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 Un
                libro sulla Settimana Rossa alfonsineseQuando Alfonsine
 divenne famosa
 (scritto da Luciano Lucci)
 
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    | La
      festa dello Statuto | 
      
        
    | "Non
      v'è dubbio che se Ancona fu il centro irradiante della Settimana Rossa,
      Alfonsine ne rappresentò per molti aspetti l'apoteosi, il luogo insieme
      fisico e simbolico, dove il miraggio rivoluzionario raggiunse il culmine,
      rendendo il nome di questa piccola cittadina a nord ovest di Ravenna
      celebre in tutta Italia"  (da "Settimana Rossa e dintorni di
      Alessandro Luparini) |  
    |  La data del 7
      giugno era quella in cui i monarchici celebravano
      la festa dello Statuto. Da socialisti, anarchici e repubblicani è vissuta
      come una ricorrenza di propaganda militarista. 
        Si
      tenne un comizio in piazza Monti "pro    Masetti", su iniziativa
      degli anarchici locali, con l'adesione dei socialisti e dei repubblicani.
      Intervennero Meschi, segretario della Camera del Lavoro di Carrara e Bacci,
      segretario della Camera del Lavoro di Ravenna. |  
    | Analoghe
      manifestazioni antimilitariste si tennero da vari mesi in varie parti d'Italia, contro le
      Compagnie di Disciplina e per la liberazione delle vittime del militarismo:
      
      
      
      Augusto Masetti  e Antonio Moroni.  Una grossa manifestazione fu attuata a Villa Rossa, sede
      repubblicana di Ancona, dove parlò Pietro Nenni, allora dirigente
      repubblicano, e Enrico Malatesta, vecchio storico esponente
      dell'anarchismo italiano.
       La
      protesta fu contro la guerra di Libia e per l'abolizione delle Compagnie
      di Disciplina nell'esercito, motivo per cui il soldato Masetti aveva
      sparato a un suo superiore. |  
    | Ad 
      
   
       Ancona  
      (clicca
      o tocca per
      maggiori dettagli) 
      
      un comizio fissato
      nella mattinata, che doveva svolgersi in Piazza del Papa, ma che era stato
      proibito, dato che pioveva, venne spostato dai dirigenti dei partiti, al
      pomeriggio alle 16, a Villa Rossa, sede dei repubblicani di Ancona.Gli aderenti ai
      partiti di estrema sinistra, repubblicani, anarchici, socialisti, si
      trovarono alla Villa Rossa per ascoltare diversi oratori. Erano presenti in circa cinquecento,
      in maggioranza anarchici e repubblicani.
 Poco dopo le 18 il
      comizio ebbe termine. All'uscita della gente si
      formò una specie
      di corteo. Molti volevano andare a manifestare in piazza Roma, dove si
      teneva un concerto
      militare. Sulla
      strada c'erano carabinieri ed agenti che dovevano impedire il formarsi di
      un eventuale corteo diretto al centro. Un gruppo di giovani tentò di passare.
 Nell'inevitabile
      scontro le pallottole dei carabinieri colpirono a morte  tre giovani
      lavoratori: due
                                        repubblicani Antonio Casaccia di 24 anni
                                        e Nello Budini di 17 anni, 
      che morirono
      all'ospedale, e l'anarchico Attilio Giambrignani, di 22 anni, morto sul
                                        colpo. 
                                        Episodi tragici di questo tipo erano
                                        accaduti sovente in quegli anni. Quello
                                        di Ancona fu la goccia che fece
                                        traboccare il vaso.
 |  
    | La
      notizia arriverà solo con i giornali del mattino seguente
 |  
          | I
      soldati dell'esercito regio di presidio ad Alfonsine non ebbero alcun motivo di
      intervenire. |  |  
    | Comizio
      per Masetti:chi era?
 
 |  
    | Contro
      manifestazione
      ad Ancona a Villa Rossa di repubblicani, anarchici e socialisti |  
    | Contro
      la guerra di Libia e le Compagnie di Disciplina |  
    | Ad
      Ancona i carabinieri sparano sulla folla: 3 morti |  
    | Ad
      Alfonsine la notizia arriverà il giorno seguente |  
    | La
      serata ad Alfonsine è calma |  
          
  | 
  
  
    | Lunedì
      8 giugno 1914 |  
    | La
      notizia viene appresa dai giornali | Quando
      le masse popolari alfonsinesi lessero sui giornali cosa era successo ad
      Ancona si diffuse commozione ed ira. I partiti si riunirono a attesero
      indicazioni da Ravenna. |  
    | Sciopero
      generale per il giorno dopo | A
      Forlì, Ravenna, Cesena, Faenza, Fabriano, Falconara, Senigallia e in
      altre città e paesi delle Marche e della Romagna, come pure Roma,
      Firenze, Milano e Napoli operai e masse popolari entrarono in agitazione e
      proclamarono lo sciopero generale per il giorno 9, a cui si accoderà la
      dirigenza nazionale della Confederazione del Lavoro e le Direzioni
      Centrali dei Partiti Repubblicano e Socialista. |  
    | Bandiere
      a mezz'asta abbrunate. | 
      In paese c'era calma totale, ma era solo apparente. Furono esposte bandiere
      a mezz'asta abbrunate, nelle sedi dei partiti, e anche nel Municipio. |  
    | Calma
      apparente in paese | 
      Alla sera, vista la calma il plotone di fanteria partì verso la ferrovia. |  
  
    | Primo
      assembramento di folla in piazza Monti | Mattino:Ad Alfonsine, come in altri paesi e città della Romagna, diffusasi la
      notizia dei gravi fatti di Ancona e della mobilitazione generale, si
      costituì un Comitato Rivoluzionario di socialisti, anarchici,
      repubblicani e sindacalisti che organizzò la protesta e aderì allo
      sciopero nazionale indetto dalla Confederazione Generale del Lavoro.
  Fu pubblicato un
      manifesto - come scrive Alessandro Luparini su "Settimana Rossa e
      dintorni"- della Camera del Lavoro repubblicana firmato da segretario
      Ferruccio Mossotti, in cui si esortava tutti i partiti popolari a
      coalizzarsi contro "il rifiorire delle novantottesche aberrazioni
      reazionarie" ed a levare un "severo monito ai violentatori della
      libertà" (La minuta di questo manifesto datata Alfonsine, 9 giugno
      1914, si trova nelle carte dell'Avv. Mario Ricci, oggi di proprietà del
      sig. Giovanni Valentinotti. In copia presso AISREC).
 Con suono di corni, fu chiamato
      tutto il popolo in piazza Monti.
      Dopo
      brevi discorsi e fu preparato un apposito palco per gli oratori.
 Verso mezzogiorno
      un gruppo di rivoltosi anarchici lanciò slogan per incendiare municipio e
      chiesa, qualcuno scrisse sul muro del circolo monarchico “Viva Masetti,
      abbasso l’esercito”.  Poi essendo
      mezzogiorno in punto, ora di andare a pranzo, l'esortazione a non
      commettere vandalismi, fatta da alcuni membri del Comitato Rivoluzionario
      fu ascoltata:il pranzo ad Alfonsine è sacro!
 Tutto proseguì
      lietamente nel primo pomeriggio.
      
       |  
    | Comizio
      di Mossotti e Garavini Prima
      penetrazione nella chiesa   Don
      Serafino Servidei col cappellano Antonio Pattuelli (Patvél)
  
        "Brasulina", dopo
      qualche anno
      dalla "Settimana Rossa" soldato
      nella 1° guerra mondiale.
  Il barbiere "Brasulina" davanti al negozio in piazza Monti
 | Alle
      17 un inconsueto suono delle campane annunciò il comizio.
       Pomeriggio:In Piazza Monti si tenne un comizio, organizzato dai socialisti  in
      cui parlarono Ferruccio Mossotti di Alfonsine, segretario della Camera
      Gialla (repubblicani) e il sindaco di Alfonsine Camillo
      Garavini, socialista.
 
 
      Il comizio fu annunciato col suono delle campane.
 
