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Memorie del parroco 
d. Luigi Tellarini
  riguardanti la famosa Settimana Rossa del giugno 1914 in Alfonsine
Questo documento fu scritto alcuni anni dopo i fatti dall''allora parroco di Alfonsine Don Luigi Tellarini, e ricalca quasi certamente appunti contemporanei. 
E' conservato  nell'archivio parrocchiale di S. Maria di Alfonsine  

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La settimana rossa nei vari paesi di Romagna
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Un libro sulla Settimana Rossa alfonsinese
Quando Alfonsine 
divenne famosa
(scritto da Luciano Lucci)

"Sarebbe il caso di ripetere il verso virgiliano dell'Eneide. « Tu mi comandi che io rinnovelli disperato dolor che il cor mi preme » tanto è triste il sollevare il manto che ricopre di dolore e di vergogna e raccapriccio le famose giornate della cosiddetta Settimana Rossa. Iddio, nella sua infinita misericordia, tocchi il cuore di quei sacrileghi iconoclasti e li riconduca pei sentieri della speranza al ravvedimento e alla salvezza."
  • 9 giugno, martedi', nelle ore antimeridiane, nulla di anormale.

Il Delegato di P.S. aveva dato, e non aveva ritirato il permesso di fare pubblicamente la Processione del Corpus Domini che in quell'anno cadeva l'11 giugno. Il Rettore della Parrocchia si era assentato: nulla dunque lasciava trasparire ciò che di sinistro sovrastava al paese di Alfonsine, tanto il segreto era stato scrupolosamente conservato.

Ma ecco che nelle ore pomeridiane dello stesso giorno, martedì, verso sera, un gruppo di ascritti ai diversi partiti, in prevalenza anarchici, dopo un breve consulto nella pubblica piazza, d'un tratto si slancia verso il portone del cortile della canonica e con una spallata abbatte e atterra la porta che immette nella sacrestia e già alcuni miserabili sconsigliati stavano per strappare il grande Crocefisso appeso al muro, quando il pianto disperato di alcuni bambini presenti e le toccanti parole persuasive dei due cappellani presenti d. Serafino Servidei e d. Mario Bonetti li fecero desistere dal loro malvagio proposito.

Per quel giorno la chiesa fu salva, le immagini furono rispettate e prevalse il buon senso.

Triste epilogo della giornata fu però un fatto veramente doloroso che dimostra veramente a qual punto fosse giunta l'aberrazione di quegli insensati. Il cappellano d. Mario, in seguito ad una vivace discussione sorta fra lui e i suoi avversari, si ebbe uno scapaccione e una spinta talmente violenta che dal limitare della sacrestia fu lanciato quasi in mezzo al cortile senza toccare terra dall'altezza di tre gradini, e l'altro cappellano d. Serafino fu colpito da una grossa pietra scagliatagli contro da un certo Ballardini Alfredo, barbiere, la quale gli produsse la rottura di una costola, secondo il referto del dott. Pasini che ebbe a visitarlo. 

  • 10 Giugno 1914 mercoledì
  • Al mattino, quiete. Nessun indizio di ribellione. In chiesa fervono i preparativi per la solenne processione dell'indomani, perciò gli altari sono tutti vestiti dei migliori e più preziosi arredi sacri: tovaglie con ricchissimi pizzi ricamati in oro e seta dalle buone suore di S. Chiara di Faenza; baldacchino pure di seta e oro; pallio dell'altar maggiore, argenteria ecc.

    In sul far della sera incomincia un insolito movimento in piazza come nei giorni di comizio: si ode il cupo suono dei corni che chiama a raccolta, la piazza si affolla di faccie sinistre, corrono i bambini alzando al cielo le loro stridule voci, non mancano le donne d'ogni colore politico e già ascritte anch'esse alle diverse leghe.

    Ad un tratto entra in scena il Comitato rivoluzionario, il quale sta come gruppo serrato in mezzo alla piazza con a capo il sindaco Camillo Garavini. Un breve consulto... uno sguardo alla piazza... s'impartiscono ordini secchi... poi via di gran corsa all'assalto. La posta, il telegrafo e il telefono sono le prime vittime: si fracassano gli apparecchi, si sale sulle impalcature di una casa in riparazione e si strappano i fili elettrici. E ben naturale: si cerca l'isolamento. Indi viene la volta del Circolo monarchico: forzata la porta con leve e grossi pali, la turba furibonda si dà all'assalto e al saccheggio. Si videro allora volare fuori dalle finestre le immagini del Re Vittorio e della Regina d'Italia, poi sedie, tavolini di marmo, bottiglie, bicchieri: si vedevano i giovanetti, con un accanimento indescrivibile, afferrare bottiglie piene di liquore d'ogni colore e sbatterle contro le colonne della casa di fronte con gioia così pazza e con tale ironia che faceva fremere d'orrore e l'aria era talmente satura di odore alcoolico da non potersi descrivere.

