      del peccatore, ma che si converta e viva, e ancora oggi Tu sola, o unica e
      cara immagine, scampata cosi mirabilmente a tanto sterminio, Tu sola sei
      rimasta a perpetuo testimonio dell'orrenda rovina e le due corone d'oro
      poste sul tuo capo e del Santo Bambino per mano del defunto mons. Bacchi
      il di 8 settembre 1916, sono là ad attestare ai posteri che invano si
      lotta e si guerra contro Dio!
      
       
      Se
      qualcuno entrando nella chiesa di Alfonsine percorre la navata sinistra, a
      metà circa della medesima potrà osservare un quadretto di legno
      scolpito, il quale rappresenta un santo cappuccino in atteggiamento
      devoto, con la corona in mano e la bisaccia che gli pende davanti e di
      dietro a mo' dei frati questuanti. Quella immagine ha una storia
      abbastanza significativa e che dimostra, accanto alla cattiveria,
      l'ignoranza, l'aberrazione del povero popolo quando è mal condotto dai
      suoi capi che lo guidano.
      
       
      Mentre
      ferveva con tanto accanimento la distruzione di ogni cosa sacra, fu veduto
      un uomo con un'asta di ferro, colpire l'immagine per spezzarla e
      distruggerla: ripete i colpi (che ancora sono ben visibili) e sta per
      atterrarla, quando arriva di gran corsa un altro il quale, con fare
      disperato gli dice:  
      Ma cosa fai? - Che faccio? - risponde l'altro meravigliato. Ma non vedi
      che è S. Andrea? Se S. Andrea apre il sacchetto degli accidenti, non
      siamo rovinati?  
      (Il dialogo avvenne in romagnolo:
      
      Se sant'Indrei l'arves e malet da i azident, an sen arvinè). Così il
      quadretto fu salvo ed è tutt'ora visibile.
      
       
      Frattanto
      fuori, nel piazzale della Chiesa, si commettevano sempre maggiori oscenità.
      Avreste veduto qualcuno in piazza che, per dileggio, si metteva una cotta
      e una stola da sacerdote, e prendendo in mano una croce faceva atto di
      benedire e poi gettava quel simbolo nel rogo tra le risa dei compagni.
      
       
      Fu
      veduto un tale prendere in mano il magnifico ostensorio d'argento, di gran
      valore e, ghignazzando, fare atto di benedire e gettarlo nelle fiamme.
      Furono veduti alcuni colpire alcune sacre immagini con armi da fuoco e
      gettarle poi nel braciere; altri vestirsi dei camici, delle cotte e delle
      stole e le donne, sì anche le donne non furono estranee, portar via e
      nascondere sotto le vesti, camici e tovaglie da altare e biancheria d'ogni
      sorta.
      
       
      Mentre
      queste cose si compivano nella Chiesa e nella Canonica, fuori avvenivano
      altre cose che la mente rinuncia a descrivere tanto appaiono inverosimili.
      
       
      Qualcuno
      potrebbe obbiettare: Ma che facevano là dentro quei 13 carabinieri a
      cavallo? Mistero. Essi pensarono bene di barricarsi in caserma, mentre il
      popolaccio, armato d'ogni sorta di armi, di pistole, di pugnali, di
      rivoltelle, di fucili, andava gridando sotto la caserma stessa: Ragazzi,
      fra poco veniamo anche da voi e vi conceremo per le feste. Furono veduti i
      carabinieri, mentre il fornaio doveva entrare per portar loro il pane,
      aprire il portone della caserma, ma col fucile imbracciato e scaglionati
      in modo, stando parte in piedi e parte in ginocchio, da poter, in caso di
      invasione fare una scarica sicura e micidiale, con una cassa di munizioni
      accanto. 
      
      
       
      Il 
      comunismo
      
      
      
       
      Il
      vero comunismo fu messo in pratica ad Alfonsine in tutto il senso della
      parola, altro che in Russia! Ma ahimé!... ebbe la durata di pochi giorni
      soltanto.  
      I
      rivoluzionari, ormai padroni del campo, senza la minima resistenza da
      parte dei cittadini che allibiti e terrorizzati si erano asseragliati in
      casa, chiudendo porte e finestre, requisirono carri e bestiami dai
      contadini (fra questi vi fu anche il colono della parrocchia che abita in
      via Borse) e li obbligarono a seguirli: e come ubbidivano! Guai se
      avessero opposto un rifiuto!  
      Armati
      di tutto punto e seguiti dai carri bussarono dapprima dal sig. Violani
      Sante e gli intimarono di consegnare circa un centinaio di quintali di
      grano e requisirono pure la sua bella automobile Fiat della quale si
      servirono i capi per scorazzare a loro piacimento, per dare ordini e
      comunicare coi paesi vicini incitandoli alla rivolta.  
      Poi si
      recarono presso il sig. cav. Bruto Marini, giunto la sera innanzi da Roma
      in automobile, il quale, al loro appressarsi, non solo non oppose
      resistenza ai ribelli, ma ordinò ai suoi dipendenti che spalancassero le
      porte e li ricevette a braccia conserte. Anche qui fecero bottino
      abbondante e specialmente fecero copiose libagioni. Indi si recarono
      presso la sig. Carolina Mirri, sul ponte nuovo, bussarono alla porta e,
      appena aperta, la signora disse loro: Che cosa cercate? Ci ha mandato il
      Comitato - rispose un tale- a caricare tutti i pezzi di maiale. E lì'...
      salami, prosciutti, ed altri generi in abbondanza.
      
