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I fatti della Settimana Rossa
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A Ravenna La rivolta della cosidetta "Settimana Rossa" era al culmine. Il prefetto Focaccetti, allarmato per le notizie che, sia pur confuse, provenivano dalle campagne, decise di rimettere il potere nelle mani del Comandante della Divisione militare di Ravenna. Il governo di Ravenna fu assunto dall'autorità militare maggiore generale Giuseppe Ciancio che emanò un proclama nel quale invitava a cessare le manifestazioni ed a riprendere il lavoro. Contemporaneamente mandò picchetti di truppa a presidiare le porte, sostituendosi ai dimostranti, e ad impedire a chiunque l'ingresso o l'uscita dalla città. Qui sotto l'intervista del 1964 a due degli insorti tra i quali il repubblicano Arnaldo Mazzotti (cliccare al centro)
La mattinata dell'11 giugno il Generale Luigi Agliardi (pluridecorato bersagliere di Cina e di Libia), che comandava in quel momento la brigata Forlì, era partito verso Cesenatico su due carri trainati da cavalli, con sei ufficiali di cui due di Marina per ispezionare la costa e prevenire possibili sbarchi nel caso ci fosse stata la guerra, controllando opere antisbarco. Ad un posto di blocco dei dimostranti in armi, in località Villa Savio, i carri furono lasciati inspiegabilmente passare. Raggiunta Cervia trovarono la strada sbarrata e dovettero ritornare al ponte del Savio. Qui i dimostranti di prima non si lasciarono sfuggire il personaggio. I due carri furono fermati dagli insorti. In particolare fu una paesana, la signora Luigia Bertozzi detta Clodovea, a prendere le briglie dei cavalli incitando i dimostranti. Non servirono le spiegazioni che la delegazione non aveva nulla a che fare con lo sciopero. Luigia
Bertozzi detta Clodovea Solo a mezzogiorno
arrivò a Ravenna la notizia che il generale Agliardi e alcuni ufficiali erano
stati fatti prigionieri. Il Generale Luigi Agliardi Il generale Luigi Agliardi, nato a Mantova nel 1858 aveva combattuto nella campagna d'Africa del 1895-96, in Cina nel 1900-1902 e in Libia, guadagnandosi numerose onorificenze. Quell'episodio costò al generale Agliardi carriera e onorabilità. Fu infatti collocato a riposo in tutta fretta, non essendo tollerabile per il buon nome del regio esercito che un suo insigne rappresentante potesse così ingloriosamente capitolare nelle mani della "teppa" sovversiva. Nonostante la brutta avventura del giugno 1914, all'entrata in guerra dell'Italia, fu richiamato in servizio, meritandosi una medaglia d'argento nella difesa della testa di ponte di Cadroipo. Fermato dai rivoltosi e, non potendo difendersi perché le sciabole erano legate in fascio a cassetta. fu coi suoi condotto nella trattoria, caffé Torsani, l'unica del posto, sotto l'argine del fiume Savio, e quindi tradotti al locale circolo repubblicano.