    Terminata la distruzione del Circolo monarchico, la massa del popolo s'accalca all'entrata del Palazzo Municipale, ove eretto in precedenza un palco, si apprestano a parlare gli oratori. Primo a prendere la parola fu il sindaco Camillo Garavini, il quale con la solita veemenza oratoria da comizio e direi quasi come un ossesso, così arringa la folla: Compagni! Lavoratori! Finalmente Vittorio Emanuele è caduto! Finalmente è caduto l'odiato governo della borghesia! Finalmente comandiamo noi! Siamo noi ora i padroni della situazione e del governo! Andate nelle case, tirate in pieno petto alla borghesia, ecc. ecc. Risponde un'eco fragorosa di battimani e un urlo assordante: Bene!! Bene!! Evviva la Rivoluzione! Abbasso la borghesia! (Chi scrive queste memorie si trovava ad origliare dietro le persiane della canonica e perciò si vedeva ed udiva ogni cosa).

    Parla poi un secondo oratore, ma brevemente, e finalmente da tutta la massa del popolo si ode questo grido terrorizzante: 
    Alla stazione! Alla stazione!

    Come un'orda di selvaggi che non ha né leggi né freno, si lanciano di corsa alla stazione, si impadroniscono degli appositi ordigni e si danno a smontare le guide della ferrovia sul ponte di ferro sul Senio e le gettano in fondo al fiume; poi colle torcie a vento accese, incendiano e devastano parte della stazione ferroviaria.

     

    L'assalto alla chiesa parrocchiale

     

    Era circa l'ora di notte di quel dì, 10 giugno: io stavo cenando assieme a mia sorella quando, d'un tratto, una bambina si arrampica sulla finestra e, con occhi sbarrati dal terrore, grida: Signor Rettore vengono, vengono!!

    Con grida ed urla selvaggie, tenendo in mano le torcie a vento accese, sottratte alla stazione, correndo all'impazzata, si avanzano le belve umane, precedute, come sempre, dal solito stuolo di ragazzi e si arrestano davanti alla porta laterale della chiesa cominciando una fitta sassaiuola contro i cristalli della canonica.

    Non si curano di chiedere le chiavi, né impongono al parroco di aprire la porta, ma afferrato un grosso palo telegrafico, con esso danno colpi tremendi, a guisa di ariete, sopra la porta e questa, dopo ripetute percosse, scricchiola, cede e si spalanca.

    Un urlo di gioia selvaggia! Oh Dio! Cade il cuore, vacilla la mente, trema la penna nel dover descrivere la scena spaventosa e veramente macabra!! 

    Dov’el clù cmanda! Dov'el ctù cmanda! (dov'è colui che comanda) 

    e si lanciano di corsa alla ricerca delle Sacre Ostie per farne scempio: ma non le trovano, perché il Santissimo, in precedenza, era stato tolto e portato in una camera superiore della Canonica.

    Allora si dà mano al petrolio: si entra in sacrestia e si incendiano tre grandi armadi pieni di arredi sacri e il banco che serve ai sacerdoti per appararsi e gli sgabelli e le porte (cinque solo in sacrestia) e gli apparati sacri.

    In Chiesa intanto si incendiano le grosse porte esterne, i confessionali, e si appicca il fuoco a un gran mucchio di sedie che erano del sagrestano, circa 160. I magnifici banchi di noce massiccia vengono ammucchiati fuori della porta laterale; si spacca a furia di colpi il coro di legno noce e si fa una grande catasta cui si appicca il fuoco producendo un'alta colonna di fumo e di fuoco sicché le fiamme furono scorte persino dalla vicina Fusignano.

    Io intanto solo, solo (giacché tutti i sacerdoti erano corsi alle loro case) con la disperazione e col pianto e col terrore stavo osservando la tremenda scena guardando di tanto in tanto, di dietro alle persiane della finestra della Canonica e vidi... vidi... il bel S. Giuseppe, il magnifico capolavoro degli antichi Graziani di Faenza, essere gettato tra le fiamme divoratrici; vidi il bel S. Antonio, immagine tanto cara e tanto venerata dagli Alfonsinesi e l'Addolorata, pure degli antichi Graziani, subire la stessa sorte; la statua della B. V. di Lourdes, di S. Francesco Saverio, della B. V. del Rosario gettate tutte entro il rogo immenso per essere ridotte in cenere.

    Gran parte del popolo assisteva muto e stupefatto, in lontananza, al triste bagliore delle fiamme, all'orrenda scena e in cuor suo fremeva senza però osare di affrontare i ribelli. 

    E i Carabinieri? E il Delegato di P.S.? Meglio non parlarne. Il Delegato fu portato semisvenuto e colpito da dissenteria all'ospedale e i Carabinieri ritennero prudente, sebbene fossero in tredici, coi cavalli, asseragliarsi in caserma e barricare le porte.

    Sono le 11 di notte. Si odono le urla selvaggie e le risa e le orribili bestemmie e le imprecazioni e il tonfo delle statue fatte precipitare dall'alto delle loro nicchie e lo scricchiolio delle tavole infrante condannate all'orribile distruzione.

    Il fuoco intanto ardeva in Chiesa, in diversi punti: sul sagrato della Chiesa, e questo era il rogo maggiore, ardeva in sacrestia e anche nel cortile interno. Il sinistro bagliore delle fiamme che crepitando salivano al cielo, l'acre odore delle sostanze resinose sparso per l'aria, il nero fumo che a guisa di colonna sorpassava le più alte vette e ripiegava ondeggiando spinto dal vento, davano alla scena un senso di mestizia e di terrore, sicché la fantasia, riscaldata da tante e tante paurose visioni, accresceva maggiormente l'orrore di quella notte veramente infernale!!