       
      Andarono
      poi dal sig. Ricci Antonio, bottegaio, e requisirono armi, benzina,
      cartuccie da pistola, da fucile. E chi paga? - disse il sig. Ricci.
      Scrivete tutto e mettetelo a conto del Comitato e del Governo nuovo, gli
      fu risposto.
      
       
      Il
      ramaio Stefano Grazioli dovette dare tutte le catene di ferro che
      servirono poi a sbarrare le strade.
      
       
      N.B. -
      Mi preme far notare che di tutti questi fatti che sto narrando io non fui
      testimone oculare, ma li appresi in seguito da persone degne di fede:
      senza dubbio qualche inesattezza vi sarà infallantamente.
      
       
      Si
      recarono poi presso il Sig. Anselmo Alberani, nella via Reale, verso il
      quale avevano un odio veramente mortale, e qui compirono atti veramente
      briganteschi. Aperte le porte del palazzo, il sig. dott. Anselmo fu preso,
      circondato da una turba di arrabbiati rivoluzionari; uomini e donne, gli
      fu puntata al petto una pistola e sopra il suo capo un giovane teneva
      sospesa un'accetta: fu perquisito, gli furono tolti i denari, fracassati
      tutti i mobili della casa e specialmente della camera matrimoniale, e
      portato via quanto vi era di commestibile, anche la pentola che bolliva
      sul fuoco.
      
       
      Tutto
      questo ben di Dio fu caricato sui carri e trasportato nella pubblica
      piazza dove, terminata la requisizione, incominciò la spartizione del
      bottino al grido di «Viva il Comunismo! Viva la Rivoluzione! Oh se
      durasse sempre così' ».  
      E fu
      udito anche il grido: « Dman anden a test » (domani andiamo a
      teste).  
      Infatti
      in quei giorni circolava la voce che il Comitato rivoluzionario avesse
      redatto una lista di cittadini cui doveva essere mozzato il capo. Ed era
      uno spettacolo veramente singolare e comico assieme vedere quella folla
      andarsene con sacchi sul dorso, con prosciutti sotto le braccia e pane e
      vino ed ogni ben di Dio. Anche un ragazzetto, soprannominato Baratieri,
      orfano di padre e di famiglia veramente povera, che di giorno faceva
      servizi al parroco, anch'egli chiese di andare a prendere la sua parte ed
      infatti si ebbe un bel prosciutto.
      
       
      Il
      Comitato rivoluzionario risiedeva in permanenza e dava ordini che erano
      seguiti a meraviglia. Innanzi tutto aveva ordinato la requisizione, in
      tutte le case, di tutte le armi e si dovettero cedere, sebbene a
      malincuore, tutti i fucili, pistole e rivoltelle ecc. Una volta disarmati
      i cittadini non v'era più nulla a temere. Furono sbarrate le vie con
      grosse catene e in capo ad ogni via stavano due guardie rivoluzionarie col
      fucile alla spalla con ordine di intimare « alto là » a chiunque non
      avesse il lasciapassare del Comitato.
      
       
      Il
      sacrestano della chiesa, Patuelli Antonio, ottenne anch'egli il suo
      lasciapassare che io stesso ebbi in mano e che era così' concepito:
      
       
      « Si
      rilascia il seguente lasciapassare al sig. Antonio Patuelli perché non
      sia toccato nella sua roba e nella sua famiglia. Firmato: il Comitato
      rivoluzionario », e seguivano i nomi.
      
       
      Con
      questo triste bilancio di delitti popolari stava terminando la giornata
      del giovedì, festa del Corpus Domini.
      
       
      Ospitato
      gentilmente dalla famiglia Bendazzi, presso la quale ebbi ogni conforto,
      verso sera volli far ritorno alla mia residenza. Mi premeva assai
      constatare quale sorte avevano corso le mie personali suppellettili di
      casa e infatti solo, solo mi avviai verso la piazza.
      
