Al mattino, quiete.
Nessun indizio di ribellione. In chiesa fervono i preparativi per la
solenne processione dell'indomani, perciò gli altari sono tutti vestiti
dei migliori e più preziosi arredi sacri: tovaglie con ricchissimi pizzi
ricamati in oro e seta dalle buone suore di S. Chiara di Faenza;
baldacchino pure di seta e oro; pallio dell'altar maggiore, argenteria
ecc.
In sul far della
sera incomincia un insolito movimento in piazza come nei giorni di
comizio: si ode il cupo suono dei corni che chiama a raccolta, la piazza
si affolla di faccie sinistre, corrono i bambini alzando
al cielo
le loro stridule voci, non mancano le donne d'ogni colore politico e già
ascritte anch'esse alle diverse leghe.
Ad un tratto entra
in scena il Comitato rivoluzionario, il quale sta come gruppo serrato in
mezzo alla piazza con a capo il sindaco Camillo Garavini. Un breve
consulto... uno sguardo alla piazza... s'impartiscono ordini secchi... poi
via di gran corsa all'assalto. La posta, il telegrafo e il telefono sono
le prime vittime: si fracassano gli apparecchi, si sale sulle impalcature
di una casa in riparazione e si strappano i fili elettrici. E ben
naturale: si cerca l'isolamento. Indi viene la volta del Circolo
monarchico: forzata la porta con leve e grossi pali, la turba furibonda si
dà all'assalto e al saccheggio. Si videro allora volare fuori dalle
finestre
le immagini del Re Vittorio e della Regina d'Italia, poi sedie, tavolini
di marmo, bottiglie, bicchieri: si vedevano i giovanetti, con un
accanimento
indescrivibile, afferrare bottiglie piene di liquore d'ogni colore e
sbatterle contro le colonne della casa di fronte con gioia così pazza e
con tale ironia che faceva fremere d'orrore e l'aria era talmente satura
di odore alcoolico da non potersi descrivere.
Terminata la
distruzione del Circolo monarchico, la massa del popolo s'accalca
all'entrata del Palazzo Municipale, ove eretto in precedenza un palco, si
apprestano a parlare gli oratori. Primo a prendere la parola fu il sindaco
Camillo Garavini, il quale con la solita veemenza oratoria da comizio e
direi quasi come un ossesso, così arringa la folla: Compagni!
Lavoratori! Finalmente Vittorio Emanuele è caduto! Finalmente è caduto
l'odiato governo della borghesia! Finalmente comandiamo noi! Siamo noi ora
i padroni della situazione e del governo! Andate nelle case, tirate in
pieno petto alla borghesia, ecc. ecc. Risponde un'eco fragorosa di
battimani e un urlo assordante: Bene!! Bene!! Evviva la Rivoluzione!
Abbasso la borghesia! (Chi scrive queste memorie si trovava ad origliare
dietro le persiane della canonica e perciò si vedeva ed udiva ogni cosa).
Parla poi un
secondo oratore, ma brevemente, e finalmente da tutta la massa del popolo
si ode questo grido terrorizzante:
Alla stazione! Alla stazione!
Come un'orda di
selvaggi che non ha né leggi né freno, si lanciano di corsa alla
stazione, si impadroniscono degli appositi ordigni e si danno a smontare
le guide della ferrovia sul ponte di ferro sul Senio e le gettano in
fondo al fiume; poi colle torcie a vento accese, incendiano e devastano
parte della stazione ferroviaria.
L'assalto alla
chiesa parrocchiale
Era circa l'ora di
notte di quel dì, 10 giugno: io stavo cenando assieme a mia sorella
quando, d'un tratto, una bambina si arrampica sulla finestra e, con occhi
sbarrati dal terrore, grida: Signor Rettore vengono, vengono!!
Con grida ed urla
selvaggie, tenendo in mano le torcie a vento accese, sottratte alla
stazione, correndo all'impazzata, si avanzano le belve umane, precedute,
come sempre, dal solito stuolo di ragazzi e si arrestano davanti alla
porta laterale della chiesa cominciando una fitta sassaiuola contro i
cristalli della canonica.
Non si curano di
chiedere le chiavi, né impongono al parroco di aprire la porta, ma
afferrato un grosso palo telegrafico, con esso danno colpi tremendi, a
guisa di ariete, sopra la porta e questa, dopo ripetute percosse,
scricchiola, cede e si spalanca.
Un urlo di gioia
selvaggia! Oh Dio! Cade il cuore, vacilla la mente, trema la penna nel
dover descrivere la scena spaventosa e veramente macabra!!
Dov’el clù
cmanda! Dov'el ctù cmanda! (dov'è colui che comanda)
e si lanciano di
corsa alla ricerca delle Sacre Ostie per farne scempio: ma non le trovano,
perché il Santissimo, in precedenza, era stato tolto e portato in una
camera superiore della Canonica.
Allora si dà mano
al petrolio: si entra in sacrestia e si incendiano tre grandi armadi pieni
di arredi sacri e il banco che serve ai sacerdoti per appararsi e gli
sgabelli e le porte (cinque solo in sacrestia) e gli apparati sacri.