     

    Assalto alla canonica

     

    Intanto, come purtroppo si temeva, alcuni stavano preparando l'assalto alla Canonica e infatti, con un grosso palo di ferro, si tenta di far leva e di far saltare la porta. Allora si odono ben distintamente le voci di alcune buone amiche della mia sorella Maria. 

    Maria! Maria! Salvati! Maria vieni giù! E questo grido era ripetuto a più riprese. Ma essa sebbene con la disperazione nell'animo e col terrore nel volto, andava ripetendo al fratello: 
    No, no, no, se non vieni anche tu!

    Allora prevedendo una situazione insostenibile, sebbene a malincuore fu decisa la fuga e furono prese tutte le precauzioni. Entrai nella piccola stanzetta ov'era nascosto, come un prigioniero, Gesù Sacramentato: aprii la porticina del tabernacolo, ne tolsi la Sacra Pisside che era molto grande e la Sacra Teca: riposi ogni cosa nella tasca interna della veste e per non far scorgere le traccie di ciò che tenevo sul petto, mi gettai una veste ripiegata sulla spalla sinistra e discesi le scale. 

    Pensai alla fuga di Gesù in Egitto cercato a morte dal crudele Erode. Oh! in quel momento, lo confesso, piansi di commozione. Pensai (e lo ricordo benissimo) al buon giovinetto Tarcisio, là nelle catacombe romane, che stringendo al petto il prezioso tesoro, si avviava frettoloso per le vie di Roma, non senza un giusto timore che Esso cadesse fra le mani sacrileghe dei persecutori di Cristo. Tutto questo passò nella mia mente in un baleno: feci un raffronto con la mia situazione e mi disposi ad affrontare anche la morte. Ho forse esagerato? Chi conosceva le intenzioni di quei forsennati? Quali erano i loro progetti, quali le loro idee?

    Aprii con circospezione la porta davanti: misi fuori il capo per spiare... e mandai innanzi la sorella la quale in un istante si trovò tra le braccia delle fide amiche.

    Fu caso o fu tattica? Vicino alla porta non vidi anima viva. Allora uscii io pure: richiusi pian piano dietro di me la porta... ma... non avevo fatto neppure un passo, ecco scorgo due uomini i quali corrono verso di me: mi afferrano uno per un braccio ed uno per l'altro [.... ] e, senza proferire parola, mi conducono a viva forza nell'andito della casa delle sorelle Lanconelli e mettono il catenaccio alla porta. Io mi vidi perduto e pensando essere giunta l'ultima mia ora, piangendo e singhiozzando, gridai: 

    Lasciatemi la vita! Lasciatemi la vita! Che cosa vi ho fatto? E quei due: Ora stia qui, adesso andiamo a prendere gli ordini del Comitato rivoluzionario.

    Uscirono per un'altra porta e scavalcarono un muro. In quell'andito regnava un buio perfetto: la mente era smarrita, il cuore mi batteva fortemente. Furono momenti che non si possono descrivere.

    Ad un tratto ecco aprirsi una porticina oscura, e come un'ombra, apparire un giovane alto e tarchiato. Che cosa fa qui signor Rettore? mi dice. Venga, venga con me, non abbia alcun timore.

    Era certo Domenico Corbelli: il mio salvatore! Mi condusse per oscuri sentieri e per vie deserte fino alla casa di d. Serafino, distante circa 400 metri. Quivi fui accolto con la solita gentilezza e cordialità e, fatto un cenno al sacerdote che subito intuì, fu portato il Santissimo Sacramento nella sua camera da letto e rinchiuso in un armadio, dove rimase 17 giorni, a tutti ignoto: noto soltanto ad alcune pie donne le quali di tanto in tanto si recavano in pio pellegrinaggio a far visita al S.S. Sacramento.

    Non molto mi fermai in quella casa: appena messe in salvo le Sacre Specie, volli ad ogni costo far ritorno alla mia Canonica deciso a vivere o morire presso la mia Chiesa, piuttosto che vilmente disertare ed anche per vedere e constatare lo scempio che si era fatto della casa di Dio.

    Era di poco passata la mezzanotte e quasi tutti se ne erano andati al riposo; pochi restavano ancora i quali, appena mi videro e certi di essere da me riconosciuti, vigliaccamente si profersero di fare opera di spegnimento, mentre poi essi medesimi erano di quelli che dianzi avevano appiccato il fuoco. Ricordo benissimo che io, sia perché li ritenni veritieri, sia per cattivarmi l'animo loro, ebbi il pensiero di offrire loro alcuni fiaschi del mio vino migliore.

    La mia sorella, non so come, saputo del mio ritorno in Canonica, me la rividi al fianco. Ritornato il silenzio (non si udiva che il crepitare delle fiamme), tutto solo, decisi di fare una ricognizione in chiesa, Mio Dio!! Nella sacrestia tutto l'intonaco dei muri era caduto: le finestre e le porte e i tre grandi armadi erano già ridotti in cenere e il braciere, senza esagerazione era alto pili di mezza gamba, in modo che per passare fu giocoforza fate una corsa a gambe levate. Con in mano una candela accesa, al sinistro bagliore delle fiamme che ancora qua e là ardevano, tenendo ben tappata la bocca per non essere soffocato dal fumo, cautamente mi avanzai.