      Infatti un gruppo di manifestanti di tutti i partiti, ma "in
      prevalenza anarchici" (dalle memorie del parroco don Tellarini)
      entrò nel cortile della canonica. Alcuni anarchici
      erano entrati in chiesa, sfondando la porta della sacrestia.  "Penetrati da
      lì nel campanile suonano le campane, nonostante che anche il sindaco
      tenti di allontanarli" (relazione della Pubblica Sicurezza).
      
       Pare che stessero
      anche per strappare il grande Crocefisso appeso al muro, quando il pianto
      disperato di alcuni bambini presenti li fece desistere. 
 Il
      piazzale della chiesa, com'era all'epoca in cui avvennero alcuni degli
      episodi descritti nel diario del parroco Don Luigi Tellarini
      
      
        Il cappellano
      Don Mario Bonetti, in seguito a una discussione con alcuni del gruppo, si
      prese uno scapaccione e una spinta violenta che lo scaraventò in mezzo al
      cortile.  
      
       L'altro
      cappellano don Serafino Servidei fu colpito, a suo dire, da una pietra lanciatagli
      contro da Alfredo Ballardini, barbiere, detto “brasulina”, che gli
      produsse la rottura di una costola, secondo il referto del dott. Pasini
      che lo visitò all'ospedale. 
      Gli atti processuali documentarono che fu un
      altro, e non "Brasulina", a lanciare quel sasso.
       
      
     |  
    | Nel
      comizio si usano parole di fuoco per incitare gli animi | In
      piazza le parole degli oratori incendiarono gli animi. Le parole
      degli oratori tendevano a scaldare gli animi, secondo la filosofia del
      socialismo massimalista del tempo: sparare alto a parole e frenare nei
      fatti. 
      
        Dalla sintesi
      del rapporto del colonnello dell'esercito si legge: 
      "incitamento alla guerra civile, vilipendio delle istituzioni,
      istigazione a delinquere".
      
       |  
    | Corteo
      per Corso Garibaldi | Finito
      il comizio si formò un corteo lungo Corso
      Garibaldi, in testa i repubblicani con Ferruccio Mossotti (alfonsinese e
      segretario della Camera Gialla), poi i socialisti col sindaco. Arrivati al
      ponte sulla via Reale, alcuni cercarono di spingere il corteo verso la
      Stazione, ma i socialisti tornarono verso la piazza, tirandosi dietro
      tutti gli altri. |  
    | Nuovo
      comizio e invito all'indomani a  manifestare a Ravenna | In
      piazza di nuovo sul palco 
       salì il Mossotti che
      terminò il comizio invitando tutti anarchici, repubblicani e socialisti
      per il giorno dopo il 10 giugno alle ore 9 a Ravenna, dove si sarebbe
      tenuta una grande manifestazione. Il sindaco dal
      palco confermò l'invito  del Mossotti.  |  
  
    | 10.000
      manifestanti a Ravenna | La
      mattinata scorreva tranquilla, perché in molti
      erano andati a Ravenna. I negozi erano
      aperti. Anche il sindaco era a Ravenna e sarebbe tornato alle 11,30.
       In chiesa fervevano
      i preparativi per la solenne processione del Corpus Domini che in
      quell'anno cadeva l'11 di giugno. 
      
       La chiesa era
      addobbata con i paramenti più belli e ricchi: tovaglie con pizzi ricamati
      in oro e seta dalle suore diS. Chiara di Faenza, baldacchino pure di seta e oro, argenterie ecc...
 |  
    | Primi
      scontri a Ravenna... | A
      Ravenna confluirono in bicicletta, sui carri dei birocciai e su altri
      mezzi, più di 10.000 lavoratori, per lo più braccianti e mezzadri di
      fuori Ravenna. Parlarono esponenti della Camera del Lavoro, socialisti,
      repubblicani e anarchici. |  
    | ...
      davanti alla Prefettura Muore,
      colpito alla testa da una bottigliata, un commissario di Pubblica
      Sicurezza 
 | Al
      termine del comizio, gli scioperanti si portarono in massa in piazza del
      Popolo davanti alla Prefettura. Qui accaddero i primi scontri con le forze
      dell'ordine.  |  
    | Un
      commissario di Pubblica Sicurezza e un colonnello dei Carabinieri furono
      colpiti con bottiglie di vetro e bastoni. Giuseppe Miniagio, il
      commissario, colpito alla testa da una bottiglia di seltz, morì dopo
      qualche giorno.  In tutta
      Ravenna i soldati erano poco più di 300. In quell'occasione il tenente
      alla guida dei carabinieri non diede ordine di aprire il fuoco. |  
    | Qualche
      devastazione e piccoli scontri | Ci
      fu qualche scorribanda per le vie del centro di Ravenna, con alzata di
      barricate qua e là, devastazione di due chiese: alcuni mobili furono bruciati
      nella piazza, furono tagliate le linee telegrafiche, e ci fu da parte
      dell’esercito una scarica di 80 colpi di fucile contro la Casa del
      Popolo repubblicana. Alla sera la
      tensione calò.  |  
    | Raduno
      di folla ad Alfonsine | Ad
      Alfonsine, alle ore 16, la folla, comprese donne
      delle varie leghe e i bambini vocianti, si radunò in piazza Monti. Il suono dei
      corni ne diede l'annuncio. 
      
         |  
    | Il
      Comitato rivoluzionario | Il
      Comitato rivoluzionario si presentò come un gruppo serrato al centro della piazza. A
      capo c'era il sindaco Garavini  (secondo quanto scrive il parroco) |  
    |  Bruto Marini
   Il Circolo Monarchico
 distrutto: a terra i resti del bigliardo. Sul muro le scritte
 "W Masetti" "M l'esercito".
 A sinistra il manipolo di carabinieri di Alfonsine e a destra alfonsinesi in
      posa, forse gli stessi della rivolta.
 
 Quel
      palazzo fu acquistato poi da Tancredi Minarelli detto Plopi, anarchico,
      che lo adibì deposito del suo carro funebre, a stallatico e a monta per
      cavalli.Ai piani superiori creò camere da affittare a gente povera.
 Giuseppe
      Marini acquistò nei primi anni '30 da Plopi l'edificio, per usarlo come fabbrica
      per la produzione delle sue biciclette, poi delle moto "Marini"
      e infine delle macchine stradali. La dicitura "Palazzo
      Marini" è un'invenzione degli anni 2000, cioè da quando si è
      sentito parlare di "donazione". Infattirecentemente (2004) l'edificio è stato donato al Comune, dai
      proprietari Fayat, ristrutturato, e adibito a
      un centro culturale.
   | Una
      voce incontrollata: "C'è la rivoluzione!"
 Non
      era vero, però... ci vollero credere
 Un ricco
      proprietario terriero di Alfonsine, il cav. Bruto Marini, che viveva a
      Roma dove aveva ottenuto la gestione del trasporto pubblico della città
      coi tram trainati da cavalli, era appena arrivato ad Alfonsine la notte
      precedente con tutta la famiglia. Aveva viaggiato con la sua De Dion Buton,
      la prima auto apparsa in paese.
       
       
 L’auto
      De Dion Buton dei Marini in una foto di due anni prima, del 1912, nel
      parco della loro Villa di Alfonsine, con due dipendenti alfonsinesi
      (Malvina e Nando Troncossi)
      
      
        Qualcuno
      andò in giro a raccontare che fossero fuggiti da Roma perché era
      scoppiata la rivoluzione. Tanto bastò perché girasse la voce che il Re e
      la Regina erano fuggiti e che la Monarchia era caduta. Gli alfonsinesi non
      ci pensarono due volte (forse per paura di svegliarsi dal sogno). 
      
       La
      voce, incontrollata e non vera, della caduta del Re e della nascita della
      Repubblica si diffuse tra tutta la popolazione e nei paesi vicini, che
      decisero di fare come quelli di Alfonsine.
      
