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1922 L'ANNO DEL FASCISMO VINCENTE "Da un lato i fascisti “con quei simboli sinistri e fascinosi”, dall’altro l’esercito di chi predica la rivoluzione comunista, in mezzo una zona grigia. “In quel momento in Italia la violenza diventa oggetto di desiderio politico da parte di quelle persone appartenenti a questa zona grigia: liberali, cattolici… Tutta questa massa più o meno silenziosa subisce la fascinazione simbolica della violenza. La delusione, il sentirsi tradito, il piccolo borghese che si sente declassato… tutti sono sedotti da quella violenza." (Antonio Scurati, scrittore 2019) 8 Gennaio 1922: nacque il PNF a Ravenna, con 13 fasci nella provincia e 1400 iscritti. Fine Gennaio 1922: sotto il Pavaglione a Lugo viene pestato a sangue dai fascisti un tale di Alfonsine, reo di portare la cravatta rossa. Il 26 febbraio 1922: si dimise il governo Bonomi, a cui seguì il Governo Facta. Ma il caos cominciava a imperare e i fascisti a scorazzare ovunque con le azioni paramilitari proponendosi come garanti dell'ordine. I socialisti riformisti dichiararono uno sciopero legalitario che fallì, e ciò porto a un'ulteriore divisione in quel partito.
1° maggio 1922: scontri in tutta Italia con decine di morti. 4 maggio 1922: in piazza XX Settembre di Lugo, il socialista di Alfonsine Antonio Graziani fu aggredito da 15 fascisti ed ebbe una randellata in testa da ciascun squadrista. Ridotto a un ammasso sanguinolente, fu portato da alcuni passanti all'ospedale dove rimase un mese. Antonio Graziani. Era un socialista già consigliere comunale nella giunta Garavini fino al 1920. Aveva un negozio di "Droghe e tabacchi". Il 4 maggio del 1922 fu aggredito in piazza XX Settembre a Lugo da 15 fascisti ed ebbe una randellata in testa da ciascun squadrista. Fu ridotto a una massa informe di carne sanguinolenta e fu condotto da alcuni pietosi passanti all'ospedale dove vi stette un mese. (pag 392 del libro di Romano Pasi "Storia di Alfonsine"). Forse era un Graziani della famiglia dell'Afra d'maestar, mamma di Ballardini (Gigino) ex-veterinario di Alfonsine e di Bebbe, ex direttore farmacia comunale. I Graziani gestivano un negozio e tabaccheria sotto i portici della Violina insieme ai Mazzotti. Probabilmente Antonio era padre di Enrico Graziani che aveva sposato una Mazzotti (maestar) e aveva avuto due figlie Afra e Vanda. Qui sopra un articolo tratto "Il popolo fascista", giornale organo del partito fascista lughese del 10 maggio del 1922. Si parla del "compagnone socialista Graziani, di Alfonsine, santamente legnato a Lugo". 26 luglio 1922 a Ravenna: scontri armati tra fascisti, repubblicani, Guardie Regie, morti e feriti da tutte le parti... Dopo il convegno fascista del 4 luglio, si ebbe a Ravenna la costituzione del primo nucleo sindacale fascista: un gruppo di birocciai, guidati dal fascista Balestrazzi, uscirono dalla Nuova Camera del Lavoro e si costituirono in «Sindacato autonomo». Sembra infatti che l’Associazione agraria avesse promesso agli autori di questa iniziativa scissionista, che mise in crisi tutta l’associazione birocciai di entrambe le Camere del Lavoro, di concedere loro il monopolio del trasporto dei cereali. La Vecchia Camera del Lavoro unitamente all’organizzazione sindacale repubblicana, proclamò uno sciopero di protesta di tutti i birocciai della provincia, che dovevano convenire nel capoluogo per il 23 luglio. Ci fu poi una « provocazione » fascista che generò uno sciopero generale di tutte le categorie lavoratrici per il 26 luglio: tutti i lavoratori della provincia di Ravenna erano invitati a riunirsi nella città per una grande manifestazione unitaria promossa dall’Alleanza del Lavoro. I birocciai del Sindacato autonomo scissionista provocarono le prime reazioni tentando di rubare ai