    Il busto in gesso del defunto parroco d. Ricibitti era senza naso, senza un occhio, senza un orecchio. Qualche lampada a terra tutta contorta, qualche brano di statua, qualche candelliere spezzato, croci e immagini a terra. I cancelli in stile gotico della graziosa cappellina di Lourdes affissi al muro erano spaccati. Avanti ancora: Mio Dio!! Che si vede là in terra? la statua di S. Luigi era stata decapitata e il tronco giaceva al suolo senza testa! 

    (Mi è sempre stato affermato, anche dal cappellano d. Serafino, che il carnefice di quel povero santo fu il sig. [...], il quale l'aveva a morte con lui perché il santo della purezza).

    Fatta questa rapida ricognizione, ritorno alle mie stanze e mi pongo alla finestra dietro le persiane per spiare e per osservare: era poco piu' dell'una dopo mezzanotte. Non si vedeva anima viva: regnava un silenzio sepolcrale! Giù nella piazza che fiancheggia la chiesa, ardevano ancora i resti di quello che fu il Circolo monarchico. Scorgo però in lontananza avanzarsi due ombre: chi sono?... sono due carabinieri che vengono dalla caserma: si avanzano cautamente tenendo il moschetto imbracciato, ossia in posizione di sparo: vanno pian piano fino al rogo, si fermano un istante... danno uno sguardo intorno... e poi di nuovo alla caserma.

    Poco dopo, nel cupo silenzio, interrotto soltanto dal continuo abbaiare dei cani, scorgo altre due ombre avanzarsi verso la Canonica: non fui capace di riconoscerli... Andiamo sul campanile, dice l'uno di essi, andiamo a suonare il campanone. Mi corse un brivido per le vene. Mi precipito allora ad avvertire la sorella che era andata a riposare, prevenendola ed assicurandola a non aver paura: era tanto terrorizzata! E le campane cominciano a suonare nella notte triste e lugubre, non già per invitare i fedeli alla preghiera e al sacro tempio, ma per avvertire che i rivoluzionari erano essi  padroni del campo!!

    Quel suono insolito nel cuore della notte, quei rintocchi, quel disordinato scampanio metteva terrore in ogni cuore e presagiva quello che sarebbe avvenuto nella seguente giornata.

    Nella vana speranza fossero già sazie del loro bottino, ma pur sempre dubitando, scendo di nuovo nella Chiesa: passo di corsa sul braciere ardente della sacrestia, infilo la scala a chiocciola che mena a uno stanzino superiore e, trovate tutte le bandiere delle Confraternite, ricamate in oro e seta, ancora intatte, le porto in Canonica. Ritorno sul luogo, afferro con ambe le braccia tutti gli apparati di seta che restano e giù a precipizio per le scale, passando di nuovo fra il fumo asfissiante e il braciere di fuoco della sacrestia e tutto metto in salvo.  

     

    • 11 Giugno 1914 giovedì

    Già è spuntata l'alba: comincia ad affacciarsi qualche brutto ceffo e spiando dalla porta dice al parroco: Va pur là, porta pure dentro... fra poco ritorniamo a fare il resto.

    Infatti non trascorre molto tempo che la folla comincia ad ingrossare, e varcata la soglia della porta, che avevo alla meglio sbarrata, si prepara a sterminare il resto.

    Io sono in mezzo a loro in Chiesa e nessuno mi tocca: solo quando mi chino per raccogliere da terra una lampada, uno dei quei brutti ceffi mi dice in tono arrabbiato: Lei non deve prendere niente, dobbiamo distruggere tutto il resto.

    Prima di allontanarmi volle il caso che io assistessi ad una scena che ancor oggi, dopo tanti anni, ho presente alla fantasia e ancora mi fa tremare di orrore.

    Vi era all'altare del S. Sacramento un magnifico Crocefisso intagliato in legno, opera pregevole ed artistica e venerato dai fedeli come un simulacro miracoloso, che veniva scoperto soltanto raramente nelle pubbliche calamità, ed essendo coperto da una tendina, era rimasto nascosto ed inosservato. Ebbene (fremo d'orrore) vidi i due fratelli [....] afferrarlo uno per i piedi e l'altro per la testa e portarlo fuori sul rogo che ancora ardeva, dopo averlo coperto di dileggi e di scherno. Questa, per me, fu l'ultima cosa cui assistetti, poi rientrai nel mio ufficio.

    Tutto ciò che sto narrando sembrerebbe inverosimile e fantastico, se io stesso non avessi assistito a queste scene e non fossi stato testimone oculare.

    Era rimasto intatto ancora, perché inosservato, il bell'organo costruito dalla ditta Strozzi di Ferrara: in un baleno un gruppo sale nell'orchestra, con bastoni si comincia a percuotere la tastiera d'avorio e il meccanismo interno, riducendo il tutto ad un informe groviglio di ferri, poi si tolgono dal loro posto le magnifiche canne di stagno della facciata e poi quelle di piombo e di zinco (in tutto circa 800) e si danno ai bambini, i quali, suonando a tutto fiato, corrono nella piazza e incomincia allora quella musica barbara, quella nenia che i poveri Selvaggi dell'Africa sogliono fare durante le loro feste cannibalesche.