In Chiesa intanto
si incendiano le grosse porte esterne, i confessionali, e si appicca il
fuoco a un gran mucchio di sedie che erano del sagrestano, circa 160. I
magnifici banchi di noce massiccia vengono ammucchiati fuori della porta
laterale; si spacca a furia di colpi il coro di legno noce e si fa una
grande catasta cui si appicca il fuoco producendo un'alta colonna di fumo
e di fuoco sicché le fiamme furono scorte persino dalla vicina Fusignano.
Io intanto solo,
solo (giacché tutti i sacerdoti erano corsi alle loro case) con la
disperazione e col pianto e col terrore stavo osservando la tremenda scena
guardando di tanto in tanto, di dietro alle persiane della finestra della
Canonica e vidi... vidi... il bel S. Giuseppe, il magnifico capolavoro
degli antichi Graziani di Faenza, essere gettato tra le fiamme divoratrici;
vidi il bel S. Antonio, immagine tanto cara e tanto venerata dagli
Alfonsinesi e l'Addolorata, pure degli antichi Graziani, subire la stessa
sorte; la statua della B. V. di Lourdes, di S. Francesco Saverio, della B.
V. del Rosario gettate tutte entro il rogo immenso per essere ridotte in
cenere.
Gran parte del
popolo assisteva muto e stupefatto, in lontananza, al triste bagliore
delle fiamme, all'orrenda scena e in cuor suo fremeva senza però osare di
affrontare i ribelli.
E i Carabinieri? E
il Delegato di P.S.? Meglio non parlarne. Il Delegato fu portato
semisvenuto e colpito da dissenteria all'ospedale e i Carabinieri
ritennero prudente, sebbene fossero in tredici, coi cavalli, asseragliarsi
in caserma e barricare le porte.
Sono le 11 di
notte. Si odono le urla selvaggie e le risa e le orribili bestemmie e le
imprecazioni e il tonfo delle statue fatte precipitare dall'alto delle
loro nicchie e lo scricchiolio delle tavole infrante condannate
all'orribile distruzione.
Il fuoco intanto
ardeva in Chiesa, in diversi punti: sul sagrato della Chiesa, e questo era
il rogo maggiore, ardeva in sacrestia e anche nel cortile interno. Il
sinistro bagliore delle fiamme che crepitando salivano al cielo, l'acre
odore delle sostanze resinose sparso per l'aria, il nero fumo che a guisa
di colonna sorpassava le più alte vette e ripiegava ondeggiando spinto
dal vento, davano alla scena un senso di mestizia e di terrore, sicché la
fantasia, riscaldata da tante e tante paurose visioni, accresceva
maggiormente l'orrore di quella notte veramente infernale!!
Assalto alla
canonica
Intanto, come
purtroppo si temeva, alcuni stavano preparando l'assalto alla Canonica e
infatti, con un grosso palo di ferro, si tenta di far leva e di far
saltare la porta. Allora si odono ben distintamente le voci di alcune
buone amiche della mia sorella Maria.
Maria!
Maria! Salvati! Maria vieni giù! E questo grido era ripetuto a più
riprese. Ma essa sebbene con la disperazione nell'animo e col terrore nel
volto, andava ripetendo al fratello:
No, no, no, se non vieni anche tu!
Allora
prevedendo una situazione insostenibile, sebbene a malincuore fu decisa la
fuga e furono prese tutte le precauzioni. Entrai nella piccola stanzetta ov'era
nascosto, come un prigioniero, Gesù Sacramentato: aprii la porticina del
tabernacolo, ne tolsi la Sacra Pisside che era molto grande e la Sacra Teca:
riposi ogni cosa nella tasca interna della veste e per non far scorgere le
traccie di ciò che tenevo sul petto, mi gettai una veste ripiegata sulla
spalla sinistra e discesi le scale.
Pensai
alla fuga di Gesù in Egitto cercato a morte dal crudele Erode. Oh! in quel
momento, lo confesso, piansi di commozione. Pensai (e lo ricordo benissimo)
al buon giovinetto Tarcisio, là nelle catacombe romane, che stringendo al
petto il prezioso tesoro, si avviava frettoloso per le vie di Roma, non
senza un giusto timore che Esso cadesse fra le mani sacrileghe dei
persecutori di Cristo. Tutto questo passò nella mia mente in un baleno:
feci un raffronto con la mia situazione e mi disposi ad affrontare anche la
morte. Ho forse esagerato? Chi conosceva le intenzioni di quei forsennati?
Quali erano i loro progetti, quali le loro idee?
Aprii
con circospezione la porta davanti: misi fuori il capo per spiare... e
mandai innanzi la sorella la quale in un istante si trovò tra le braccia
delle fide amiche.
Fu caso o fu tattica?