       “Furono
      sbarrate le vie – racconta il parroco Don Tellarini – con
      grosse catene e in capo ad ogni via stavano due guardie rivoluzionarie col
      fucile alla spalla con ordine di intimare « alto là » a chiunque non
      avesse il lasciapassare del Comitato. Il sacrestano della chiesa,
      Patuelli Antonio, ottenne anch'egli il suo lasciapassare che io stesso –
      continua don Tellarini – ebbi in mano e
      che era così concepito: «Si rilascia il seguente lasciapassare al sig.
      Antonio Patuelli perché non sia toccato nella sua roba e nella sua
      famiglia. Firmato: il Comitato rivoluzionario », e seguivano i nomi.” 
       
        Circolo
      Monarchico di Alfonsine
 (Interno)
 dopo l'assalto
 |  
    | Il
      comizio   
 Il
      municipio di Alfonsine e la piazza Monti dove si radunò la folla per i
      comizi durante la Settimana Rossa  
   | Alle
      17,30 Al
      comizio in Piazza Monti dovevano parlare il sindaco e
      Ferruccio Mossotti. Correva voce che a Ravenna stava scoppiando la
      rivoluzione.  All'entrata
      del Palazzo Municipale, dove era stato eretto in precedenza un palco,
      iniziarono a parlare gli oratori.
      
       Il
      primo fu il sindaco Garavini che, da navigato comiziante, arringò la
      folla (queste parole furono la testimonianza lasciata dal parroco che
      stava origliando da dietro le persiane della canonica e sono probabilmente
      state esagerate ad arte per mettere in cattiva luce il sindaco e gli altri
      organizzatori delle manifestazioni):
 "Compagni!
      Lavoratori! Finalmente Vittorio Emanuele è caduto! Finalmente è caduto
      l'odiato governo della borghesia! Finalmente comandiamo noi! Siamo noi ora
      i padroni della situazione e del governo! Andate nelle case e tirate in
      petto alla borghesia ecc... ”  Queste
      parole sentite da Don Tellarini, nel loro contesto vero suonano in altro
      modo.  In
      un memoriale d'autodifesa, il Garavini scrisse di quell'esortazione
      rivolta ai manifestanti durante il comizio pomeridiano del 9 giugno, che
      era di non approfittare della circostanza (perché lo sciopero generale
      era "il solo giorno che passa"), ma a "colpire in
      pieno petto la borghesia coll'unità proletaria e colla solidarietà",
      per mezzo delle organizzazioni economiche e del suffragio universale. Poi
      intervenne Mossotti. Secondo
      testimonianze di parte (il pretore, il sig. Anselmo Alberani e il parroco
      Don Tellarini avrebbero udito con le loro orecchie), i due avrebbero
      incitato alla distruzione e alla devastazione: 
      
        altre
      frasi che avrebbero sentito erano
      
       -        
      Tutti compatti: chi è con noi e contro di noi lo
      conosceremo domani.  I padroni siete voi, fate quello che volete –
      armatevi (Mossotti)
      
       -        
      "Prendete da tutti ciò che volete" 
      (un anarchico)
      
       -        
      "No, solo dai borghesi, rispettate i
      commercianti.    Il vostro nemico è la borghesia" (il sindaco)
 Alcuni
      anarchici avrebbero gridato "Abbasso il Tricolore!" che era
      stato issato a mezz'asta lì sopra il Municipio per i fatti di Ancona. Dalla folla
      galvanizzata durante il comizio si sentì anche qualcuno gridare
      "Viva
      il Comunismo! Viva la rivoluzione”.
      
     |  
    |  Assalto
      alla stazione per interrompere le comunicazioni
  
 Il Circolo
    Monarchico di Alfonsine
      distrutto: a terra i resti del bigliardo. Sul muro le scritte
 "W Masetti" "M l'esercito".
 A sinistra il manipolo di carabinieri di Alfonsine con i loro cavalli a
      controllare i danni subiti dal Circolo Monarchico, dopo i giorni caldi; a destra alfonsinesi in
      posa, forse gli stessi della rivolta.
 
 | Ore
      19
       Terminato
      il comizio, dalla
      folla si udirono grida: "Bene! bene! Evviva la rivoluzione! Abbasso
      la borghesia!" e poi "Alla stazione! Alla stazione!"
 Si formò un
      corteo spontaneo con alla testa gli anarchici (ma secondo la denuncia
      della polizia "dirige il tutto Mossotti e, pare, anche il Sindaco")
      che dalla piazza si avviò lungo Corso Garibaldi. Una specie di orda
      selvaggia che questa volta arrivò alla stazione, saccheggiò da un
      casetto alcune barre di ferro e divelse un tratto di ferrovia, oltre alla sistematica rottura dei fili di telegrafo
      e telefono.  Sempre al
      suono dei corni e alla luce delle torce a vento,
      i manifestanti tornarono in Piazza Monti. La scena
      doveva essere impressionante.
      
      
       La folla si recò
      poi al Circolo Monarchico (o Circolo Cittadino) che era lì a due passi
      (oggi quel palazzo è detto "Palazzo Marini" ed è stato
      ristrutturato e donato al Comune di Alfonsine). “Sfondata
      la porta (la descrizione è del parroco) con leve e grossi pali,
      salirono nella sala superiore dove c'era un bigliardo e lo gettarono
      intero dalla finestra. Volarono fuori le immagini del Re Vittorio Emanuele
      III e della Regina d'Italia. Poi sedie, tavolini di marmo, bicchieri: si
      vedevano i giovani afferrare bottiglie piene di liquori d'ogni colore e
      sbatterle contro le colonne con battute ironiche e imprecazioni. L'aria
      era satura di vapori alcolici. Cadendo al suolo il bigliardo si spaccò in
      mille pezzi."
      
      
       Oltre
      all'aspetto distruttivo e rancoroso  (furono
      gettati dalla finestra del secondo piano del Circolo Monarchico un
      biliardo, sedie e ogni suppellettile) qui troviamo anche l'aspetto ironico
      e giocoso con la defenestrazione dei quadri del Re Vittorio Emanuele III e
      della Regina: "Abbiamo buttato giù la monarchia" - gridò
      qualcuno con quel pizzico di ironia tipica degli alfonsinesi quando
      vogliono sdrammatizzare qualche evento. Fu
      questo uno dei tanti riti simbolici che segnarono molti aspetti della
      rivolta, spesso oscillante tra il grottesco e il giocoso. 
      
      
      
     |  
    | Assalto
      alla chiesa  La chiesa Santa Maria di
    Alfonsine dopo il saccheggio
 Si notano i
    resti del falò. Gente di Alfonsine in posa per la foto. Nello sfondo la
    locanda "Al Sole" di Fed (Bonafede Minarelli) e Susanna Garavini
    (sorella del Sindaco). poco più avanti si intravvede la Bettola dei Cicconi
    (e' betulè): una delle tante osterie della piazza di Alfonsine
     | 20,30
       Giovani
      adolescenti scoprirono per la prima volta l'ebbrezza della festa 
      
      
       Per
      una volta fuori dallo stato di necessità e miseria, anche i bambini e gli
      adolescenti furono protagonisti, sempre in prima linea a godersi
      l'ebbrezza della festa.
      
      
       Arturo
      d'la Canapira (n.1900 - m.2002), che allora aveva 14 anni, ha raccontato
      che lui e una sua amichetta erano entrati dentro al Circolo Monarchico
      durante il saccheggio. 
      
      
      
       Impossessatisi
      di una bottiglia di liquore se la bevvero. 
      
      
       Il
      parroco don Luigi Tellarini che stava guardando attraverso le persiane
      chiuse della finestra della canonica così descrive la stessa scena: 
      "Si
      vedevano i giovanetti, con un accanimento indescrivibile, afferrare
      bottiglie piene di liquore d'ogni colore e sbatterle contro le colonne
      della casa di fronte con gioia così pazza e con tale ironia che faceva
      fremere d'orrore e l'aria era talmente satura di odore alcoolico da non
      potersi descrivere."
      