     

    Assalto alla canonica

    Sono circa le otto del mattino del giovedì, festa del Corpus Domini. Tutta la piazza è rigurgitante di uomini: i messi dei rivoluzionari avevano battuto per lungo e per largo tutta la campagna dicendo: 
    Se non verrete in piazza ad assistere allo spettacolo, noi appiccheremo il fuoco alle vostre case e ai vostri fienili. Potete quindi immaginare se non erano intervenuti.

    Ad un tratto, mentre io e la sorella stavamo rinchiusi entro l'ufficio parrocchiale, si odono dei colpi tremendi alla porticina che comunica con la Chiesa: i colpi si ripetono e la porta si spalanca. Appena entrati quei forsennati afferrano un magnifico armonium della ditta Tubi, giunto da pochi giorni da Lecco, e senz'altro lo gettano nelle fiamme: tutto quello che prima era stato con tanta fatica salvato, viene dato in pasto alle fiamme: libri, scansie, cappelli, vesti personali, tavolini, finestre, due casse piene di candele, ombrelli, registri parrocchiali dei morti, dei battezzati, dei cresimati e dei matrimoni. Una cosa soltanto non viene consegnata al fuoco, ossia il tesoro della B. V. di Lourdes consistente in molti pregevoli oggetti d'oro, catene, braccialetti, orecchini, anelli, orologi d'oro, fermagli ecc.: questi oggetti vengono spartiti fra uomini e donne.

    Una volta spalancata la porta di casa e degli appartamenti privati, non v'era più nulla a sperare e non restava che tentare di nuovo la fuga. Infatti ambedue piangendo, abbandonammo ogni cosa (ricordo che mi fu gettato contro un tizzone ardente) e cercammo uno scampo presso due famiglie, accolti con cortese ospitalità. Quello che poi accadde è più facile immaginare che descrivere: saliti sul campanile continuarono quasi tutta la giornata a suonare a distesa le campane, finché, stanchi del suono, si tentò di spaccarle e, non riuscendovi, furono staccati i battagli e gettati entro il pozzo della canonica; pure nel pozzo furono gettati i due ombrelli pel S.S. Sacramento, candellieri, pietre, legni e fu divelto persino il davanzale del pozzo stesso e infine con travi sporgenti ne fu chiusa l'apertura. La malignità dei ribelli giunse persino a spezzare le pietre sacre degli altari: armati di pistole e di fucili spezzarono tutti i cristalli, in numero di circa 300, del coro, dei lunettoni, e del teatro parrocchiale, e profanarono la Chiesa con atti schifosi ed orrendi e sacrileghi. Con le loro pistole presero a bersaglio i busti marmorei dei poveri morti e la balaustra di marmo dell'altare maggiore che ancora ne porta le cicatrici.

    Tutto il giorno fecero gozzoviglia e finalmente, non rimanendo più nulla da distruggere, presero di mira la protettrice del paese, la B. V. delle Grazie. E qui la B. V. si rivelò con un vero prodigio.

    Sopra l'ancona del coro, ad una altezza di circa cinque metri, circondata da una bella cornice, era collocato un quadretto di terracotta raffigurante la B. V. delle Grazie col Bambino. I rivoluzionari salgono sui gradini dell'altar maggiore e cominciano a tirare colpi di sasso contro l'immagine: il quadretto, appeso ad un cordoncino, dondola, ma non si spezza e non cade. Visti inutili i sassi, allora danno mano al fucile: si spara, il quadretto dondola ancora, ma non si spezza. Visto inutile ogni tentativo, si abbandona l'impresa e il quadretto, a loro dispetto, rimane fermo al suo posto.

    Oh! Vergine Santa: o cara nostra protettrice: le anime buone, inorridite da così orrenda strage di sacre immagini e di tante cose consacrate al culto di Dio avrebbero voluto un segno di vendetta divina e chiedevano che almeno una mano di quei sacrileghi fosse rimasta inaridita e quasi quasi ne furono scandalizzati e ne fu scossa la loro fede, ma ecco che Tu, o Madre buona, con un mirabile prodigio, con un atto così significativo hai voluto vendicarti dando chiaramente a conoscere che Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva, e ancora oggi Tu sola, o unica e cara immagine, scampata cosi mirabilmente a tanto sterminio, Tu sola sei rimasta a perpetuo testimonio dell'orrenda rovina e le due corone d'oro poste sul tuo capo e del Santo Bambino per mano del defunto mons. Bacchi il di 8 settembre 1916, sono là ad attestare ai posteri che invano si lotta e si guerra contro Dio!

    Se qualcuno entrando nella chiesa di Alfonsine percorre la navata sinistra, a metà circa della medesima potrà osservare un quadretto di legno scolpito, il quale rappresenta un santo cappuccino in atteggiamento devoto, con la corona in mano e la bisaccia che gli pende davanti e di dietro a mo' dei frati questuanti. Quella immagine ha una storia abbastanza significativa e che dimostra, accanto alla cattiveria, l'ignoranza, l'aberrazione del povero popolo quando è mal condotto dai suoi capi che lo guidano.