Vicino alla porta non vidi anima viva. Allora uscii io pure: richiusi pian
piano dietro di me la porta... ma... non avevo fatto neppure un passo, ecco
scorgo due uomini i quali corrono verso di me: mi afferrano uno per un
braccio ed uno per l'altro [.... ] e, senza proferire parola, mi conducono a
viva forza nell'andito della casa delle sorelle Lanconelli e mettono il
catenaccio alla porta. Io mi vidi perduto e pensando essere giunta l'ultima
mia ora, piangendo e singhiozzando, gridai:
Lasciatemi la vita!
Lasciatemi la vita! Che cosa vi ho
fatto? E quei due: Ora stia qui, adesso andiamo a prendere gli ordini del
Comitato rivoluzionario.
Uscirono
per un'altra porta e scavalcarono un muro. In quell'andito regnava un buio
perfetto: la mente era smarrita, il cuore mi batteva fortemente. Furono
momenti che non si possono descrivere.
Ad un
tratto ecco aprirsi una porticina oscura, e come un'ombra, apparire un
giovane alto e tarchiato. Che cosa fa qui signor Rettore? mi dice. Venga,
venga con me, non abbia alcun timore.
Era
certo Domenico Corbelli: il mio salvatore! Mi condusse per oscuri sentieri e
per vie deserte fino alla casa di d. Serafino, distante circa 400 metri.
Quivi fui accolto con la solita gentilezza e cordialità e, fatto un cenno
al sacerdote che subito intuì, fu portato il Santissimo Sacramento nella sua
camera da letto e rinchiuso in un armadio, dove rimase 17 giorni, a tutti
ignoto: noto soltanto ad alcune pie donne le quali di tanto in tanto si
recavano in pio pellegrinaggio a far visita al S.S. Sacramento.
Non
molto mi fermai in quella casa: appena messe in salvo le Sacre Specie, volli
ad ogni costo far ritorno alla mia Canonica deciso a vivere o morire presso
la mia Chiesa, piuttosto che vilmente disertare ed anche per vedere e
constatare lo scempio che si era fatto della casa di Dio.
Era di
poco passata la mezzanotte e quasi tutti se ne erano andati al riposo; pochi
restavano ancora i quali, appena mi videro e certi di essere da me
riconosciuti, vigliaccamente si profersero di fare opera di spegnimento,
mentre poi essi medesimi erano di quelli che dianzi avevano appiccato il
fuoco. Ricordo benissimo che io, sia perché li ritenni veritieri, sia per
cattivarmi l'animo loro, ebbi il pensiero di offrire loro alcuni fiaschi del
mio vino migliore.
La mia
sorella, non so come, saputo del mio ritorno in Canonica, me la rividi al
fianco. Ritornato il silenzio (non si udiva che il crepitare delle fiamme),
tutto solo, decisi di fare una ricognizione in chiesa, Mio Dio!! Nella
sacrestia tutto l'intonaco dei muri era caduto: le finestre e le porte e i
tre grandi armadi erano già ridotti in cenere e il braciere, senza
esagerazione era alto pili di mezza gamba, in modo che per passare fu
giocoforza fate una corsa a gambe levate. Con in mano una candela accesa, al
sinistro bagliore delle fiamme che ancora qua e là ardevano, tenendo ben
tappata la bocca per non essere soffocato dal fumo, cautamente mi avanzai.
Il busto
in gesso del defunto parroco d. Ricibitti era senza naso, senza un occhio,
senza un orecchio. Qualche lampada a terra tutta contorta, qualche brano di
statua, qualche candelliere spezzato, croci e immagini a terra. I cancelli
in stile gotico della graziosa cappellina di Lourdes affissi al muro erano
spaccati. Avanti ancora: Mio Dio!! Che si vede là in terra? la statua di S.
Luigi era stata decapitata e il tronco giaceva al suolo senza testa!
(Mi è
sempre stato affermato, anche dal cappellano d. Serafino, che il carnefice
di quel povero santo fu il sig. [...], il quale l'aveva a morte con lui
perché il santo della purezza).
Fatta
questa rapida ricognizione, ritorno alle mie stanze e mi pongo alla finestra
dietro le persiane per spiare e per osservare: era poco piu' dell'una dopo
mezzanotte. Non si vedeva anima viva: regnava un silenzio sepolcrale! Giù
nella piazza che fiancheggia la chiesa, ardevano ancora i resti di quello
che fu il Circolo monarchico. Scorgo però in lontananza avanzarsi due
ombre: chi sono?... sono due carabinieri che vengono dalla caserma: si
avanzano cautamente tenendo il moschetto imbracciato, ossia in posizione di
sparo: vanno pian piano fino al rogo, si fermano un istante... danno uno
sguardo intorno... e poi di nuovo alla caserma.
Poco
dopo, nel cupo silenzio, interrotto soltanto dal continuo abbaiare dei cani,
scorgo altre due ombre avanzarsi verso la Canonica: non fui capace di
riconoscerli... Andiamo sul campanile, dice l'uno di essi, andiamo a suonare
il campanone. Mi corse un brivido per le vene. Mi precipito allora ad
avvertire la sorella che era andata a riposare, prevenendola ed
assicurandola a non aver paura: era tanto terrorizzata! E le campane
cominciano a suonare nella notte triste e lugubre, non già per invitare i
fedeli alla preghiera e al sacro tempio, ma per avvertire che i
rivoluzionari erano essi padroni del campo!!