      
       Fu assalito
      l’ufficio delle poste, poi anche quello del telegrafo e del telefono che
      erano collocati al pian terreno, in alcune stanze del
      Municipio.  
 L'assalto
      alla chiesa La folla si spostò poi nel piazzale della chiesa, preceduta da uno stuolo
      di ragazzi festanti.
 I manifestanti si
      arrestarono davanti alla porta laterale della chiesa e iniziarono una
      sassaiola contro i vetri della canonica. Con grossi pali un gruppo di
      anarchici ne abbattè la porta: entrati gridarono "in
      dov'el clu c'cmanda!" (dov'è quello che comanda?".Passarono quindi in sacrestia e appiccarono il fuoco ovunque: tre grandi
      armadi pieni di arredi sacri, il banco che serve ai sacerdoti per mettere
      gli apparati, gli sgabelli, le porte, le panche e le statue.
 In chiesa furono
      incendiate le grosse porte esterne, i confessionali e un gran mucchio di
      sedie (160), che appartenevano al sacrestano Antonio Pattuelli (Patvèl). 
       I banchi di noce
      massiccio furono ammucchiati all'esterno, spaccati e fu fatto un gran falò.
      Nel rogo finirono anche varie statue di legno: 
      
       il San Giuseppe e
      il Sant'Antonio e l'Addolorata, opere degli antichi Graziani di Faenza,
      poi la statua della Beata Vergine di Lourdes, San Francesco Saverio, la B.
      V. del Rosario.
      
       Gran parte della
      gente assistette muta e stupefatta, in lontananza, ma nessuno osò fermare
      il gruppo di devastatori, probabilmente anarchici, ma non solo.  Il sindaco accorse
      davanti alla chiesa per esortare i più scatenati a non commettere tali
      eccessi.  Poi fu trascinato
      via da sua moglie e dall'assessore Dradi, che temettero per la sua
      incolumità.
      
       Il gran falò durò
      parecchie ore: una  folla festeggiava intorno cantando inni
      rivoluzionari e anarchici. Si udirono frasi come "Viva la
      rivoluzione sociale!", non solo dagli anarchici ma anche dai
      repubblicani e dai socialisti. 
      
         |  
    | I
      carabinieri restano chiusi in caserma  Caserma dei carabinieri
    di Alfonsine in Corso Garibaldi
 
 | Il delegato di
      Pubblica Sicurezza si era dato ammalato fin dal pomeriggio, fuggito nel
      giardino del Dott. Filose medico condotto del centro. Questi lo trovò
      sotto un albero in preda al panico, a febbre, a vomito... Il dottore lo
      accompagnò all'ospedale dove fu colpito da dissenteria.  
       I Carabinieri a
      cavallo erano in 13 e rimasero chiusi nella caserma in fondo al Corso
      Garibaldi, con le porte barricate: il maresciallo, quando venne a sapere
      dell'incendio della chiesa sarebbe voluto uscire. 
      
      
       Il dott. Filose lo
      dissuase dicendogli "che era assurdo contrastare le migliaia di
      persone intente alla distruzione".
      
        
       ore 22
      
      
      
        
      
      
       Alle 22 arrivò il
      Pretore che guidò i carabinieri alla chiesa per aiutare i volontari a
      spegnere l'incendio nella sacrestia,"mentre i facinorosi si
      trovavano ancora in piazza attorno al falò"
      
      
      Alle 23 il fuoco
      ardeva ancora dentro la chiesa, in diversi punti, sul sagrato (e questo
      era il rogo maggiore), in sacrestia e anche nel cortile interno. Il parroco e la
      sorella riuscirono a fuggire a casa del cappellano Don Serafino Servidei
      che abitava a poche centinaia di metri metri.  Poi a mezzanotte il
      parroco tornò e trovò gli stessi che avevano fatto quel disastro che si
      offrirono di spegnerlo. Lui fece buon viso a cattivo gioco e per tenerseli
      buoni offrì loro un fiasco di vino.  “Era di poco
      passata la mezzanotte e quasi tutti se ne erano andati al riposo; pochi
      restavano ancora i quali, appena mi videro e certi di essere da me
      riconosciuti, vigliaccamente si profersero di fare opera di spegnimento,
      mentre poi essi medesimi erano di quelli che dianzi avevano appiccato il
      fuoco. Ricordo benissimo che io, sia perché li ritenni veritieri, sia per
      cattivarmi l'animo loro, ebbi il pensiero di offrire loro alcuni fiaschi
      del mio vino migliore. All'una erano tutti a dormire." Ma il parroco sentì
      ancora qualcuno che si avvicina al campanile, deciso a suonare le campane:
      “Poco dopo, nel cupo silenzio, interrotto soltanto dal continuo
      abbaiare dei cani, scorgo altre due ombre avanzarsi verso la Canonica: non
      fui capace di riconoscerli... Andiamo sul campanile, dice l'uno di essi,
      andiamo a suonare il campanone. Mi corse un brivido per le vene. Mi
      precipito allora ad avvertire la sorella che era andata a riposare,
      prevenendola ed assicurandola a non aver paura: era tanto terrorizzata! E
      le campane cominciano a suonare nella notte triste e lugubre, non già per
      invitare i fedeli alla preghiera e al sacro tempio, ma per avvertire che i
      rivoluzionari erano essi  padroni del campo!!” |  |  
          
    | Nuovo
      assalto alla chiesa  Chiesa Santa Maria di
    Alfonsine
 Questa è
    l'ancona (tabernacolo in legno) al centro dell'altare su cui era incastonata
    la ceramica della Madonna delle Grazie.
  Ceramica della Madonna delle Grazie di Alfonsine
 Questa è
    una ceramica del '500 ancora esposta nell'attuale chiesa parrocchiale Santa
    Maria di Alfonsine. Durante la Settimana Rossa subì alcuni spari nel
    tentativo di distruzione da parte dei manifestanti. I colpi lasciarono
    alcuni segni ancora visibili, ma il quadro non si ruppe. Questo fatto
    divenne una leggenda alfonsinese.
 Il
    quadro superò anche la distruzione totale della chiesa avvenuta durante la
    seconda guerra mondiale.
        Chiesa Santa Maria di
    Alfonsine
 (fototeca
    Archivio Istituto Storico della Resistenza di Alfonsine)
 Interno
    della chiesa prima del saccheggio della Settimana Rossa. Si
    notano i lunotti con vetrate da cui arrivava la luce
   
 L'immagine di S.
      Andrea, da
      un quadretto di un'altra chiesa italiana
  E betulè
 La bettola dei Minguzzi
      (detta dei Ciconi). Si tratta di un chiosco-osteria della famiglia
      Minguzzi, posto di fianco alla chiesa.
 
 
 Qui
      sopra la foto  di Antonio Minguzzi
 uno dei figli di Ciconi. All'epoca dei fatti era il bambino dodicenne
      di cui parla don Tellarini. Sarà poi il babbo della maestra Maddalena
      Minguzzi.
 
 Il
      caffé degli anarchici detto “dla Niculéna”
      
      
       | E’
      il giorno del nuovo assalto alla Chiesa Santa Maria: ateismo, spirito
      pagano e superstizione, bambini festanti in prima fila, donne danzanti con
      i vestiti del prete. Al di là della violenza e della furia sacrilega di qualcuno,
 ci fu anche la magia di un carnevale fuori stagione e tutto da
      inventare.
 Ore 4
      
       I
      prodigi della S.S. Vergine Maria
      
      
      
      
       
      Sopra l'ancona (tabernacolo in legno) del coro, ad un’altezza
      di circa cinque metri, circondata da una bella cornice, era collocato un
      quadretto di terracotta raffigurante la B. V. delle Grazie col Bambino.I rivoluzionari che erano saliti sui gradini dell'altar maggiore,
      cominciarono a tirare colpi di sasso contro l'immagine: il quadretto,
      appeso ad un cordoncino, dondolava, ma non si spezzava: non cadde.
 