    Mentre ferveva con tanto accanimento la distruzione di ogni cosa sacra, fu veduto un uomo con un'asta di ferro, colpire l'immagine per spezzarla e distruggerla: ripete i colpi (che ancora sono ben visibili) e sta per atterrarla, quando arriva di gran corsa un altro il quale, con fare disperato gli dice: 
    Ma cosa fai? - Che faccio? - risponde l'altro meravigliato. Ma non vedi che è S. Andrea? Se S. Andrea apre il sacchetto degli accidenti, non siamo rovinati? 
    (Il dialogo avvenne in romagnolo: Se sant'Indrei l'arves e malet da i azident, an sen arvinè). Così il quadretto fu salvo ed è tutt'ora visibile.

    Frattanto fuori, nel piazzale della Chiesa, si commettevano sempre maggiori oscenità. Avreste veduto qualcuno in piazza che, per dileggio, si metteva una cotta e una stola da sacerdote, e prendendo in mano una croce faceva atto di benedire e poi gettava quel simbolo nel rogo tra le risa dei compagni.

    Fu veduto un tale prendere in mano il magnifico ostensorio d'argento, di gran valore e, ghignazzando, fare atto di benedire e gettarlo nelle fiamme. Furono veduti alcuni colpire alcune sacre immagini con armi da fuoco e gettarle poi nel braciere; altri vestirsi dei camici, delle cotte e delle stole e le donne, sì anche le donne non furono estranee, portar via e nascondere sotto le vesti, camici e tovaglie da altare e biancheria d'ogni sorta.

    Mentre queste cose si compivano nella Chiesa e nella Canonica, fuori avvenivano altre cose che la mente rinuncia a descrivere tanto appaiono inverosimili.

    Qualcuno potrebbe obbiettare: Ma che facevano là dentro quei 13 carabinieri a cavallo? Mistero. Essi pensarono bene di barricarsi in caserma, mentre il popolaccio, armato d'ogni sorta di armi, di pistole, di pugnali, di rivoltelle, di fucili, andava gridando sotto la caserma stessa: Ragazzi, fra poco veniamo anche da voi e vi conceremo per le feste. Furono veduti i carabinieri, mentre il fornaio doveva entrare per portar loro il pane, aprire il portone della caserma, ma col fucile imbracciato e scaglionati in modo, stando parte in piedi e parte in ginocchio, da poter, in caso di invasione fare una scarica sicura e micidiale, con una cassa di munizioni accanto.

    Il  comunismo

    Il vero comunismo fu messo in pratica ad Alfonsine in tutto il senso della parola, altro che in Russia! Ma ahimé!... ebbe la durata di pochi giorni soltanto. 

    I rivoluzionari, ormai padroni del campo, senza la minima resistenza da parte dei cittadini che allibiti e terrorizzati si erano asseragliati in casa, chiudendo porte e finestre, requisirono carri e bestiami dai contadini (fra questi vi fu anche il colono della parrocchia che abita in via Borse) e li obbligarono a seguirli: e come ubbidivano! Guai se avessero opposto un rifiuto! 

    Armati di tutto punto e seguiti dai carri bussarono dapprima dal sig. Violani Sante e gli intimarono di consegnare circa un centinaio di quintali di grano e requisirono pure la sua bella automobile Fiat della quale si servirono i capi per scorazzare a loro piacimento, per dare ordini e comunicare coi paesi vicini incitandoli alla rivolta. 

    Poi si recarono presso il sig. cav. Bruto Marini, giunto la sera innanzi da Roma in automobile, il quale, al loro appressarsi, non solo non oppose resistenza ai ribelli, ma ordinò ai suoi dipendenti che spalancassero le porte e li ricevette a braccia conserte. Anche qui fecero bottino abbondante e specialmente fecero copiose libagioni. Indi si recarono presso la sig. Carolina Mirri, sul ponte nuovo, bussarono alla porta e, appena aperta, la signora disse loro: Che cosa cercate? Ci ha mandato il Comitato - rispose un tale- a caricare tutti i pezzi di maiale. E lì'... salami, prosciutti, ed altri generi in abbondanza.

    Andarono poi dal sig. Ricci Antonio, bottegaio, e requisirono armi, benzina, cartuccie da pistola, da fucile. E chi paga? - disse il sig. Ricci. Scrivete tutto e mettetelo a conto del Comitato e del Governo nuovo, gli fu risposto.

    Il ramaio Stefano Grazioli dovette dare tutte le catene di ferro che servirono poi a sbarrare le strade.

    N.B. - Mi preme far notare che di tutti questi fatti che sto narrando io non fui testimone oculare, ma li appresi in seguito da persone degne di fede: senza dubbio qualche inesattezza vi sarà infallantamente.

    Si recarono poi presso il Sig. Anselmo Alberani, nella via Reale, verso il quale avevano un odio veramente mortale, e qui compirono atti veramente briganteschi. Aperte le porte del palazzo, il sig. dott. Anselmo fu preso, circondato da una turba di arrabbiati rivoluzionari; uomini e donne, gli fu puntata al petto una pistola e sopra il suo capo un giovane teneva sospesa un'accetta: fu perquisito, gli furono tolti i denari, fracassati tutti i mobili della casa e specialmente della camera matrimoniale, e portato via quanto vi era di commestibile, anche la pentola che bolliva sul fuoco.

    Tutto questo ben di Dio fu caricato sui carri e trasportato nella pubblica piazza dove, terminata la requisizione, incominciò la spartizione del bottino al grido di «Viva il Comunismo! Viva la Rivoluzione! Oh se durasse sempre così' ». 