repubblicani un autocarro (che pretendevano toccasse loro di diritto dopo la secessione), già si vede da questo primo incidente quasi un tentativo di isolare i membri del PRI dalla massa compatta degli scioperanti, che erano stati fermati (come tre giorni innanzi) fuori dalle porte della città. I repubblicani, naturalmente, corsero in massa a difesa del loro autocarro ed i birocciai fascisti, ritirandosi, provocarono i primi feriti (cinque) lanciando due bombe a mano; successivamente, profittando della confusione e del comprensibile sbandamento verificatosi sia fra i manifestanti che fra la forza pubblica, attaccarono il vicino circolo « Giuseppe Mazzini ». Anche qui il lancio di una bomba a mano tra la folla che si era rifugiata nei locali, provocò nuovi feriti repubblicani. Balestrazzi, uno dei capi promotori della scissione del sindacato autonomo, noto per la forza eccezionale ed un coraggio notevolissimo, fascista iscritto («della prima ora»), faceva quasi certamente parte delle squadre che già due volte avevano attaccato i repubblicani. Per di più sembrava l'unico a circolare vistosamente in camicia nera. Per tutto questo (ma soprattutto per l’«uniforme» che portava), i manifestanti, scortolo isolato, lo attaccarono e lo picchiarono, provocandone la morte. Fu di fronte a questa situazione che le Guardie Regie aprirono il fuoco (mentre si erano ben guardate dal reagire in precedenza alle bombe fasciste, quando le vittime erano antifasciste), sparando sia sul gruppo che stava lottando contro il Balestrazzi, sia sulla massa degli scioperanti: sei antifascisti restarono fulminati al suolo, due militari furono feriti dai colpi sparati per reazione dalla folla. Altre 24 persone furono ricoverate all’Ospedale civile di Ravenna. Va da sé che solo una minima parte dei feriti (e precisamente coloro che vi furono trascinati dalla forza pubblica perché catturati mentre erano impossibilitati a muoversi) si recò all’Ospedale: dichiararsi ferito equivaleva a farsi arrestare. I fascisti avevano, in sostanza, ripetuto le stesse azioni del 23 luglio, cercando di provocare le reazioni degli scioperanti e di indurre la forza pubblica a sparare. Ma, questa volta, avevano operato con maggiore senso tattico, colpendo in diversi punti gli scioperanti e sfruttando a fondo la presenza di una numerosissima schiera di militari appostati quasi a difesa della porta e per di più muniti di armi automatiche. Dopo una lunga ed accurata perquisizione del quartiere, effettuata casa per casa, con l’arresto di quanti non dimostravano di abitare dove venivano trovati, la Guardia Regia si ritirò in città con i fascisti; socialisti e comunisti (assieme agli anarchici) occuparono i rioni periferici iniziando la organizzazione della difesa armata. I repubblicani raggiunsero le loro sedi. Ormai l’intera Romagna era mobilitata: l’Alleanza del Lavoro dichiarava sciopero generale in tutta la «regione». Quando, nel primo pomeriggio, Balbo passò per Bagnacavallo diretto a Ravenna, trovò la « piazza ingombra di gente agglomerata e minacciosa»; più avanti, « la strada era ancora bloccata da gruppi ostili » e così fino a Ravenna, dove, già dal mattino, un «Comitato fascista d’Azione» immediatamente costituitosi imponeva la chiusura di tutti gli esercizi pubblici ed uffici oltre a fare affiggere sulle porte la dicitura: «Chiuso per lutto fascista». Intanto Ravenna si andava riempiendo di fascisti: migliaia di camicie nere accorrevano da Bologna e Ferrara, in camion ed in treno: « in città fu il terrore » Il
28 luglio fu firmato un patto di tregua e buona volontà tra i fascisti e i
repubblicani. Sette ore dopo aver firmato il patto con i repubblicani, alle
due di notte, i fascisti iniziarono l’attacco in massa alle zone