Quel
suono insolito nel cuore della notte, quei rintocchi, quel disordinato
scampanio metteva terrore in ogni cuore e presagiva quello che sarebbe
avvenuto nella seguente giornata.
Nella
vana speranza fossero già sazie del loro bottino, ma pur sempre dubitando,
scendo di nuovo nella Chiesa: passo di corsa sul braciere ardente della
sacrestia, infilo la scala a chiocciola che mena a uno stanzino superiore e,
trovate tutte le bandiere delle Confraternite, ricamate in oro e seta,
ancora intatte, le porto in Canonica. Ritorno sul luogo, afferro con ambe le
braccia tutti gli apparati di seta che restano e giù a precipizio per le
scale, passando di nuovo fra il fumo asfissiante e il braciere di fuoco
della sacrestia e tutto metto in salvo.
Già
è spuntata l'alba: comincia ad affacciarsi qualche brutto ceffo e spiando
dalla porta dice al parroco: Va pur là, porta pure dentro... fra poco
ritorniamo a fare il resto.
Infatti
non trascorre molto tempo che la folla comincia ad ingrossare, e varcata
la soglia della porta, che avevo alla meglio sbarrata, si prepara a
sterminare il resto.
Io
sono in mezzo a loro in Chiesa e nessuno mi tocca: solo quando mi chino
per raccogliere da terra una lampada, uno dei quei brutti ceffi mi dice in
tono arrabbiato: Lei non deve prendere niente, dobbiamo distruggere
tutto il resto.
Prima
di allontanarmi volle il caso che io assistessi ad una scena che ancor
oggi, dopo tanti anni, ho presente alla fantasia e ancora mi fa tremare di
orrore.
Vi era
all'altare del S. Sacramento un magnifico Crocefisso intagliato in legno,
opera pregevole ed artistica e venerato dai fedeli come un simulacro
miracoloso, che veniva scoperto soltanto raramente nelle pubbliche calamità,
ed essendo coperto da una tendina, era rimasto nascosto ed inosservato.
Ebbene (fremo d'orrore) vidi i due fratelli [....] afferrarlo uno per i
piedi e l'altro per la testa e portarlo fuori sul rogo che ancora ardeva,
dopo averlo coperto di dileggi e di scherno. Questa, per me, fu l'ultima
cosa cui assistetti, poi rientrai nel mio ufficio.
Tutto
ciò che sto narrando sembrerebbe inverosimile e fantastico, se io stesso
non avessi assistito a queste scene e non fossi stato testimone oculare.
Era
rimasto intatto ancora, perché inosservato, il bell'organo costruito
dalla ditta Strozzi di Ferrara: in un baleno un gruppo sale
nell'orchestra, con bastoni si comincia a percuotere la tastiera d'avorio
e il meccanismo interno, riducendo il tutto ad un informe groviglio di
ferri, poi si tolgono dal loro posto le magnifiche canne di stagno della
facciata e poi quelle di piombo e di zinco (in tutto circa 800) e si danno
ai bambini, i quali, suonando a tutto fiato, corrono nella piazza e
incomincia allora quella musica barbara, quella nenia che i poveri
Selvaggi dell'Africa sogliono fare durante le loro feste cannibalesche.
Assalto
alla canonica
Sono
circa le otto del mattino del giovedì, festa del Corpus Domini. Tutta la
piazza è rigurgitante di uomini: i messi dei rivoluzionari avevano
battuto per lungo e per largo tutta la campagna dicendo:
Se non verrete in piazza ad assistere allo spettacolo, noi appiccheremo il
fuoco alle vostre case e ai vostri fienili. Potete quindi immaginare se
non erano intervenuti.
Ad un
tratto, mentre io e la sorella stavamo rinchiusi entro l'ufficio
parrocchiale, si odono dei colpi tremendi alla porticina che comunica con
la Chiesa: i colpi si ripetono e la porta si spalanca. Appena entrati quei
forsennati afferrano un magnifico armonium della ditta Tubi, giunto da
pochi giorni da Lecco, e senz'altro lo gettano nelle fiamme: tutto quello
che prima era stato con tanta fatica salvato, viene dato in pasto alle
fiamme: libri, scansie, cappelli, vesti personali, tavolini, finestre, due
casse piene di candele, ombrelli, registri parrocchiali dei morti, dei
battezzati, dei cresimati e dei matrimoni. Una cosa soltanto non viene
consegnata al fuoco, ossia il tesoro della B. V. di Lourdes consistente in
molti pregevoli oggetti d'oro, catene, braccialetti, orecchini, anelli,
orologi d'oro, fermagli ecc.: questi oggetti vengono spartiti fra uomini e
donne.