    E fu udito anche il grido: « Dman anden a test » (domani andiamo a teste). 

    Infatti in quei giorni circolava la voce che il Comitato rivoluzionario avesse redatto una lista di cittadini cui doveva essere mozzato il capo. Ed era uno spettacolo veramente singolare e comico assieme vedere quella folla andarsene con sacchi sul dorso, con prosciutti sotto le braccia e pane e vino ed ogni ben di Dio. Anche un ragazzetto, soprannominato Baratieri, orfano di padre e di famiglia veramente povera, che di giorno faceva servizi al parroco, anch'egli chiese di andare a prendere la sua parte ed infatti si ebbe un bel prosciutto.

    Il Comitato rivoluzionario risiedeva in permanenza e dava ordini che erano seguiti a meraviglia. Innanzi tutto aveva ordinato la requisizione, in tutte le case, di tutte le armi e si dovettero cedere, sebbene a malincuore, tutti i fucili, pistole e rivoltelle ecc. Una volta disarmati i cittadini non v'era più nulla a temere. Furono sbarrate le vie con grosse catene e in capo ad ogni via stavano due guardie rivoluzionarie col fucile alla spalla con ordine di intimare « alto là » a chiunque non avesse il lasciapassare del Comitato.

    Il sacrestano della chiesa, Patuelli Antonio, ottenne anch'egli il suo lasciapassare che io stesso ebbi in mano e che era così' concepito:

    « Si rilascia il seguente lasciapassare al sig. Antonio Patuelli perché non sia toccato nella sua roba e nella sua famiglia. Firmato: il Comitato rivoluzionario », e seguivano i nomi.

    Con questo triste bilancio di delitti popolari stava terminando la giornata del giovedì, festa del Corpus Domini.

    Ospitato gentilmente dalla famiglia Bendazzi, presso la quale ebbi ogni conforto, verso sera volli far ritorno alla mia residenza. Mi premeva assai constatare quale sorte avevano corso le mie personali suppellettili di casa e infatti solo, solo mi avviai verso la piazza.

    In prossimità delle scuole comunali vidi venirmi incontro il capo dei rivoluzionari, Mossotti Ferruccio. Era rosso in viso, aveva gli occhi fuori dell'orbita che sprigionavano scintille di fuoco, procedeva dondolando la sua persona a destra e a sinistra: l'ho ancora presente alla mente: si fermò, mi diede una terribile occhiata e passò oltre.

    Giunto che fui presso il Caffé degli anarchici, detto il Caffé della Nicolina, scorsi una moltitudine di persone che stava ai tavolini a godersi il fresco, ed a contemplare la scena sorbendo il caffé e centellinando bicchierini di liquori con un'allegria indescrivibile. Appena mi videro fecero un gesto di sorpresa e ricordo uno che disse: Bé! non è mica fuggito! Ma se è ancora qui!, e tutti gli occhi si appuntarono su di me.

    Io tirai innanzi per la mia strada, colpito dall'orrendo spettacolo che si presentava ai miei occhi: era sogno o realtà? Il grande Palazzo Municipale, posto di fronte alla Chiesa, era tutto in fiamme: il tetto sfondato, tutte le finestre altrettante bocche di fumo e di fuoco; l'orologio pubblico era rimasto penzoloni, non esistevano che i quattro muri esterni affumicati e le rovine fumanti, e nella grande immensa voragine di fuoco in un baleno rimasero distrutti tanti oggetti di valore e di pregio. Si poté salvare soltanto lo Stato Civile.

    Giunto che fui alla Canonica, mi vidi di nuovo al fianco la sorella. Pensavo di riposare almeno la mia notte in pace, stanco com'ero per la lunga veglia e dalla continua agitazione dell'animo per le emozioni provate, ma era destino che ancora non dovessi aver pace.

    Mentre si era sull'imbrunire, mi si presentarono alcune persone per dirmi: Signor Rettore, per carità, fugga, fugga e fugga presto, perché è già stato stabilito di far saltar in aria la Canonica con le bombe. Io risposi a costoro che ero deciso in tutti i modi a non allontanarmi dalla mia casa, qualunque cosa accadesse... e la mia sorella, a tale annunzio, potete immaginare, a piangere e a supplicare.

    Poco dopo altre persone, e persone veramente rispettabili, cui si poteva prestar fede, vennero presso di me e di nuovo mi raccomandarono, anzi mi scongiurarono a lasciare la Canonica, perché nella notte avrebbero fatto saltar in aria ogni cosa.

    Allora io decisi di passare la notte altrove, non già per timore di mali peggiori (ormai io ero a tutto rassegnato) ma per non far morire di passione la sorella la quale, già febbricitante e quasi morta dallo spavento, ormai non si reggeva più in piedi.

    Ricordo che nell'allontanarmi dalla piazza, passando avanti alla bettola dei Minguzzi (detta dei Ciconi), uno dei figli, Antonio, mi seguì per spiare ove andavo a rifugiarmi ed io dovetti fare parecchi giri e parecchie svolte per fargli perdere le mie traccie. Come infatti così avvenne.