 I colpi
      lasciarono alcuni segni ancora visibili.  Luigi
      Tazzari, conosciuto con il soprannome di Gigiò d'Mignac, componente della
      banda comunale e del coro nelle Funzioni religiose entrò in chiesa,
      deciso; la nicchia era troppo in alto per potervi arrivare. Gli venne
      un'idea: andò nella adiacente casa del sagrestano, Patvel, si fece dare
      un tavolino, vi salì, ma non bastava; pensò allora di mettere su quello
      una scala, non bastava ancora; ne mise un'altra, aiutato dal sagrestano
      stesso e dall' amico Domenico Pirazzini, Minghì d' Stasiol; le si avvicinò
      di più, in modo già sufficiente per poterla afferrare e, con grande
      sforzo, pur rompendo il nastro che la decorava, riuscì a rimuoverla e
      portarsela via.   Il
      Parroco stesso, Don Tellarini, alquanto spaventato, lo aveva esortato
      insistentemente a non rischiare. Incolume, Gigiò scese dalla scala,
      nascose tutto sotto la camicia e, munito di un grosso bastone per
      difendersi da eventuali assalitori, si incamminò per Via Borse. Presso la
      casa Gessi fu bloccato da gente armata, ma lui riuscì a cavarsela,
      arrivare in Via Stroppata, all'abitazione di Don Michele Pirazzini,
      informarlo che la chiesa stava bruciando e consegnargli il suo prezioso
      tesoro. Erano le quattro del mattino di quel memorabile 11 giugno del
      1914. Virtù e forza di una grande fede che Gigiò conservò sempre. Alla
      sua morte, oltre al bocchino del trombone, il fedele amico per quarantadue
      anni, sul petto volle una immagine della "sua" Madonna. Così ha
      raccontato la figlia Augusta. Questo
      fatto divenne una leggenda alfonsineseQuesta storia raccontata dal parroco diventò di dominio pubblico e fu
      trasmessa di generazione in generazione, alimentando così una vera e
      propria leggenda alfonsinese.
 
         Un’altra
      leggenda, legata a quei giorni, riguardò una donna
      che, durante il saccheggio della chiesa, si mise davanti al quadro della
      B. V. delle Grazie col Bambino e chiese di avere un segnale dell’esistenza
      della Madonna. Quella donna era incinta: pochi mesi dopo le nacque una
      figlia che era priva del braccio sinistro, tanto che fu soprannominata
      dagli alfonsinesi “la moncaréna”.
       
 Ore 7
 Fin dal
      mattino ripresero gli atti vandalici contro la chiesa.
      
       Fu
      distrutto l'organo della ditta Strozzi di Ferrara, che era fatto di 800
      canne in stagno nella facciata, e altre di piombo e di zinco. 
      
       Un
      gruppo dei più esagitati scaraventò di nuovo sulla piazza altre panche,
      statue e suppellettili per alimentare un nuovo falò. Non tutta la
      popolazione li seguì, ma non erano certamente in pochi; ad Alfonsine gli
      anarchici erano un numero considerevole; ad essi si unirono anche i “mazziniani
      intransigenti” e i socialisti rivoluzionari.
      
       Durante
      il saccheggio della chiesa si videro donne, uomini e ragazzi inscenare una
      festa zingara con danze e musiche davanti al falò.
      
       Molti
      ragazzi si vestirono con camici, cotte e stole, e le donne con tovaglie da
      altare e biancheria d'ogni sorta. 
      
       Poi tutti
      a ballare nella festa dionisiaca davanti al fuoco alimentato con le
      suppellettili e le statue della chiesa.
      
       Li
      accompagnava una musica tribale suonata con le canne dell'organo.
      
      
      
       Infatti
      dopo aver distrutto l'organo della chiesa, i saccheggiatori avevano tolto
      dal loro posto le magnifiche canne di stagno, di piombo e di zinco (in
      tutto circa 800);poi le avevano date ai bambini della piazza che le fecero suonare
      soffiandoci dentro.
  ‘Suonando
      a tutto fiato- così descrisse la scena don Tellarini - corrono
      nella piazza e incomincia allora quella musica barbara, quella nenia che i
      poveri Selvaggi dell'Africa sogliono fare durante le loro feste
      cannibalesche’
 "E
      malet da j azident" di S. Andrea  Uno dei
      saccheggiatori stava tentando di colpire l'immagine di S. Andrea, per
      spezzarla e distruggerla: un quadretto di legno scolpito che ritraeva il
      santo cappuccino in atteggiamento devoto, con la corona in mano e la
      bisaccia che gli pendeva davanti e di dietro a mo' dei frati questuanti. 
      
       A forza di colpi
      contro il quadretto appeso al muro, stava per tirarlo giù, quando arrivò
      di gran corsa un compagno il quale, con fare disperato, gli disse: 
      
       Ma cosa fai? -
      Che faccio?    - rispose l'altro meravigliato. 
      
       Ma non vedi che
      è S. Andrea?  Se S. Andrea apre il sacchetto degli accidenti, non
      siamo rovinati?  
      
       (Il dialogo avvenne
      in romagnolo: Se sant'Indrei l'arves e malet da i azident, an sen arvinée?).
      
      
        
      Così il quadro di S. Andrea, a cui la credenza popolare attribuiva da
      sempre facoltà iettatorie, si salvò; ma solo fino al 1945, quando la
      vecchia chiesa andò distrutta con la guerra, e tutto l'arredo fu perduto
      per sempre. 
      
       Furono però
      spezzati i candelieri, il battistero e l'altare; bruciati gli arredi
      sacri, rotte le cassette delle elemosine. 
      
       Fu forzata la porta
      di casa del parroco e rubata l'argenteria, l'ostensorio, l'archivio, abiti
      e una cassa di candele. 
      
       Armati di pistole e
      fucili spezzarono tutti i vetri (circa 300) del coro, dei lunettoni e del
      teatro parrocchiale. 
      
       Il saccheggio
      continuò per tutta la mattinata. 
       
       Il parroco si era
      rifugiato a Fusignano, dai suoi famigliari: “Ricordo che
      nell'allontanarmi dalla piazza, passando avanti alla bettola dei Minguzzi
      (detta dei Ciconi), uno dei figli, Antonio, mi seguì per spiare ove
      andavo a rifugiarmi ed io dovetti fare parecchi giri e parecchie svolte
      per fargli perdere le mie traccie. Come infatti così avvenne”. 
       
       Il
      parroco tornò ad Alfonsine:  “Mi
      premeva assai constatare quale sorte avevano corso le mie personali
      suppellettili di casa e infatti solo, solo mi avviai verso la piazza. In
      prossimità delle scuole comunali vidi venirmi incontro il capo dei
      rivoluzionari, Mossotti Ferruccio.Era rosso in viso, aveva gli occhi fuori
      dell'orbita che sprigionavano scintille di fuoco, procedeva dondolando la
      sua persona a destra e a sinistra: l'ho ancora presente alla mente: si
      fermò, mi diede una terribile occhiata e passò oltre.
 Giunto che fui presso il Caffé degli anarchici, detto il Caffé della
      Nicolina, scorsi una moltitudine di persone che stava
 ai tavolini a godersi il fresco, ed a contemplare la scena sorbendo il
      caffé e centellinando bicchierini di liquori
 con un'allegria indescrivibile.
 Appena
      mi videro fecero un gesto di sorpresa e ricordo uno che disse: Bé! non è
      mica fuggito! Ma se è ancora qui!, e tutti gli occhi si appuntarono su di
      me.  
      
       Io
      tirai innanzi per la mia strada”.
      
      
     |  
    | Assalto
      alla pretura e incendio del Municipio   
 
  15 giugno: il
    municipio di Alfonsine incendiato
 (fototeca Archivio Istituto Storico della
    Resistenza di Alfonsine)
 Si vede che
    è stato tolto l'orologio del municipio in alto.
 La
      foto fu pubblicata sul Resto del Carlino del 17 giugno 1914
 | Ore
      8,30
 Alcuni
      dei più esagitati decisero di assaltare la sede della Pretura, che si
      trovava in un locale al piano terra del Municipio.
      