periferiche di Ravenna, ancora difese da socialisti, comunisti e anarchici. Così in Borgo S. Rocco, dove già erano stati da poche ore incendiati i circoli anarchico e socialista, sin dalla notte stessa i social-comunisti furono pronti a respingere ogni altro, possibile attacco. Quando, verso le ore 10 del mattino, gli antifascisti videro avanzarsi i fascisti ferraresi e bolognesi, in buon numero, fecero quello che si erano proposti di fare e che chiunque altro avrebbe fatto per difendersi: sparare per salvare la propria vita e le proprie sedi. Giunti
presso il mulino i fascisti furono investiti da colpi di rivoltella. Morì Aldino
Grossi,
quasi
tutti gli altri fascisti (presumibilmente una ventina) rimasero
feriti. A
questo punto iniziarono le rappresaglie con l’incendio di alcuni circoli
comunisti, anarchici e socialisti nel Sobborgo Fratti ed ai Capanneti. Più
difficile risultò l ’occupazione del Sobborgo Garibaldi, difeso molto
coraggiosamente da tutta la popolazione, praticamente disarmata, con getti
di masserizie e materiali d’ogni genere dalle finestre e lottando quasi
corpo a corpo, casa per casa. I fascisti ravennati celebrarono se stessi il 29 luglio 1923, per il primo anniversario del “martirio” di Giovanni Balestrazzi e Aldo (“Aldino”) Grossi, i due caduti delle “gloriose” giornate del luglio 1922. Il fascio organizzò una solenne cerimonia, che si sarebbe ripetuta da allora ogni anno, con modalità più o meno simili. Ravenna: Inaugurazione della lapide in onore di Balestrazzi, il capo dei facchini fascisti ucciso negli scontri di Borgo San Biagio del 26 luglio ’22, con Grandi oratore ufficiale, al solito impeccabile nel suo abito borghese (mentre spettò a Balbo in divisa della Milizia commemorare il giovanissimo squadrista Grossi, suo conterraneo, caduto il 29 luglio nell’assalto a Borgo San Rocco) Passando da Alfonsine... Le squadre fasciste ferraresi mentre si dirigevano a Ravenna il 26, erano passate anche da Alfonsine: si fermarono per una sosta, e qui distrussero il Caffé locanda-alloggio che si trovava sotto i portici di sinistra della Violina, detta 'Al Sole' della madre di Camillo Garavini sindaco di Alfonsine, che passò poi alla figlia Susanna Garavini, sposata con Bonafede Minarelli (Fed). A Ravenna il 27 luglio In fin dei conti il povero Balestrazzi, anche da morto, poteva essere ancora utile alla « causa fascista ». Prima dell’alba, una squadra fascista si introduceva nella camera mortuaria dell’Ospedale civile, trafugava la salma del Balestrazzi e la portava alla sede del fascio. Le poche Guardie Regie (allora di stanza a Ravenna), guidate dal capitano Meloni, erano insufficienti a mantenere l’ordine, posto che questo fosse il loro fine. Perciò era stata data la disposizione di «salvare il salvabile» e di presidiare unicamente quegli edifici socialisti, comunisti, anarchici e repubblicani che fossero ancora indenni. Intanto i sobborghi continuavano ad essere difesi saldamente dai social-comunisti (e da alcuni repubblicani), che, dalle finestre delle abitazioni e delle sezioni dei vari partiti, sparavano su chiunque si avvicinasse. Al mattino del 27, Balbo si recò dal Prefetto per avvertirlo che tutti i fascisti si sarebbero recati ai funerali del Balestrazzi. Era sua intenzione che la manifestazione si svolgesse senza il minimo incidente e quindi chiedeva che tutta la forza pubblica presidiasse le vie che sarebbero state percorse dal corteo, « proteggendolo » dagli attacchi che certamente avrebbero portato i « sovversivi ». I fascisti invadono la Casa del Popolo repubblicana e la occupano. Alle ore 17, si mosse il corteo funebre, in testa al quale marciavano « le squadre più agguerrite ». "Non appena il corteo, - scrisse poi Balbo stesso - in testa al quale marcio io stesso, ha compiuto 2 o 3 cento metri fra le due ali di truppa che il prefetto ci ha concesso, le nostre squadre piombano