       
      In
      prossimità delle scuole comunali vidi venirmi incontro il capo dei
      rivoluzionari, Mossotti Ferruccio. Era rosso in viso, aveva gli occhi
      fuori dell'orbita che sprigionavano scintille di fuoco, procedeva
      dondolando
      la sua persona a destra e a sinistra: l'ho ancora presente alla mente: si
      fermò, mi diede una terribile occhiata e passò oltre.
      
       
      Giunto
      che fui presso il Caffé degli anarchici, detto il Caffé della Nicolina,
      scorsi una moltitudine di persone che stava ai tavolini a godersi il
      fresco, ed a contemplare la scena sorbendo il caffé e centellinando
      bicchierini di liquori con un'allegria indescrivibile. Appena mi videro
      fecero un gesto di sorpresa e ricordo uno che disse: Bé! non è mica
      fuggito! Ma se è ancora qui!, e tutti gli occhi si appuntarono su di me.
      
       
      Io
      tirai innanzi per la mia strada, colpito dall'orrendo spettacolo che si
      presentava ai miei occhi: era sogno o realtà? Il grande Palazzo
      Municipale, posto di fronte alla Chiesa, era tutto in fiamme: il tetto
      sfondato, tutte le finestre altrettante bocche di fumo e di fuoco;
      l'orologio pubblico era rimasto penzoloni, non esistevano che i quattro
      muri esterni affumicati e le rovine fumanti, e nella grande immensa
      voragine di fuoco in un baleno rimasero distrutti tanti oggetti di valore
      e di pregio. Si poté salvare soltanto lo Stato Civile.
      
       
      Giunto
      che fui alla Canonica, mi vidi di nuovo al fianco la sorella. Pensavo di
      riposare almeno la mia notte in pace, stanco com'ero per la lunga veglia e
      dalla continua agitazione dell'animo per le emozioni provate, ma era
      destino che ancora non dovessi aver pace.
      
       
      Mentre
      si era sull'imbrunire, mi si presentarono alcune persone per dirmi: Signor
      Rettore, per carità, fugga, fugga e fugga presto, perché è già stato
      stabilito di far saltar in aria la Canonica con le bombe. Io risposi a
      costoro che ero deciso in tutti i modi a non allontanarmi dalla mia casa,
      qualunque cosa accadesse... e la mia sorella, a tale annunzio, potete
      immaginare, a piangere e a supplicare.
      
       
      Poco
      dopo altre persone, e persone veramente rispettabili, cui si poteva
      prestar fede, vennero presso di me e di nuovo mi raccomandarono, anzi mi
      scongiurarono a lasciare la Canonica, perché nella notte avrebbero fatto
      saltar in aria ogni cosa.
      
       
      Allora
      io decisi di passare la notte altrove, non già per timore di mali
      peggiori (ormai io ero a tutto rassegnato) ma per non far morire di
      passione la sorella la quale, già febbricitante e quasi morta dallo
      spavento, ormai non si reggeva più in piedi.
      
       
      Ricordo
      che nell'allontanarmi dalla piazza, passando avanti alla bettola dei
      Minguzzi (detta dei Ciconi), uno dei figli, Antonio, mi seguì per spiare
      ove andavo a rifugiarmi ed io dovetti fare parecchi giri e parecchie
      svolte per fargli perdere le mie traccie. Come infatti così avvenne.
      
       
      Passai
      la notte a Fusignano presso la mia famiglia e al mattino, innanzi giorno,
      presi la via per Faenza: mi premeva assai mettere il Superiore al corrente
      di tutto l'accaduto e infatti, accompagnato da
      
      d. Michele Pirazzini, ebbi tosto udienza da mons. Bacchi. Al racconto dettagliato che
      gli feci di quanto era accaduto nella Chiesa di Alfonsine, alla narrazione
      dei patimenti sofferti, delle cose avvenute, che nessuno mai potrà
      immaginare nella loro realtà, egli ne fu talmente commosso che, senza
      proferire parola, si alzò, andò nella stanza attigua, ov'è la cappella
      vescovile; e pregò e pianse. Ritornato, mi disse parole paterne di
      conforto, mi suggerì alcune raccomandazioni e alcuni consigli e terminò
      dicendo: Dite pure la S. Messa anche con la Chiesa senza porte, anche
      sugli altari fumanti: che il popolo veda lo scempio che si è fatto della
      vostra Chiesa!
      
        
      Frattanto
      nella giornata seguente avvenivano fatti degni di essere ricordati. Si
      tenne un pubblico comizio in piazza e il sindaco Camillo Garavini fu udito
      (anche il sottoscritto sentì bene) gridare in atteggiamento disperato: Lo
      sciopero è terminato: siamo stati traditi!
      