      
       In
      quei giorni, l'Amministrazione Comunale socialista aveva deciso di avviare
      lavori per un ingrandimento del Palazzo Municipale: ciò perché con il
      nuovo sistema elettorale i consiglieri erano passati da 23 a 30 e non
      c'era più spazio nella vecchia sala consiliare.
      
      
       Di
      fianco al Municipio c’erano le impalcature dei muratori per erigere il
      fabbricato. Usando alcuni di quegli attrezzi fu sfondata la porta della
      pretura e incendiati tutti i documenti. Poi l’incendio diminuì e si
      spense lentamente.  Il
      sindaco Camillo Garavini si trovava al Circolo Socialista, di là
      dall’argine del Senio, con gli altri assessori lì riuniti per decidere
      cosa fare nelle giornate successive: la linea fu di lasciar fare oppure
      sarebbe stata guerra civile
      (era questa la vecchia strategia di
      Giolitti), ma qui indica
      che i dirigenti socialisti erano assolutamente contro ciò che la massa
      della gente stava determinando. Quando seppero dell'incendio si recarono tutti in
      piazza.  Garavini
      scrisse una lettera a Giovanni Bacci, che era a Ravenna: il messaggio
      venne affidato ad un giovane ciclista, il quale fu fermato a Porta San
      Biagio dai soldati (si ricordi che Ravenna si trovava in stato d'assedio)
      e non poté portare a compimento la propria ambasciata. Questo il testo: "Caro
      Bacci, qui imperversa la violenza della folla contro le cose. Temo che
      degenererà contro le persone. La chiesa e il municipio vennero
      incendiati, la situazione più che grave è disperata. Noi facciamo del
      nostro meglio, siamo fra la massa, ma oramai il movimento è
      irrefrenabile. Prima di sera sarebbe indispensabile la tua presenza e
      quella di [Umberto] Bianchi per tentare di pervenire l'incognita di questa
      notte" (Carte Ricci, "Lettera di Camillo Garavini a Giovanni
      Bacci [ma Alfonsine], s.d. [ma 11 giugno 1914]. In copia presso l'AISREC.
      Questa appare anche su un articolo del 24 giugno 1914 del "Giornale
      del Mattino" dal titolo "I 'misteri' di Alfonsine e le accuse
      del'Carlino"
       I dirigenti socialisti alfonsinesi furono quindi
      assolutamente contrari a ciò che la massa della gente stava determinando.
      
        La
      vicenda di Garavini è emblematica come quella di tanti altri dirigenti
      politici e sindacali, socialisti e repubblicani: per quanto moderati, si
      lasciarono contagiare, almeno in un primo momento, dall'esaltazione
      rivoluzionaria, finendo poi per restare soggiogati dagli avvenimenti.
       |  
    | Il
      sindaco si dichiara impotente a controllare la folla   | Lì
      il dottor Filose si avvicinò al sindaco e gli disse- "Questa è anarchia!"
 Al
      che il Garavini rispose: - "Non ho più alcuna autorità per
      trattenere la folla".
      
       Il
      signor Bruto Marini (Maré) e il signor Monti chiesero al sindaco: - “Perché
      non impedite tutto questo?", ma non ebbero risposta.
      
       Poi
      Garavini si rivolse alla gente gridando loro: 
      
       -
      "Se c'è la rivoluzione abbiamo vinto: non fate altri vandalismi!" |  
    | Assalto
      alle case private   ....
      dai Marini
 
  Bruto Marini
 | ore
      10 
 Altri nuclei
      di rivoltosi capitanati da Mossotti si recarono nelle abitazioni dei più
      ricchi del paese e sequestrarono beni alimentari, a volte con
      l'intimidazione delle armi. 
      
       A casa di
      Violani, (Pasaré) il mugnaio, sequestrano 98 quintali di farina. Presero
      “in prestito” anche l'automobile con cui il Mossotti si sposterà poi
      da un punto all'altro del paese.
      
       Andarono poi
      alla Villa di Maré, antico palazzo in Corso Garibaldi dove alloggiava il
      sig. cav. Bruto Marini e il suo fattore Luigiò (Luigi Randi). Quando i
      rivoltosi arrivarono, il Marini non oppose resistenza, ma ordinò ai suoi
      dipendenti di spalancare le porte e ricevere a braccia conserte. Lasciò
      prendere un po' di vino qualche sacco di farina. Pare che prelevassero al
      fattore Luigi Randi i denari che aveva in tasca e l'orologio, ma non
      recarono danni. (I Marini dopo quell’esperienza vendettero tutte le loro
      proprietà: 48 poderi più la villa e la cantina).
      
      
      
       
 |  
    | ...
      dai Massaroli | Si
      recarono alla villa dei Massaroli nei Sabbioni alla sinistra del Senio,
      (la Villa della Marchesa Giuditta Gallerani Passeri in Massaroli) che sarà
      poi, nel dopoguerra, adibita ad Asilo Parrocchiale e poi abbattuta e
      trasformata in un condominio negli anni ’70). Qui furono lasciati
      entrare. Ottennero del denaro e se ne andarono senza fare
      danni.   
      
       |  
    | ...
      dagli Alberani 
 |     "As
      cavarèn la fàm 
      
      / cun la pignata d'j Alberàn"
      
      
      
       
      Alla casa della famiglia del Dott. Anselmo Alberani, uno
      dei più ricchi proprietari terrieri di Alfonsine, in via Reale (dove oggi
      c’è la fabbrica di trasformazione “Contarini”) un gruppo guidato
      dal capo degli anarchici locali, armato di mannaia, mazze di ferro e
      bastoni scavalcò il cancello e fracassò tutto per entrare. 
      
       Ad
      Anselmo Alberani fu puntata una pistola al petto e, sopra il suo capo, un
      giovane teneva sospesa un'accetta, (secondo la testimonianza dello
      stesso Alberani, quindi di parte).
      
       Fu
      perquisito, gli furono tolti i denari, fracassati tutti i mobili della
      casa, specialmente quelli della stanza matrimoniale. Requisirono tutto ciò
      che era commestibile. 
      
       Portarono
      via un gran pentolone che stava sulla tavola imbandita per il pranzo, e
      come trofeo lo portarono alla testa del corteo, di ritorno lungo “e
      stradò”, ritmando in coro: "As
      cavarèn la fàm cun la pignata d'j Alberàn". (testimonianza
      Filippina Tamburini, su racconti della nonna)
      
       I
      ragazzini festanti precedevano la folla, rendendo almeno un po’ più
      giocosa e allegra la festa della rivoluzione.
     |  
    | ...
      da Violani | A
      casa di Violani, il mugnaio, sequestrarono 98 quintali di farina marca 2°.
      Presero anche l'automobile, con cui il Mossotti si sposterà da un punto
      all'altro del paese |  
    | ...
      dai Mingazzi | Andarono
      dai Mingazzi, dove vennero sequestrati 45 quintali di grano, vino e
      denari. Fecero molti danni. |  
    | ...
      dai Faggioli | Da
      Faggioli asportarono 30 quintali di grano. |  
    | ...
      da vari bottegai | Da
      bottegai come la sig. Carolina Mirri, sul ponte nuovo, presero salami e
      prosciutti, da Antonio Ricci requisirono armi, benzina, cartucce per
      pistole e fucili, dal ramaio Grazioli, in piazza Monti, presero tutte le
      catene di ferro che servirono per sbarrare le strade. A tutti dicevano di
      mettere nel conto del Comitato e del nuovo governo. |  
    | I
      magazzini del popolo 
 Alla
      sinistra del Municipio si vede il foro annonario, dove vi erano anche
      magazzini del comune, oltre a negozi affittati ai privati  La
      lapide a ricordo dell'Albero della Libertà del 1849.
 (Il
      punto esatto è davanti al ristorante-albergo "Gallo",
      esattamente sopra al dosso rallenta-traffico)
 Quella
      vecchia lapide,  in cui si ricorda l'albero della libertà, fu
      posta  nel 1904 quando Alfonsine fu governata per la prima volta da
      una giunta di sinistra composta da socialisti e repubblicani. Durante la
      ristrutturazione di una strada a cui diedero nome "via Giordano
      Bruno", gli operai urtarono una vecchia radice rimasta sotto il
      terreno della strada fin dai tempi dei loro nonni, quando in nome di
      Mazzini e Garibaldi avevano fatto la rivoluzione sostenendo la Repubblica
      Romana e piantando proprio in quel luogo l'"albero della
      libertà".  La
      Repubblica Romana fu annientata, l'Albero della Libertà fu abbattuto e i
      sogni degli alfonsinesi riposti nel cassetto in attesa di tempi
      migliori.  Il
      tutto era durato appena 5 mesi da 9 febbraio del 1849 al 5 luglio dello
      stesso anno,  Ma
      in quei cinque mesi attorno a quell'albero di Alfonsine vi furono
      matrimoni laici, in cui i promessi sposi girandovi attorno 
      così recitavano:
      