rapidamente, dopo una corsa veloce di pochi minuti, sulla casa del popolo dei repubblicani. L'azione fulminea non ha trovato resistenza perché la casa era quasi del tutto sguarnita dai carabinieri e dalle guardie regie che ieri la difendevano e che sono oggi impegnati nel funerale. Fatta irruzione nell’interno della casa del popolo i fascisti si barricano nella fortezza repubblicana. I pochi repubblicani presenti non hanno fatto che scavalcare le finestre e 'darsela a gambe'. Balbo guidò una squadra all’assalto dell’ex Palazzo Byron, sede della Federazione delle Cooperative socialiste e lo fece distruggere con un incendio Durante la successiva notte, silenziosamente, Balbo guidò una squadra all’assalto dell’ex Palazzo Byron, sede della Federazione delle Cooperative socialiste. Il vecchio edificio fu praticamente raso al suolo dall’incendio appiccatovi: «dobbiamo dare oltre a tutto agli avversari il senso del terrore». Ora Balbo aveva in mano la carta vincente: i repubblicani spaccati in due dovevano uscire dall’Alleanza del Lavoro ed eleggere dirigenti nettamente antisocialisti, oppure sarebbe toccata alla loro Casa del Popolo (che fungeva anche da magazzino per le merci delle cooperative repubblicane) la stessa sorte toccata al Palazzo Byron Balbo, ormai, aveva vinto la battaglia di Ravenna; il fine che si era proposto era, praticamente, conseguito. Agli attriti fra comunisti e socialisti fra di loro e poi fra repubblicani e socialisti, si aggiunsero i fascisti contro tutti. Iniziò un periodo di violenza e terrore.
Agosto 1922 ad Alfonsine Il sindaco socialista Garavini e il segretario locale del sindacato Vincenzo Tarroni furono minacciati e banditi da Alfonsine Si dimise la giunta comunale del sindaco Garavini, Nell'agosto del 1922 si dimise la Giunta Comunale socialista del sindaco Garavini: le motivazioni furono varie. La prima fra tutte la scissione dei comunisti che fecero dimettere i loro rappresentanti dalle varie commissioni e istituzioni, come ad esempio Cremonino Samaritani da presidente della Congregazione di Carità. La seconda causa fu legata a questioni di bilancio. C'era stato il ricorso del contribuente Stefano Mingazzi contro il bilancio 1921 che aveva indotto la Giunta a depennare di 58.600 £ ad esercizio finanziario già quasi ultimato. A dire il vero, come scriverà poi il Commissario Prefettizio sul bilancio preventivo per il 1923, nel 1921 la Giunta Garavini aveva previsto un deficit di 60.000£, ma erano stati pessimisti perché in realtà avrebbero avuto un avanzo di 27.000 £. Poi di nuovo nel maggio un nuovo ricorso fatto contro il bilancio comunale del 1922 sempre dal Mingazzi contro una sovraimposta comunale. Quando la V sezione del C. di Stato accolse il ricorso, impose di togliere dal bilancio la somma di 31.000 £. Così non si potè incassare in conto tale tassa. "Il disavanzo per il 1922 sarà di 102.000 £", fu la conclusione del Commissario Prefettizio, che gestì il Comune dall'agosto al dicembre 1922. La terza causa fu che dopo i gravi fatti dell'attacco dei fascisti locali al caffé della madre e della sorella e alla tipografia della moglie, e dopo ciò che era successo a Ravenna, Garavini non si sentiva più sicuro, i fascisti emisero un 'bando' affinché non potesse più stare ad Alfonsine, e intimorito fuggì a Roma insieme al segretario locale del sindacato rosso Vincenzo Tarroni, e con loro anche Bruno Pagani (fotografo e socialista riformista del PSI giovanile). Il
Garavini,
che appartenne sempre all'ala più moderata del
partito socialista, aveva avuto uno scontro contro l’ala massimalista del suo partito, che poi
in parte andò nel PCd’I, e in parte nel partito fascista. Sentì che
l’aria stava cambiando, soprattutto per l’abbandono di molti socialisti e
anche per le minacce ricevute da ogni parte, e si dimise da
sindaco.