Una
volta spalancata la porta di casa e degli appartamenti privati, non v'era
più nulla a sperare e non restava che tentare di nuovo la fuga. Infatti
ambedue piangendo, abbandonammo ogni cosa (ricordo che mi fu gettato
contro un tizzone ardente) e cercammo uno scampo presso due famiglie,
accolti con cortese ospitalità. Quello che poi accadde è più facile
immaginare che descrivere: saliti sul campanile continuarono quasi tutta
la giornata a suonare a distesa le campane, finché, stanchi del suono, si
tentò di spaccarle e, non riuscendovi, furono staccati i battagli e
gettati entro il pozzo della canonica; pure nel pozzo furono gettati i due
ombrelli pel S.S. Sacramento, candellieri, pietre, legni e fu divelto
persino il davanzale del pozzo stesso e infine con travi sporgenti ne fu
chiusa l'apertura. La malignità dei ribelli giunse persino a spezzare le
pietre sacre degli altari: armati di pistole e di fucili spezzarono tutti
i cristalli, in numero di circa 300, del coro, dei lunettoni, e del teatro
parrocchiale, e profanarono la Chiesa con atti schifosi ed orrendi e
sacrileghi. Con le loro pistole presero a bersaglio i busti marmorei dei
poveri morti e la balaustra di marmo dell'altare maggiore che ancora ne
porta le cicatrici.
Tutto
il giorno fecero gozzoviglia e finalmente, non rimanendo più nulla da
distruggere, presero di mira la protettrice del paese, la B. V. delle
Grazie. E qui la B. V. si rivelò con un vero prodigio.
Sopra
l'ancona del coro, ad una altezza di circa cinque metri, circondata da una
bella cornice, era collocato un quadretto di terracotta raffigurante la
B. V. delle Grazie col Bambino. I rivoluzionari salgono sui gradini dell'altar
maggiore e cominciano a tirare colpi di sasso contro l'immagine: il
quadretto, appeso ad un cordoncino, dondola, ma non si spezza e non cade.
Visti inutili i sassi, allora danno mano al fucile:
si spara,
il quadretto dondola ancora, ma non si spezza. Visto inutile ogni
tentativo, si abbandona l'impresa e il quadretto, a loro dispetto, rimane
fermo al suo posto.
Oh!
Vergine Santa: o cara nostra protettrice: le anime buone, inorridite da
così orrenda strage di sacre immagini e di tante cose consacrate al culto
di Dio avrebbero voluto un segno di vendetta divina e chiedevano che
almeno una mano di quei sacrileghi fosse rimasta inaridita e quasi quasi
ne furono scandalizzati e ne fu scossa la loro fede, ma ecco che Tu, o
Madre buona, con un mirabile prodigio, con un atto così significativo hai
voluto vendicarti dando chiaramente a conoscere che Dio non vuole la morte
del peccatore, ma che si converta e viva, e ancora oggi Tu sola, o unica e
cara immagine, scampata cosi mirabilmente a tanto sterminio, Tu sola sei
rimasta a perpetuo testimonio dell'orrenda rovina e le due corone d'oro
poste sul tuo capo e del Santo Bambino per mano del defunto mons. Bacchi
il di 8 settembre 1916, sono là ad attestare ai posteri che invano si
lotta e si guerra contro Dio!
Se
qualcuno entrando nella chiesa di Alfonsine percorre la navata sinistra, a
metà circa della medesima potrà osservare un quadretto di legno
scolpito, il quale rappresenta un santo cappuccino in atteggiamento
devoto, con la corona in mano e la bisaccia che gli pende davanti e di
dietro a mo' dei frati questuanti. Quella immagine ha una storia
abbastanza significativa e che dimostra, accanto alla cattiveria,
l'ignoranza, l'aberrazione del povero popolo quando è mal condotto dai
suoi capi che lo guidano.
Mentre
ferveva con tanto accanimento la distruzione di ogni cosa sacra, fu veduto
un uomo con un'asta di ferro, colpire l'immagine per spezzarla e
distruggerla: ripete i colpi (che ancora sono ben visibili) e sta per
atterrarla, quando arriva di gran corsa un altro il quale, con fare
disperato gli dice:
Ma cosa fai? - Che faccio? - risponde l'altro meravigliato. Ma non vedi
che è S. Andrea? Se S. Andrea apre il sacchetto degli accidenti, non
siamo rovinati?
(Il dialogo avvenne in romagnolo:
Se sant'Indrei l'arves e malet da i azident, an sen arvinè). Così il
quadretto fu salvo ed è tutt'ora visibile.
Frattanto
fuori, nel piazzale della Chiesa, si commettevano sempre maggiori oscenità.
Avreste veduto qualcuno in piazza che, per dileggio, si metteva una cotta
e una stola da sacerdote, e prendendo in mano una croce faceva atto di
benedire e poi gettava quel simbolo nel rogo tra le risa dei compagni.
Fu
veduto un tale prendere in mano il magnifico ostensorio d'argento, di gran
valore e, ghignazzando, fare atto di benedire e gettarlo nelle fiamme.