       Sotto
      quest’Albero / Di verdi foglie,O cari amici, / Questa è mia moglie.
 Sotto a quest’Albero /  Bello e fiorito,
 Questi, il vedete, / E’ mio marito
 E
      alla fine erano marito e moglie! Quella
      radice era tutto ciò che rimaneva di quell'albero e
      lì sopra
      fu posta la lapide.  
       | Tutto
      venne portato nel foro annonario presso le Pescherie di piazza
      Monti, dove fu istituito un "magazzino del popolo" per
      provvedere all'approvvigionamento della popolazione. Una parte di questi
      beni di prima necessità fu lasciata all'ospedale, perché serviva
      agli ammalati. Un'altra
      parte di generi alimentari (prosciutti, farina) fu distribuita alla gente
      radunata nella piazza. Il rimanente fu immagazzinato nel foro annonario,
      per poter rivendere a prezzi calmierati, onde evitare speculazioni
      possibili per i beni di prima necessità, che in quel periodo si sarebbero
      potute verificare.  Le
      gente gridava "Viva il comunismo (secondo il
      parroco, che scrisse le sue memorie qualche anno dopo), viva la
      rivoluzione!" Qualcuno fra la gente esclamò: - “Oh se
      durasse sempre così!" La
      rivoluzione come una festa
      
      
      
       In
      quella frase "Oh se durasse sempre così" s’intravede
      lo stato di ebbrezza e felicità in cui si trovarono quegli uomini, donne
      e ragazzi, per l'eccitazione di vivere una situazione collettiva di
      euforia rivoluzionaria, e la consapevolezza nello stesso momento che non
      durerà tanto, ma che importa, conta l'intensità delle esperienze forti,
      e non la durata.
      
      
       
      Si
      videro in giro crocchi di persone non più preoccupate ma allegre: il
      paese assunse un aspetto festivo, si discuteva facendo pronostici
      sull'esito della rivoluzione in Italia. Alcuni ritornarono con la memoria
      al 1849, quando i loro nonni, nella stessa piazza, avevano piantato
      l'albero della libertà. Dal
      diario del parroco Don Tellarini: “Ed era uno spettacolo veramente
      singolare e comico assieme vedere quella folla andarsene con sacchi sul
      dorso, con prosciutti sotto le braccia e pane e vino ed ogni ben di Dio.
      Anche un ragazzetto, soprannominato Baratieri, orfano di padre e di
      famiglia veramente povera, che di giorno faceva servizi al parroco,
      anch'egli chiese di andare a prendere la sua parte ed infatti si ebbe un
      bel prosciutto.”
      
      
      
       Anche
      i repubblicani furono trascinati in quel clima che prefigurava la nascita
      della Repubblica. 
      
      
       Pieno
      d’orgoglio ed euforia il repubblicano Beno Gessi, veterinario, fu
      inviato dal Comitato Rivoluzionario con la sua moto a Fusignano e nei
      paesi vicini a diffondere la notizia della presunta rivoluzione.  
      
      
       Il
      Gessi, col cognato Ferruccio Mossotti e il fratello Mino
      Gessi, fu tra gli attivisti della rivolta di Alfonsine e qui
      ebbe il compito di staffetta: tentò di convincere anche i fusignanesi a
      sequestrare le armi per andare a Ravenna, a liberare gli amici circondati
      nel cortile della casa del Popolo. Così anche a Fusignano la folla si
      scatenò al grido 
      
      “Facciamo come quelli di Alfonsine!” ('Gli
      avvenimenti fusignanesi della settimana rossa 9-10 e 11 giugno 1914,
      ricordati dal sottoscritto che vi partecipò personalmente e con funzioni
      direttive',  s.l., marzo 1917, [p.7] di Pino Grossi)
      
       |  
    | La
      requisizione delle armi  Giacomo
      Gessi
 | Ore
      13
 Il Comitato
      rivoluzionario decise che si dovevano requisire tutte le armi. Aderirono
      tutti, secondo la testimonianza di Alberani - monarchico e del maestro
      Ballardini - repubblicano.L'obiettivo era organizzare una spedizione su Ravenna per la liberazione
      dei prigionieri della Casa del Popolo. Questa fu la voce che circolava.
 In realtà a
      Ravenna fu attuata una rapida uscita  dalla cavalleria per disperdere
      i dimostranti, i quali si erano sì rifugiati nella Casa del Popolo. Ma quando
      i soldati furono passati, tutti uscirono tranquillamente.
      
      (Alla sera,
      terminata la rivolta, tutte le armi furono restituite)
 |  
    | Minacce
      ai Carabinieri e secondo incendio del Municipio  Caserma
      dei Carabinieri,
 in Corso Garibaldi.
 Andò distrutta con l'ultima guerra.
 | ore
      15 Una folla
      sfilò minacciosa e armata di fucili davanti alla caserma dei
      carabinieri in fondo al Corso Garibaldi
 
      ore 16
 In
      Municipio intanto qualcuno cercava di salvare documenti e oggetti: erano
      il sindaco Garavini, con il segretario comunale Avv. Samarelli e suo
      figlio Pasquale, il capoufficio Massaroli, il rag. Melandri e pochi altri
      cittadini, che riuscirono attraverso le fiamme a salvare tutti gli atti
      dello Stato Civile e parte dell'Ufficio di Ragioneria; si salvò anche
      interamente la Posta, il Telegrafo e l'Esattoria Comunale. Accortisi però
      di ciò i rivoltosi ripresero ad incendiare.
 Questa volta il fuoco si propagò fino al primo piano e il mezzanino.
      Tutto andò distrutto. Alla sera (ore 21) caddero anche i tetti.
 |  
    | Progetto
      di assalire la caserma dei carabinieri | ore
      17 Un gruppo di
      rivoltosi discusse come dare l'assalto alla caserma dei Carabinieri.
      Coloro che abitavano vicino alla caserma (tra i quali il dott. Filose)
      furono sollecitati ad allontanarsi per permettere di sparare dalle loro
      case. Si decise che una delegazione di cittadini benestanti avrebbe dovuto
      parlamentare con i carabinieri per ottenere il disarmo, prima di dare
      l'assalto.
      
       |  
    | Il
      comportamento dei 13 carabinieri | Durante
      tutta questa giornata i tredici carabinieri non uscirono mai dalla
      caserma. Erano troppo pochi e rimasero a difesa del presidio, che, avendo
      due entrate, una anche sul retro verso l'argine del Senio, con fienile e
      scuderia per i cavalli, necessitava di tutti i militi presenti per la
      difesa. |  
    | Fine
      della rivolta | ore
      20
     Il Sindaco aveva ricevuto, fin dalle ore 17, dalla Confederazione del Lavoro l'ordine che lo sciopero
      era sospeso dalla mezzanotte.
     Nessuno del
      Comitato Rivoluzionario se la sentì di propagare una tale notizia. 
 Fu
      proprio il sindaco Garavini in prima persona a dichiarare alla folla,
      anticipando di quattro ore l’orario, che da quel momento, ore 20, lo
      sciopero era cessato, accompagnandolo con la frase "Siamo stati
      traditi!" (secondo il parroco Don Tellarini - ma non sembra credibile che l'abbia
      detta proprio Garavini, molto più probabile che sia stato qualche altro
      socialista o anarchico. Anche perché in un suo memoriale il Garavini
      sostenne di aver fatto il possibile per contenere gli eccessi degli
      scioperanti e cita, tra gli altri episodi, quello di aver annunciato per
      le ore 20 la fine dello sciopero, tacendo il fatto che invece
      l'indicazione era a partire dalla mezzanotte).
 Questa
      fu, infatti, la posizione di Mussolini, allora socialista rivoluzionario,
      sostenitore e attivista alle manifestazioni e agli scioperi per la zona di
      Milano, che accusò la Confederazione Generale del Lavoro di aver tradito
      le aspettative del popolo.
      