La prima sezione del fascio alfonsinese
Per battere i sovversivi i nuovi dirigenti fascisti iscrissero al partito quante più persone possibili, senza alcun filtro selettivo. E così la sezione andò via via ingrossandosi in ottobre e novembre. Ciò creò vari malumori e divisioni interne al partito. Si formarono due fazioni, l'una contro l'altra: quella di Sasdelli, Faccani e Alberani contro quella di Mariani e Gessi. Chi faceva parte delle Squadre d'Azione nate ad Alfonsine al tempo dei primi fasci di combattimento? Alla sezione del partito fascista, aderirono così anche vari ragazzini dai 17 anni ai 20. Videro in quel movimento politico un'occasione di riscatto, il sogno di uscire dalla miseria delle famiglie in cui erano nati. Divennero fascisti sul filo dell'entusiasmo della prima giovinezza. La
"Santa Milizia" il 4 febbraio 1939 pubblicò il tanto atteso L'assenza del nome di Mino Gessi, che sappiamo essere iscritto fin dal 1921, è dovuta al fatto che nel 1939, anno in cui fu redatto l'elenco, Mino Gessi era già stato coinvolto in duri scontri con i fascisti alfonsinesi e ricercato e condannato per l'omicidio di Abele Faccani, segretario del PNF. Ecco
qui un secondo elenco ufficiale degli squadristi fascisti (redatto dal PNF nel 1939).
Manca Marcello Mariani (chissà perché?!) Sasdelli utilizzò i giovani più esuberanti e violenti, creando così un reparto di nuovi squadristi, non più sotto il controllo di Marcello Mariani. Con quelli attuò la sua politica: istigandoli a mettere in atto una serie continua di azioni violente e intimidatorie, nei primi anni del fascismo. Poi nascondeva la mano, e pubblicamente prendeva la distanza da quelle azioni, che erano deplorate dalla cittadinanza e anche dagli organi fascisti superiori. Nuove forze si erano andate comunque aggregando al carro vincente dei fascisti, soprattutto agrari come gli Alberani, con il giovane Commendatore Alberto Alberani, che sarà candidato sindaco per il PNF, e altri, aspiranti imprenditori e agrari, o affaristi, come Abele Faccani, Girolamo Samaritani, Luigi Vecchi, Giuseppe Marini, Mario Monti, Antonio Camanzi, Romano Gagliardi ... Sasdelli così mise subito in difficoltà coloro che per primi avevano aderito ai Fasci di Combattimento con purezza d'intenti, come Marcello Mariani e come Mino Gessi, volontario combattente della Grande Guerra, che aveva aderito al fascismo, ma che non poteva tollerare di vedere tra gli squadristi ex-anarchici, disertori, disfattisti, violenti, gente opportunista senza ideali.