       
      Queste
      parole mi ridonarono la vita. Appena seppi che le violenze erano cessate,
      dimenticando i passati patimenti, corsi, mi precipitai nella piazza e
      aiutato da d. Serafino Servidei, giunsi in tempo a salvare dalle fiamme il
      grande ponte di legno che sta fissato sul retro dell'altar maggiore, meno
      due colonne; il qual ponte ancora ben visibilmente conserva le traccie
      delle bruciature, e salvai tutte le ferramenta delle porte e altri
      oggetti. Più fortunato fu il sig. Antonio Martini il quale, rovistando
      fra le ceneri, rinvenne il piedestallo dell'ostensorio d'argento, ma in
      cattive condizioni e in parte amalgamato con altri metalli. Furono pure
      sottratti al fuoco alcuni registri dei battesimi fra i quali,
      fortunatamente, il volume ove è registrato l'atto di battesimo del poeta
      Vincenzo Monti. Uno dei vasetti degli Oli Santi fu trovato in un campo a
      Villanova di Bagnacavallo e riportato alla chiesa di Alfonsine.
      
       
      La
      fama di questi fatti erasi già sparsa in ogni luogo: cominciavano ad
      affluire da ogni parte automobili di curiosi che venivano dai più lontani
      paesi e, soprattutto, corrispondenti di giornali i quali davano l'assalto
      a chiunque, avidi di notizie per comunicarle ai giornali.
      
       
      Giungevano
      forestieri i quali chiedevano ansiosi: Ma dov'è quella Madonnina? Quella
      immagine incolume dov'è? Giungevano pure autorità civili d'ogni specie:
      giunge pure il deputato Vittorio Vinai il quale promise al parroco di
      interessarsi presso il Governo per il risarcimento dei danni e non mancò
      neppure il Procuratore del Re in persona per l'esame dei testimoni. Mons
      Bacchi, che il 24 dello stesso giugno era a Fusignano, non credette o
      meglio non ardì andare ad Alfonsine.
      
       
      Improvvisamente
      un bel mattino, mentre ancora si era in trepidazione e nell'incertezza, si
      udì una voce: La cavalleria! La cavalleria! Era la nostra salvezza.
      Giunsero infatti ben 200 soldati di cavalleria, comandati dal colonnello
      Riccordi, il quale, senz'altro, alloggiò i soldati in chiesa e prese il
      comando supremo.
      
       
      Accadde
      allora uno spettacolo veramente buffo, veramente degno di scena teatrale.
      Avreste veduto quei coraggiosi rivoluzionari, che avevano avuto tanta
      audacia e tanto accanimento nel lottare ed inveire contro innocue immagini
      di Madonne e di Santi e contro inermi cittadini lasciati in abbandono da
      chi avrebbe dovuto difenderli, darsi alla fuga più vergognosa, saltando
      fossi, scavalcando muri e siepi e ogni ostacolo! La triste commedia si era
      cambiata in una ridicola farsa. Addio sogni dorati di rivoluzione e di
      comando!! Addio vani sogni di comunismo!! Addio bei sogni di basse
      vendette personali!! Addio bei sogni di passare alla storia come
      leggendari eroi della patria! Lo spettro delle responsabilità, per tante
      enormità commesse in onta alle leggi più comuni della civiltà e della
      fratellanza umana, lo spettro del redde rationem si avanzava, lento
      si, ma inesorabile.
      
       
      Oh!
      avreste veduto allora persone rispettabili per la loro condizione sociale
      e per l'ufficio che ricoprivano, in attegiamento di compunzione, venire a
      me davanti, a me, povero prete, che avevo tanto sofferto e dirmi:
      
       
      Signor
      parroco, mi raccomando, faccia opera di pacificazione: predichi bene in
      Chiesa il perdono!
      
       
      Cosi
      ebbero termine le famose giornate della Settimana Rossa, le quali furono
      ispirate e dirette dal famoso anarchico di Ancona, Errico Malatesta.  
      Ritornato
      l'imperio della legge, parte dei colpevoli si rifugiò a S. Marino
      (Camillo Garavini) e in Francia (Gessi, veterinario), parte furono
      rinchiusi nelle prigioni di Ravenna in attesa del giudizio il quale però
      non ebbe luogo per il sopraggiungere dell'immane guerra che travolse
      popoli e nazioni e fece versare tanti fiumi di lacrime e di sangue. 
  
       
        
      
  Il
      municipio di Alfonsine  
 con i segni l'incendio della "Settimana
      Rossa"
       (un 
      click sull'immagine  per vederla ingrandita)
      |