Furono veduti alcuni colpire alcune sacre immagini con armi da fuoco e
gettarle poi nel braciere; altri vestirsi dei camici, delle cotte e delle
stole e le donne, sì anche le donne non furono estranee, portar via e
nascondere sotto le vesti, camici e tovaglie da altare e biancheria d'ogni
sorta.
Mentre
queste cose si compivano nella Chiesa e nella Canonica, fuori avvenivano
altre cose che la mente rinuncia a descrivere tanto appaiono inverosimili.
Qualcuno
potrebbe obbiettare: Ma che facevano là dentro quei 13 carabinieri a
cavallo? Mistero. Essi pensarono bene di barricarsi in caserma, mentre il
popolaccio, armato d'ogni sorta di armi, di pistole, di pugnali, di
rivoltelle, di fucili, andava gridando sotto la caserma stessa: Ragazzi,
fra poco veniamo anche da voi e vi conceremo per le feste. Furono veduti i
carabinieri, mentre il fornaio doveva entrare per portar loro il pane,
aprire il portone della caserma, ma col fucile imbracciato e scaglionati
in modo, stando parte in piedi e parte in ginocchio, da poter, in caso di
invasione fare una scarica sicura e micidiale, con una cassa di munizioni
accanto.
Il
comunismo
Il
vero comunismo fu messo in pratica ad Alfonsine in tutto il senso della
parola, altro che in Russia! Ma ahimé!... ebbe la durata di pochi giorni
soltanto.
I
rivoluzionari, ormai padroni del campo, senza la minima resistenza da
parte dei cittadini che allibiti e terrorizzati si erano asseragliati in
casa, chiudendo porte e finestre, requisirono carri e bestiami dai
contadini (fra questi vi fu anche il colono della parrocchia che abita in
via Borse) e li obbligarono a seguirli: e come ubbidivano! Guai se
avessero opposto un rifiuto!
Armati
di tutto punto e seguiti dai carri bussarono dapprima dal sig. Violani
Sante e gli intimarono di consegnare circa un centinaio di quintali di
grano e requisirono pure la sua bella automobile Fiat della quale si
servirono i capi per scorazzare a loro piacimento, per dare ordini e
comunicare coi paesi vicini incitandoli alla rivolta.
Poi si
recarono presso il sig. cav. Bruto Marini, giunto la sera innanzi da Roma
in automobile, il quale, al loro appressarsi, non solo non oppose
resistenza ai ribelli, ma ordinò ai suoi dipendenti che spalancassero le
porte e li ricevette a braccia conserte. Anche qui fecero bottino
abbondante e specialmente fecero copiose libagioni. Indi si recarono
presso la sig. Carolina Mirri, sul ponte nuovo, bussarono alla porta e,
appena aperta, la signora disse loro: Che cosa cercate? Ci ha mandato il
Comitato - rispose un tale- a caricare tutti i pezzi di maiale. E lì'...
salami, prosciutti, ed altri generi in abbondanza.
Andarono
poi dal sig. Ricci Antonio, bottegaio, e requisirono armi, benzina,
cartuccie da pistola, da fucile. E chi paga? - disse il sig. Ricci.
Scrivete tutto e mettetelo a conto del Comitato e del Governo nuovo, gli
fu risposto.
Il
ramaio Stefano Grazioli dovette dare tutte le catene di ferro che
servirono poi a sbarrare le strade.
N.B. -
Mi preme far notare che di tutti questi fatti che sto narrando io non fui
testimone oculare, ma li appresi in seguito da persone degne di fede:
senza dubbio qualche inesattezza vi sarà infallantamente.
Si
recarono poi presso il Sig. Anselmo Alberani, nella via Reale, verso il
quale avevano un odio veramente mortale, e qui compirono atti veramente
briganteschi. Aperte le porte del palazzo, il sig. dott. Anselmo fu preso,
circondato da una turba di arrabbiati rivoluzionari; uomini e donne, gli
fu puntata al petto una pistola e sopra il suo capo un giovane teneva
sospesa un'accetta: fu perquisito, gli furono tolti i denari, fracassati
tutti i mobili della casa e specialmente della camera matrimoniale, e
portato via quanto vi era di commestibile, anche la pentola che bolliva
sul fuoco.
Tutto
questo ben di Dio fu caricato sui carri e trasportato nella pubblica
piazza dove, terminata la requisizione, incominciò la spartizione del
bottino al grido di «Viva il Comunismo! Viva la Rivoluzione! Oh se
durasse sempre così' ».
E fu
udito anche il grido: « Dman anden a test » (domani andiamo a
teste).
Infatti
in quei giorni circolava la voce che il Comitato rivoluzionario avesse
redatto una lista di cittadini cui doveva essere mozzato il capo. Ed era
uno spettacolo veramente singolare e comico assieme vedere quella folla
andarsene con sacchi sul dorso, con prosciutti sotto le braccia e pane e
vino ed ogni ben di Dio. Anche un ragazzetto, soprannominato Baratieri,
orfano di padre e di famiglia veramente povera, che di giorno faceva
servizi al parroco, anch'egli chiese di andare a prendere la sua parte ed
infatti si ebbe un bel prosciutto.