In questo modo il Sasdelli si impose come il vero ras locale, a cui dovette far riferimento Alberto Alberani quando si candidò per il PNF all'elezione di sindaco nel dicembre 1922. Lo scontro con i fascisti idealisti come Mariani e Gessi sulla gestione del partito, e in particolare delle squadre, portò questi ultimi a protestare presso il federale del PNF Frignani, il quale appoggiò comunque il Sasdelli. Sfondamento del fascismo a livello nazionale anche in campo sindacale A livello nazionale il fascismo stava ottenendo lo sfondamento politico in campo sindacale. La concentrazione delle squadre d'azione fasciste in una località era sempre seguita dalla distruzione delle Camere del lavoro e delle altre sedi sindacali, dall'assassinio o dall'allontanamento forzato dei capi sindacali locali; questa razzia costituì l'atto preliminare necessario per la fondazione di una corporazione fascista, alla quale si facevano iscrivere gli aderenti dell'organizzazione distrutta. Avvenne così pian piano il passaggio di interi settori operai dalle strutture del Partito Socialista Italiano e della CGdL al fascismo. Il crollo della Confederazione generale del lavoro fu verticale: già alla fine del 1921 gli iscritti rispetto l'anno precedente si dimezzarono e nel 1922 la crisi che la colpì si fece ancora più pesante. O perché sottoposti ad una violenza ininterrotta, o per ottenere peraltro anche favoritismo dalle nuove amministrazo per ottenere peraltro anche favoritismo dalle nuove amministrazioni fasciste e dalle organizzazioni padronali degli agricoltori, una gran massa di lavoratori fu costretta ad abbandonare le proprie organizzazioni tradizionali per confluire in quelle fasciste. Tanto che, nell'estate del 1922 la Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali contava 800.000 iscritti. Lavoratori e lavoratrici, che probabilmente appena pochi mesi prima partecipavano alle manifestazioni indette dalle due Camere del lavoro, dietro le bandiere socialiste, anarchiche e repubblicane, alcuni per convinzione, altri per opportunismo, altri ancora perché costrettivi dagli organizzatori sindacali fascisti, si trovarono ad aderire a questi nuovi sindacati fascisti che presero il nome di Confederazione Nazionale Sindacati Fascisti. Il governo fascista da lì a poco decretò la chiusura della Confederazione generale del lavoro che passò in mano della Confederazione Nazionale Sindacati Fascisti. 28 ottobre la Marcia su Roma I fascisti fecero la Marcia su Roma. Quattro giorni prima della marcia, il 24 ottobre, a Napoli si tenne una grande adunata del Partito Nazionale Fascista, raduno di camicie nere che doveva servire da prova generale. In quell'occasione, Mussolini proclamò pubblicamente: "O ci daranno il governo o lo prenderemo calando a Roma". La marcia avvenne dopo mesi di violenze squadriste contro sedi e iscritti di partiti e sindacati di sinistra, e in un contesto democratico compromesso dal susseguirsi di governi deboli. In quell'ottobre piovoso del 1922 a capo del governo c'era Luigi Facta, che per Mussolini era un personaggio ininfluente: "Quando lo vedo mi viene voglia di tirargli i baffi" diceva. Ogni ora che passava il clima diventava sempre più incandescente: da diverse regioni d'Italia squadre di combattimento provavano a raggiungere Roma requisendo i treni (ma spesso trovavano i binari divelti dai militari decisi a boicottare la marcia).
Roghi durante la Marcia su Roma: in quei giorni concitati furono prese d'assedio le prefetture di Firenze, Siena, Foggia, Rovigo e di molte altre città italiane. A Roma le camicie nere minacciavano di occupare i ministeri. L'obiettivo del futuro Duce era estrometterlo e ottenere la guida del Paese forzando la mano al re, Vittorio Emanuele III, che avrebbe dovuto decidere, durante lo svolgimento di quella manifestazione eversiva, se cedere alle pressioni dei fascisti e incaricare Mussolini di formare un nuovo governo o dichiarare lo stato d'assedio, rischiando la guerra civile. Il 27 ottobre circa ventimila camicie nere partirono da Santa Marinella, Tivoli, Monterotondo e dal Volturno e, requisendo convogli ferroviari, si diressero verso la capitale, difesa a sua volta da 28.400 soldati. Da un punto di vista tattico e numerico, il piano della marcia su Roma non aveva pressoché alcun senso: i fascisti che pretendevano di ‘conquistare’ Roma erano all’incirca 10.000, equipaggiati in modo insufficiente. Non avrebbero potuto nulla contro i soldati che presidiavano la città, e che tuttavia non fecero assolutamente nulla per fermare i fascisti. Da Alfonsine in quanti parteciparono (o dissero di aver partecipato) alla Marcia su Roma? La "Santa Milizia" del 27 ottobre 1934 registrò le domande inoltrate da fascisti alfonsinesi per la concessione del brevetto di essere stati "marciatori su Roma". Le domande furono 55.