Alla intimidazione della consegna delle armi, l'ufficiale poteva ingaggiare uno scontro che sarebbe comunque stato mortale o aderire e considerare forse finita la propria carriera. Il Generale scelse la seconda. La sua prigionia fu brevissima, non senza imbarazzo da parte degli improvvisati rivoluzionari. Infatti, bastò che Armando Mazzotti, repubblicano e suo ex bersagliere e comandante, membro del comitato d'agitazione, lo riconoscesse e prendesse le sue difese perché i carcerieri li invitassero tutti a banchetto a base di tagliatelle, coniglio, patate e vino. Intanto uno squadrone di cavalleria, di stanza a Classe, si mosse verso Savio. La tensione che si
era spenta fra i contendenti si riaccese di lì a poco quando il
plotone di cavalleria uscito intimò la consegna dei prigionieri. Gli scioperanti erano decisi a una disperata resistenza e il Generale Agliardi per evitare lo scontro propose di parlamentare col comandante del plotone egli stesso. Nel frattempo la partenza di Agliardi creò discussioni e divisioni tra i manifestanti, tanto che non si voleva più 'liberare' i sei ufficiali. Fu improvvisato un comizio e, fatto
importante, la situazione fu risolta dal giornalista Rino
Alessi che era presente come inviato incaricato del 'Giornale del mattino'
di Bologna ed era in contatto con i rivoltosi (vedasi
articolo). Così spiegò
loro che non era vero che il Re era fuggito a Gaeta, né che
Armando Mazzotti Dal "Giornale del mattino" Bologna 17 giugno 1914 una lettera degli abitanti di Savio al generale Agliardi: "La nostra - si giustificavano (in un tentativo un po' maldestro di minimizzare e schivare prevedibili conseguenze giudiziarie su di loro) "i rapitori" del generale - fu opera di difesa e non di offesa: temevamo per i nostri fratelli e per noi, ecco il perché dell'amichevole e bonario sequestro.. Se avessimo soltanto potuto sospettare che tale pericolo non esisteva, saremmo stati orgogliosi di facilitarle il libero transito per la nostra Villa. Avemmo torto di non crederle, mentre la sua bonarietà e franchezza ce ne dovevano fare persuasi" Intanto, però, lo scalpore suscitato dal fatto di Savio indusse il prefetto - che non riusciva più a comunicare con le autorità centrali, a loro volta allarmatissime, poiché tutti i tentativi di inviare agenti in bicicletta o in motocicletta si infrangevano di fronte ai blocchi stradali degli scioperanti - a dichiarare lo stato d'assedio e passare tutti i poteri all'autorità militare. Vennero chiuse le porte della città, piazzate mitragliatrici nei punti strategici, ordinato ai negozi di aprire, impedito a chiunque di entrare in città, spezzato infine ogni rapporto tra le Case del Popolo di città e gli scioperanti delle campagne. Il "fermo" di Agliardi e del suo seguito fu l'unico episodio di rilievo di tutta l'area sud di Ravenna, che rimase di fatto immune da violenze. Analoga considerazione può esser fatta, peraltro, per i borghi rurali immediatamente a nord del capoluogo (Mandriole, Sant'Alberto), zono bracciantili non meno politicizzate e anticlericali della Bassa, ma marginali rispetto alle due assi principali di propagazione dello sciopero: la via Emilia e la via Reale. A Ravenna al pomeriggio il Comitato d'Agitazione, riunito in modo permanente alla Casa del Popolo, ricevette la notizia che la CDGL tramite il suo segretario Rinaldo Rigola aveva dichiarato la cessazione dello sciopero a partire dalla mezzanotte, e decise di "sospendere" lo sciopero. In molti si rifiutarono di credere, in più casi si videro i manifestanti, esasperati bruciare i giornali recante la notizia della fine dello sciopero. Ecco il testo del comunicato, pubblicato su "La Libertà" 13 giugno 1914 e "La Romagna Socialista" 14 giugno 1914: "... Lo scopo per cui ci eravamo mossi è raggiunto; raggiunto non è invece lo scopo ideale che inspira (sic) tutto il nostro movimento. Un comitato unitario rappresentante tutte le forze sovversive organizzerà e svilupperà le nostre azione avvenire. Ora torniamo tutti al lavoro, alle case, lieti del dovere compiuto, orgogliosi della minaccia che ci arde nel cuore. Dalla mezzanotte d'oggi - anche per disposizione delle organizzazioni centrali solo stasera ricevute - lo sciopero è sospeso!" L'onorevole Pirolini, repubblicano, eletto nella circoscrizione di Ravenna arrivò da Forlì e fu invitato a tenere il comizio che spiegasse tutto ciò. Nonostante gli oratori che lo avevano preceduto avessero eccitato la folla, lui decise di dire la verità: la gente capì e se ne tornarono tutti a casa.
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