Il
Comitato rivoluzionario risiedeva in permanenza e dava ordini che erano
seguiti a meraviglia. Innanzi tutto aveva ordinato la requisizione, in
tutte le case, di tutte le armi e si dovettero cedere, sebbene a
malincuore, tutti i fucili, pistole e rivoltelle ecc. Una volta disarmati
i cittadini non v'era più nulla a temere. Furono sbarrate le vie con
grosse catene e in capo ad ogni via stavano due guardie rivoluzionarie col
fucile alla spalla con ordine di intimare « alto là » a chiunque non
avesse il lasciapassare del Comitato.
Il
sacrestano della chiesa, Patuelli Antonio, ottenne anch'egli il suo
lasciapassare che io stesso ebbi in mano e che era così' concepito:
« Si
rilascia il seguente lasciapassare al sig. Antonio Patuelli perché non
sia toccato nella sua roba e nella sua famiglia. Firmato: il Comitato
rivoluzionario », e seguivano i nomi.
Con
questo triste bilancio di delitti popolari stava terminando la giornata
del giovedì, festa del Corpus Domini.
Ospitato
gentilmente dalla famiglia Bendazzi, presso la quale ebbi ogni conforto,
verso sera volli far ritorno alla mia residenza. Mi premeva assai
constatare quale sorte avevano corso le mie personali suppellettili di
casa e infatti solo, solo mi avviai verso la piazza.
In
prossimità delle scuole comunali vidi venirmi incontro il capo dei
rivoluzionari, Mossotti Ferruccio. Era rosso in viso, aveva gli occhi
fuori dell'orbita che sprigionavano scintille di fuoco, procedeva
dondolando
la sua persona a destra e a sinistra: l'ho ancora presente alla mente: si
fermò, mi diede una terribile occhiata e passò oltre.
Giunto
che fui presso il Caffé degli anarchici, detto il Caffé della Nicolina,
scorsi una moltitudine di persone che stava ai tavolini a godersi il
fresco, ed a contemplare la scena sorbendo il caffé e centellinando
bicchierini di liquori con un'allegria indescrivibile. Appena mi videro
fecero un gesto di sorpresa e ricordo uno che disse: Bé! non è mica
fuggito! Ma se è ancora qui!, e tutti gli occhi si appuntarono su di me.
Io
tirai innanzi per la mia strada, colpito dall'orrendo spettacolo che si
presentava ai miei occhi: era sogno o realtà? Il grande Palazzo
Municipale, posto di fronte alla Chiesa, era tutto in fiamme: il tetto
sfondato, tutte le finestre altrettante bocche di fumo e di fuoco;
l'orologio pubblico era rimasto penzoloni, non esistevano che i quattro
muri esterni affumicati e le rovine fumanti, e nella grande immensa
voragine di fuoco in un baleno rimasero distrutti tanti oggetti di valore
e di pregio. Si poté salvare soltanto lo Stato Civile.
Giunto
che fui alla Canonica, mi vidi di nuovo al fianco la sorella. Pensavo di
riposare almeno la mia notte in pace, stanco com'ero per la lunga veglia e
dalla continua agitazione dell'animo per le emozioni provate, ma era
destino che ancora non dovessi aver pace.
Mentre
si era sull'imbrunire, mi si presentarono alcune persone per dirmi: Signor
Rettore, per carità, fugga, fugga e fugga presto, perché è già stato
stabilito di far saltar in aria la Canonica con le bombe. Io risposi a
costoro che ero deciso in tutti i modi a non allontanarmi dalla mia casa,
qualunque cosa accadesse... e la mia sorella, a tale annunzio, potete
immaginare, a piangere e a supplicare.
Poco
dopo altre persone, e persone veramente rispettabili, cui si poteva
prestar fede, vennero presso di me e di nuovo mi raccomandarono, anzi mi
scongiurarono a lasciare la Canonica, perché nella notte avrebbero fatto
saltar in aria ogni cosa.
Allora
io decisi di passare la notte altrove, non già per timore di mali
peggiori (ormai io ero a tutto rassegnato) ma per non far morire di
passione la sorella la quale, già febbricitante e quasi morta dallo
spavento, ormai non si reggeva più in piedi.
Ricordo
che nell'allontanarmi dalla piazza, passando avanti alla bettola dei
Minguzzi (detta dei Ciconi), uno dei figli, Antonio, mi seguì per spiare
ove andavo a rifugiarmi ed io dovetti fare parecchi giri e parecchie
svolte per fargli perdere le mie traccie. Come infatti così avvenne.
Passai
la notte a Fusignano presso la mia famiglia e al mattino, innanzi giorno,
presi la via per Faenza: mi premeva assai mettere il Superiore al corrente
di tutto l'accaduto e infatti, accompagnato da
d. Michele Pirazzini, ebbi tosto udienza da mons. Bacchi. Al racconto dettagliato che
gli feci di quanto era accaduto nella Chiesa di Alfonsine, alla narrazione
dei patimenti sofferti, delle cose avvenute, che nessuno mai potrà
immaginare nella loro realtà, egli ne fu talmente commosso che, senza
proferire parola, si alzò, andò nella stanza attigua, ov'è la cappella
vescovile; e pregò e pianse. Ritornato, mi disse parole paterne di
conforto, mi suggerì alcune raccomandazioni e alcuni consigli e terminò
dicendo: Dite pure la S. Messa anche con la Chiesa senza porte, anche
sugli altari fumanti: che il popolo veda lo scempio che si è fatto della
vostra Chiesa!