E comunque se anche un gruppo di fascisti alfonsinesi partecipò alla spedizione su Roma, sicuramente nella giornata del 30 ottobre erano già ad Alfonsine dove venne ucciso nella mattinata dagli squadristi neri il repubblicano mazziniano Peo Bertoni. A Roma intanto Alle 6 del mattino del 28 ottobre il governo dichiarò lo stato d'assedio, ma il re (alle 8 e 30) si rifiutò di controfirmarlo e il capo del governo Luigi Facta si dimise: il Paese era senza governo (e fuori controllo). Mentre le camicie nere entravano nella capitale, minacciando di occupare i ministeri, Mussolini fu convocato dal re. Giungerà a Roma il 30 ottobre (viaggiando in treno, in vagone letto): solo allora il re gli conferirà ufficialmente l'incarico di formare un nuovo governo di coalizione, composto da nazionalisti, liberali e popolari. Con le sue sole forze alla camera dei Deputati (35 deputati), Benito Mussolini non avrebbe mai potuto formare un proprio governo. Ma grazie ai contatti e alle trattative che egli condusse per tutto il mese di ottobre, gli bastò inserire qualche esponente liberale, democratico e popolare nella compagine governativa e tra i sottosegretari, per raggiungere il proprio scopo. Il 19 novembre del 1922, la Camera votò con larga maggioranza la fiducia al Governo Mussolini. Fra coloro che votarono a favore, figuravano nomi importanti del panorama politico italiano: Giolitti, Salandra, Facta, Bonomi, Orlando, e anche due personaggi destinati a divenire molto importanti nel futuro: Gronchi, futuro presidente della Repubblica Italiana nel dopoguerra, e Alcide De Gasperi, futuro Presidente del Consiglio nell’immediato dopoguerra. Questi voti vennero dati a Mussolini, nonostante egli, in occasione della presentazione alla Camera del nuovo esecutivo, avesse minacciato i deputati presenti, facendo loro presente che se solo avesse voluto, avrebbe potuto facilmente ottenere con la forza la fiducia del Parlamento. Tutto ciò avvenne senza che l’allora Presidente della Camera dei Deputati Enrico De Nicola, che diverrà in seguito il primo Presidente della neonata Repubblica Italiana, intervenisse, anzi, egli diede il proprio voto al nuovo Governo. A fine novembre, anche il Senato accordò la fiducia al Governo Mussolini, che non ancora soddisfatto, il 24 novembre chiese ed ottenne dal Parlamento i pieni poteri per un anno. Benito Mussolini, durante la marcia su Roma, con i quadriumviri: da sinistra Emilio De Bono, Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi. Il militante in primo piano a sinistra copre la figura di Michele Bianchi. La foto fu scattata il 30 ottobre quando Mussolini arrivò a Roma, convocato da Vittorio Emanuele III. Mussolini era riuscito nel suo piano: spaventare le istituzioni e prendere con la forza il comando del Paese. Durante il suo discorso di insediamento davanti alla Camera dei deputati (il 16 novembre) si presenterà con l'ormai famoso discorso del bivacco: "Avrei potuto fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto". Il fascismo era ufficialmente cominciato.