    Passai la notte a Fusignano presso la mia famiglia e al mattino, innanzi giorno, presi la via per Faenza: mi premeva assai mettere il Superiore al corrente di tutto l'accaduto e infatti, accompagnato da d. Michele Pirazzini, ebbi tosto udienza da mons. Bacchi. Al racconto dettagliato che gli feci di quanto era accaduto nella Chiesa di Alfonsine, alla narrazione dei patimenti sofferti, delle cose avvenute, che nessuno mai potrà immaginare nella loro realtà, egli ne fu talmente commosso che, senza proferire parola, si alzò, andò nella stanza attigua, ov'è la cappella vescovile; e pregò e pianse. Ritornato, mi disse parole paterne di conforto, mi suggerì alcune raccomandazioni e alcuni consigli e terminò dicendo: Dite pure la S. Messa anche con la Chiesa senza porte, anche sugli altari fumanti: che il popolo veda lo scempio che si è fatto della vostra Chiesa!

    Frattanto nella giornata seguente avvenivano fatti degni di essere ricordati. Si tenne un pubblico comizio in piazza e il sindaco Camillo Garavini fu udito (anche il sottoscritto sentì bene) gridare in atteggiamento disperato: Lo sciopero è terminato: siamo stati traditi!

    Queste parole mi ridonarono la vita. Appena seppi che le violenze erano cessate, dimenticando i passati patimenti, corsi, mi precipitai nella piazza e aiutato da d. Serafino Servidei, giunsi in tempo a salvare dalle fiamme il grande ponte di legno che sta fissato sul retro dell'altar maggiore, meno due colonne; il qual ponte ancora ben visibilmente conserva le traccie delle bruciature, e salvai tutte le ferramenta delle porte e altri oggetti. Più fortunato fu il sig. Antonio Martini il quale, rovistando fra le ceneri, rinvenne il piedestallo dell'ostensorio d'argento, ma in cattive condizioni e in parte amalgamato con altri metalli. Furono pure sottratti al fuoco alcuni registri dei battesimi fra i quali, fortunatamente, il volume ove è registrato l'atto di battesimo del poeta Vincenzo Monti. Uno dei vasetti degli Oli Santi fu trovato in un campo a Villanova di Bagnacavallo e riportato alla chiesa di Alfonsine.

    La fama di questi fatti erasi già sparsa in ogni luogo: cominciavano ad affluire da ogni parte automobili di curiosi che venivano dai più lontani paesi e, soprattutto, corrispondenti di giornali i quali davano l'assalto a chiunque, avidi di notizie per comunicarle ai giornali.

    Giungevano forestieri i quali chiedevano ansiosi: Ma dov'è quella Madonnina? Quella immagine incolume dov'è? Giungevano pure autorità civili d'ogni specie: giunge pure il deputato Vittorio Vinai il quale promise al parroco di interessarsi presso il Governo per il risarcimento dei danni e non mancò neppure il Procuratore del Re in persona per l'esame dei testimoni. Mons Bacchi, che il 24 dello stesso giugno era a Fusignano, non credette o meglio non ardì andare ad Alfonsine.

    Improvvisamente un bel mattino, mentre ancora si era in trepidazione e nell'incertezza, si udì una voce: La cavalleria! La cavalleria! Era la nostra salvezza. Giunsero infatti ben 200 soldati di cavalleria, comandati dal colonnello Riccordi, il quale, senz'altro, alloggiò i soldati in chiesa e prese il comando supremo.

    Accadde allora uno spettacolo veramente buffo, veramente degno di scena teatrale. Avreste veduto quei coraggiosi rivoluzionari, che avevano avuto tanta audacia e tanto accanimento nel lottare ed inveire contro innocue immagini di Madonne e di Santi e contro inermi cittadini lasciati in abbandono da chi avrebbe dovuto difenderli, darsi alla fuga più vergognosa, saltando fossi, scavalcando muri e siepi e ogni ostacolo! La triste commedia si era cambiata in una ridicola farsa. Addio sogni dorati di rivoluzione e di comando!! Addio vani sogni di comunismo!! Addio bei sogni di basse vendette personali!! Addio bei sogni di passare alla storia come leggendari eroi della patria! Lo spettro delle responsabilità, per tante enormità commesse in onta alle leggi più comuni della civiltà e della fratellanza umana, lo spettro del redde rationem si avanzava, lento si, ma inesorabile.

    Oh! avreste veduto allora persone rispettabili per la loro condizione sociale e per l'ufficio che ricoprivano, in attegiamento di compunzione, venire a me davanti, a me, povero prete, che avevo tanto sofferto e dirmi:

    Signor parroco, mi raccomando, faccia opera di pacificazione: predichi bene in Chiesa il perdono!

    Cosi ebbero termine le famose giornate della Settimana Rossa, le quali furono ispirate e dirette dal famoso anarchico di Ancona, Errico Malatesta. 

    Ritornato l'imperio della legge, parte dei colpevoli si rifugiò a S. Marino (Camillo Garavini) e in Francia (Gessi, veterinario), parte furono rinchiusi nelle prigioni di Ravenna in attesa del giudizio il quale però non ebbe luogo per il sopraggiungere dell'immane guerra che travolse popoli e nazioni e fece versare tanti fiumi di lacrime e di sangue.


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    Il municipio di Alfonsine 
    con i segni l'incendio della "Settimana Rossa"

    (un click sull'immagine  per vederla ingrandita)

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