       La
      gente però si sentì veramente tradita. Quasi tutti ad ogni modo
      obbedirono e tornarono a casa tra i mugugni. Restarono i più arrabbiati
      che però, vistisi in pochi, si dileguarono, consci forse di aver compiuto
      enormi atti vandalici, oppure rassegnati al fatto che la festa era finita.I negozi riaprirono, la piazza Monti era deserta.
 Il giornale
      "Pensiero Romagnolo del giorno dopo cercava di attenuare l'amara
      delusione scrivendo: "Lo sciopero è finito, la rivoluzione è
      cominciata!" Ma era un'affermazione ben lontana dal vero. |  
          
    | La
      Giunta Comunale si riunisce nelle scuole elementari
       Commento
      e condanna del Sindaco Camillo Garavini per le violenze dei giorni
      precedenti
 | Il
      sindaco riunì la giunta municipale (socialista) e dichiarò, sebbene
      avesse sostenuto le manifestazioni dello sciopero generale, “la
      totale condanna degli eccessi inqualificabili che subito stigmatizzammo
      senza poter intervenire a porre un freno”. Dichiarò
      quindi
      nemici giurati dell’Amministrazione coloro che si lasciarono andare ad
      atti vandalici.
      
      
       "Assistemmo
      impotenti alla distruzione della Chiesa, della Pretura, del nostro Palazzo
      Comunale, alle interruzioni delle comunicazioni telegrafiche, telefoniche
      e ferroviarie".
      
       Denunciò il
      mancato intervento della forza pubblica e raccontò del loro tentativo di
      intervenire e delle minacce ricevute dai manifestanti; "fummo
      financo minacciati per aver biasimato gli atti vandalici ed inconsulti che
      la folla commetteva".
      
      
      
     |  
          
    | Arresti 
      
        Esuli
      a San Marino
 Profughi
      politici a San Marino ritratti il 7 settembre 1914: da sinistra Brunetti
      (repubblicano di Fabriano, Camillo Garavini (sindaco di Alfonsine,
      socialista), Vincenzo Gironzi (repubblicano di Falconara), Umberto Bianchi
      (socialista di Ravenna) ed infine i fusignanesi Renato Emaldi (studente
      universitario, indipendente), e Giuseppe Grossi (impiegato comunale,
      repubblicano) | Sabato
      21  Giugno 1914:  
      200
      soldati di cavalleria
      
       Si
      scatenò da parte dei conservatori e reazionari una campagna di
      denigrazione contro le persone più in vista del Partito Repubblicano e
      Socialista, come campagna in preparazione delle elezioni amministrative,
      che si tennero ad Alfonsine e Ravenna, la domenica 26 luglio.
      
       
      Camillo Garavini fu
      ingiustamente accusato degli eccessi avvenuti nei giorni 10 e 11. E le
      testimonianze del parroco Don Tellarini (e di altri) furono rilasciate, a
      volte con qualche falsità e quindi non del tutto attendibili, certamente
      anche per le elezioni imminenti.
       La mattina di
      sabato 21 giugno giunse da via Roma un reparto di ben 200 soldati di
      cavalleria. I soldati alloggiarono in chiesa e il tenente colonnello
      Riccordi prese il comando supremo. Iniziò così la retata. Furono
      invase e perquisite le case di coloro per i quali c'era un mandato di
      cattura. Molti però erano già in fuga. Riuscirono a fuggire il
      sindaco Camillo Garavini a San Marino, Ferruccio Mossotti e Beno Gessi in
      Svizzera.
      
       Ci fu una serie
      selvaggia di arresti, in tutto 19 (9 repubblicani, 5 anarchici, 5
      socialisti). Tra gli arrestati, Giacomo Gessi,
      fratello di Beno, che rimase in carcere a Pesaro per sei mesi.
     |  
          
    | Le
      elezioni amministrative di Alfonsine
        Municipio di Alfonsine durante
    i lavori di ristrutturazione
 | La
      domenica 26 luglio 1914 ci furono le elezioni amministrative comunali,
      tutte giocate da parte dei conservatori sui fatti della “Settimana
      Rossa”.
      
      
      
      
       Ad Alfonsine
      governava ancora una giunta socialista, anche se il sindaco era stato
      costretto a fuggire a San Marino.  I Repubblicani
      scelsero di astenersi non presentando alcuna lista per non intralciare gli
      “amici” socialisti.  I liberali
      conservatori non presentarono alcuna lista consapevoli di non poter
      competere, e mirando all’insediamento di un commissario prefettizio,
      come di fatto avvenne.
      
       La vittoria della
      lista dei socialisti, fatti passare per "sovversivi", fu totale:
      30 consiglieri su 30.
      
       |  
    | 
 Alberto
      Alberaniprimo sindaco fascista nel 1922
 | Ultimo
      paradosso: 
      tutti
      amnistiati per la nascita di una principessa.
      
      
       
       I molti alfonsinesi
      processati e condannati per quella rivolta, quelli che fuggirono in
      Svizzera e quelli che andarono in carcere, dopo sei mesi, alla nascita di
      una principessa reale, Maria Francesca di Savoia, ebbero un'amnistia generale e furono liberi.   La nuova amministrazione con a capo Camillo Garavini dopo
      due anni fu commissariata. Riuscì comunque a realizzare la prima opera: la
      ristrutturazione del Municipio.
       
       Poi scoppiò la 1°
      Guerra Mondiale. 
      
       Gli
      alfonsinesi, di
      leva o volontari, ("ah!...
      quelli della settimana rossa") per punizione furono inviati quasi
      sempre in prima linea.
      
       Quando nel 1922
      andò al potere il fascismo anche ad Alfonsine e il nuovo sindaco fu
      Alberto Alberani (foto a destra), figlio dell’Anselmo Alberani già
      citato, per molti di quelli della “Settimana rossa” fu dura, molto
      dura.
       
      
      
         Conclusione
      
        
      Ad Alfonsine
      durante la “Settimana Rossa” non ci fu neanche un morto. La violenza
      fu simbolica, più contro le cose che contro le persone. Quella rivolta fu
      un primo slancio creativo, un tentativo di essere al di là dei confini. 
      
       Ma per muoversi in
      questa zona calda dell'evoluzione è necessaria una radicalità non più
      ideologica e rancorosa (come c’era in gran parte in quei tempi), ma
      biologica, cioè capace di attivare dall'interno del proprio corpo energia
      e vitalità, (in alcuni momenti di festa di quei giorni sembra intravedere
      che quegli alfonsinesi di un secolo fa in parte ci riuscirono).
      
       Purtroppo
      l'assortito banchetto delle ideologie anarchiche, socialiste e
      repubblicane, che fece da cornice a questa rivolta, spinse in modo
      accentuato verso il radicalismo ideologico. 
      
       Le successive
      critiche e autocritiche cancellarono quasi completamente l'esperienza di
      festa, carnevale e di voglia di vita che in parte aveva caratterizzato
      quei giorni di metà giugno 1914. 
      
       
      La "settimana
      rossa" passò alla storia come qualche cosa da dimenticare. Essa
      fu rimossa completamente dalla memoria storica degli alfonsinesi di allora,
      e di oggi. |  
      
       torna
      alla pagina iniziale della Settimana Rossa di Alfonsine                        
       |