Confluirono in bicicletta, sui carri dei birocciai e su altri
mezzi, per lo più braccianti e mezzadri di
fuori Ravenna.
Dalla via Faentina giungevano lunghe fila di ciclisti e calessi, carri tutti pieni di gente: erano di
San Michele, Godo, Mezzano, Alfonsine, Voltana; cantavano tutti e pareva
che andassero ad una festa. Erano circa 18000 scioperanti (secondo
Luigi Lotti in "La Settimana Rossa"). Ravenna all'epoca
contava 20.000 abitanti
In piazza ci fu un
nuovo comizio. Parlarono Bacci e Bianchi dei socialisti. Poi Turchetti e Schinetti
per i repubblicani, infine Antonio Giusquiano, del gruppo
dei mazziniani intransigenti.
L'imponente
adunata si svolse in un clima di crescente tensione, echeggiante di
proclami rivoluzionari, mentre giungevano le prime notizie dei disordini
di Castelbolognese, della notte prima.
Al termine del
comizio qualcuno parlò ancora, ma non si capì bene... La folla cominciò
a gridare "C'è la repubblica, c'è la repubblica! Tutti cantavano e
si abbracciavano - "andiamo in prefettura! avanti!".
Si sparse anche la
voce incontrollata ( e falsa) di un nuovo eccidio durante i funerali ad
Ancona delle vittime di Villa Rossa. Si sentì parlare di insurrezioni
popolari in Lombardia, in Toscana, nella stessa capitale. Si diceva che la
monarchia era ormai prossima al tracollo.
Esauritosi il
comizio, la folla, galvanizzata da quelle voci e dalle parole incendiarie
degli oratori (era stata dichiarata soppressa ogni autorità politica e
istituito un comitato d'agitazione unitario facente funzioni di governo di
salute pubblica) si accalcò minacciosa davanti alla Prefettura.
In prefettura c'erano i soldati
pronti a sparare. La folla si avvicinava
minacciosa, un commissario di polizia cercò di parlare, arrivarono
fischi. Arrivò un colpo con una bottiglia di seltz, sottratta forse in
uno dei caffé che si affacciavano sulla piazza. Rimase colpito sulla testa
il commissario di Pubblica Sicurezza Giuseppe Miniagio, che si accasciò sanguinante, ferito mortalmente
(morì in ospedale il giorno dopo e fu
l'unico morto della settimana rossa in Romagna).
Intervistato agli
inizi degli anni '50 da Tino Della Valle, il presunto feritore di Miniagio
sosterrà di essere stato indotto a quel gesto da una donna, che gli aveva
passato la bottiglia fatale. Repubblicano, iscritto al circolo giovanile
"Il Giglio" di Borgo San Biagio, egli si sarebbe sottratto alla
cattura rifugiandosi ad Ostia dove c'era una folta colonia romagnola. In
seguito fece fortuna come commerciante. (da "1914: i "giorni
rossi" nelle speranze e nelle illusioni dei rivoltosi" da
"Studi Romagnoli" (Faenza) XLIV, 1993, pp. 449-450)
La Questura di
Ravenna dopo l'assalto
Fu soccorso dai
soldati, che si fecero largo tra la folla indietreggiante. In tutta
Ravenna i soldati erano poco più di 300. In quell'occasione il tenente
alla guida dei carabinieri non diede ordine di aprire il fuoco.
Intanto
qualcuno si arrampicò sull'ufficio telegrafico e del telefono che era
sopra la pretura e tagliò i fili delle comunicazioni. Ravenna era isolata
dal resto d'Italia. I soldati incalzarono la folla sparando alcuni colpi
in aria.
Una folla
impazzita entrò nella Chiesa S. Maria del Suffragio: uomini e donne urlanti
portarono fuori panche, arredi e confessionali e ne fecero una barricata
per sbarrare la via XIII Giugno (oggi via Serafino Ferruzzi). Qualche testa di statua fatta cadere
dall'altare fu presa a calci.
La chiesa del S. Maria del Suffragio di
Ravenna dopo l'incursione
La chiesa del S. Maria del Suffragio di
Ravenna dopo l'incursione
La città era in
mano ai rivoltosi. Le porte della città controllate, per passare ci
voleva un fazzoletto rosso, oppure una foglia di edera.
L'annuncio che la
repubblica era proclamata impedì altre violenze e tutto si trasformò in
una festa.
Il circolo
liberale "Patria e Progresso", che secondo i dimostranti, tra i
quali molti braccianti, "faceva tutt'uno con l'Associazione
agraria", fu assaltato e, sfondate le porte,
dalle finestre fu buttato giù di tutto.
Barricate agli
imbocchi di via XIII Giugno e via Ponte Marino per proteggere gli accessi
alla casa del Popolo repubblicana, in via Paolo Costa, designata a sede
del Comitato di Agitazione.
Dal palazzo della
prefettura uscì la cavalleria che trovò via XIII Giugno impedita dalla
barricata. Allora passò a via Paolo Costa e qui disperse la folla che si
rifugiò dentro il cortile della Casa del Popolo. Qui ci fu da parte
dell’esercito una scarica di 80 colpi di fucile contro la Casa del
Popolo repubblicana.
Passati i soldati
tutti
uscirono di nuovo fuori.
La serata sembrò
passare nella tranquillità, salvo un tentativo fallito di incendiare il
portone dell'antica chiesa dello Spirito Santo, prossima al
Battistero degli Ariani.
Il prefetto
Focaccetti informò di ciò il generale Agliardi, che aveva chiesto assicurazioni a proposito della
sicurezza, e lo autorizzò a uscire di città per il giorno dopo con altri sei ufficiali, con
due auto verso Cervia e Cesenatico, per fare dei rilievi.
|