Frattanto
nella giornata seguente avvenivano fatti degni di essere ricordati. Si
tenne un pubblico comizio in piazza e il sindaco Camillo Garavini fu udito
(anche il sottoscritto sentì bene) gridare in atteggiamento disperato: Lo
sciopero è terminato: siamo stati traditi!
Queste
parole mi ridonarono la vita. Appena seppi che le violenze erano cessate,
dimenticando i passati patimenti, corsi, mi precipitai nella piazza e
aiutato da d. Serafino Servidei, giunsi in tempo a salvare dalle fiamme il
grande ponte di legno che sta fissato sul retro dell'altar maggiore, meno
due colonne; il qual ponte ancora ben visibilmente conserva le traccie
delle bruciature, e salvai tutte le ferramenta delle porte e altri
oggetti. Più fortunato fu il sig. Antonio Martini il quale, rovistando
fra le ceneri, rinvenne il piedestallo dell'ostensorio d'argento, ma in
cattive condizioni e in parte amalgamato con altri metalli. Furono pure
sottratti al fuoco alcuni registri dei battesimi fra i quali,
fortunatamente, il volume ove è registrato l'atto di battesimo del poeta
Vincenzo Monti. Uno dei vasetti degli Oli Santi fu trovato in un campo a
Villanova di Bagnacavallo e riportato alla chiesa di Alfonsine.
La
fama di questi fatti erasi già sparsa in ogni luogo: cominciavano ad
affluire da ogni parte automobili di curiosi che venivano dai più lontani
paesi e, soprattutto, corrispondenti di giornali i quali davano l'assalto
a chiunque, avidi di notizie per comunicarle ai giornali.
Giungevano
forestieri i quali chiedevano ansiosi: Ma dov'è quella Madonnina? Quella
immagine incolume dov'è? Giungevano pure autorità civili d'ogni specie:
giunge pure il deputato Vittorio Vinai il quale promise al parroco di
interessarsi presso il Governo per il risarcimento dei danni e non mancò
neppure il Procuratore del Re in persona per l'esame dei testimoni. Mons
Bacchi, che il 24 dello stesso giugno era a Fusignano, non credette o
meglio non ardì andare ad Alfonsine.
Improvvisamente
un bel mattino, mentre ancora si era in trepidazione e nell'incertezza, si
udì una voce: La cavalleria! La cavalleria! Era la nostra salvezza.
Giunsero infatti ben 200 soldati di cavalleria, comandati dal colonnello
Riccordi, il quale, senz'altro, alloggiò i soldati in chiesa e prese il
comando supremo.
Accadde
allora uno spettacolo veramente buffo, veramente degno di scena teatrale.
Avreste veduto quei coraggiosi rivoluzionari, che avevano avuto tanta
audacia e tanto accanimento nel lottare ed inveire contro innocue immagini
di Madonne e di Santi e contro inermi cittadini lasciati in abbandono da
chi avrebbe dovuto difenderli, darsi alla fuga più vergognosa, saltando
fossi, scavalcando muri e siepi e ogni ostacolo! La triste commedia si era
cambiata in una ridicola farsa. Addio sogni dorati di rivoluzione e di
comando!! Addio vani sogni di comunismo!! Addio bei sogni di basse
vendette personali!! Addio bei sogni di passare alla storia come
leggendari eroi della patria! Lo spettro delle responsabilità, per tante
enormità commesse in onta alle leggi più comuni della civiltà e della
fratellanza umana, lo spettro del redde rationem si avanzava, lento
si, ma inesorabile.
Oh!
avreste veduto allora persone rispettabili per la loro condizione sociale
e per l'ufficio che ricoprivano, in attegiamento di compunzione, venire a
me davanti, a me, povero prete, che avevo tanto sofferto e dirmi:
Signor
parroco, mi raccomando, faccia opera di pacificazione: predichi bene in
Chiesa il perdono!
Cosi
ebbero termine le famose giornate della Settimana Rossa, le quali furono
ispirate e dirette dal famoso anarchico di Ancona, Errico Malatesta.
Ritornato
l'imperio della legge, parte dei colpevoli si rifugiò a S. Marino
(Camillo Garavini) e in Francia (Gessi, veterinario), parte furono
rinchiusi nelle prigioni di Ravenna in attesa del giudizio il quale però
non ebbe luogo per il sopraggiungere dell'immane guerra che travolse
popoli e nazioni e fece versare tanti fiumi di lacrime e di sangue.
Il
municipio di Alfonsine
con i segni l'incendio della "Settimana
Rossa"
(un
click sull'immagine per vederla ingrandita)
|