Ad
Alfonsine la notte tra il 29 e 30 ottobre Giuseppe Baldini fu ucciso, per un semplice diverbio, durante una colluttazione, la sera del 29 ottobre ad Alfonsine,in un caffé di Borgo Fratti (Borgo Gallina) Era diventato fascista per lavorare come facchino. (dalla testimonianza di Arturo Montanari dla Canapira dal libro "L'idea e la Forza", pag. 282-283) All'osteria di Borgo Gallina detta la 'Camaraza' una sera Toni Zirendola aveva invitato un suo amico Eugenio Argelli, socialista antifascista che a causa delle sue idee correva il rischio di essere bastonato dai fascisti. Toni era socio ed aveva uno sconto sul prezzo delle consumazioni, e offrì un bicchiere di vino all'amico. Poco dopo entrò anche un fascista Giuseppe Baldini (Pino ad Renzi) che cominciò a provocare dicendo: "Qui entra della gente che non potrebbe entrare e che dovrebbe vergognarsi"... Argelli: "Lo so che intendi riferirti a me... io sono entrato con Toni che mi ha invitato". Scoppiò il litigio. Baldini portò la mano alla cintola, ma Argelli fu più svelto e sparò uccidendo l'avversario. Io, insieme alla sorella ed al cognato, andai a trovare Argelli in carcere. Lui ci raccontò come erano andate le cose e ci disse che l'avvocato difensore, Gino Giommi, gli aveva suggerito, dati i tempi, di presentarsi al processo con aria dimessa e pentita, ma che lui intendeva non seguire il consiglio: "Non ho nessuna intenzione di andare in tribunale a piangere e ciò che non dirà l'avvocato, lo dirò io". Comunque l'avvocato aveva raccolto numerose testimonianze negative sul conto del fascista ucciso: la gente che era stata menata, il cattivo comportamento familiare... Morale: Argelli prese solo tre anni. Scontata la pena, emigrò in Francia ove pare si sposasse ed avesse anche un figlio di cui però non abbiamo mai saputo niente. È invece certo che allo scoppio della guerra civile di Spagna egli si arruolò come volontario, divenendo anche comandante di brigata. Rimase ucciso durante quella guerra civile. Gli squadristi fascisti alfonsinesi, (forse quelli appena ritornati dalla spedizione della "Marcia su Roma"?), si mobilitarono per vendicare il loro camerata ucciso e andarono a devastare il caffé della Vittoria Calderoni, moglie di Pagani, posto sotto i portici di piazza Monti, poi incendiarono la sede dei Repubblicani nel 'Lazzaretto' e stavano per assaltare la 'Casa dei Socialisti', nell'attuale 'Casa del Popolo', al di là del 'ponticello' sul Senio.
Le elezioni del 17 dicembre 1922 per il Comune di Alfonsine All'interno del fascio alfonsinese si era creata una notevole spaccatura che aveva portato allo scioglimento del partito e all'espulsione di vari iscritti tra i più violenti. Marcello Mariani si propose con altri, tra i quali Mino Gessi, come punto di riferimento per rinnovare il Partito fascista alfonsinese, in contrapposizione a un'altra corrente dei cosidetti 'rifondatori' che erano gli stessi, con a capo il Sasdelli, che avevano favorito la spinta violenta e antidemocratica della sezione di Alfonsine. Alle elezioni di dicembre ad Alfonsine parteciparono solo due partiti: il PNF e il Partito Repubblicano. I socialisti erano ormai frantumati, con Garavini e altri dirigenti fuggiti dal paese, e non si presentarono, come pure i comunisti. La campagna elettorale fu minima per i soli repubblicani. I
fascisti riuscirono anche a diffondere una 'zirudèla' (una poesiola), che
veniva cantilenata anche dai bambini e che mostra la capacità mediatica che
erano riusciti a crearsi: Alle elezioni comunali del dicembre 1922 I fascisti ebbero 2000 voti e 750 ai Repubblicani. Un risultato incredibile che ribaltava tutto. Ma anche per i repubblicani che mai avevano raggiunto un tal numero di voti: quindi votarono per loro anche uomini di altri partiti. Per la legge maggioritaria i fascisti ebbero 24 seggi e 6 i repubblicani. Il 30 dicembre 1922 si convoca il nuovo Consiglio Comunale di Alfonsine appena eletto Eletti per il PNF Dott. Alberto Alberani, Ancarani Antonio, Argelli Vincenzo, Baracca Antonio, Baccarini Antonio, Ing. Begozzi Nereo, Faccani Abele, Garavini Matteo, Graziani Olindo, Prof. Marcello Mariani, Marini Antonio, Geom. Massaroli Battista, Montanari Secondo, Monti Mario, Pasi Ercole, Poletti Ermenegildo, Ravaglia Ezio, Rinaldi Federico, Rovina Antonio, Secchiari Giuseppe, Stanghellini Romeo, Tabanelli Guido,Vassura Anselmo,Vecchi Luigi. Eletti per il PRI Gessi Ettore, Coatti Giacomo, Bruni Angelo, Errani Leonardo, Pasquali Domenico, Rambelli Federico. Marcello Mariani fu eletto consigliere, ma con nessuna carica e fu spesso assente ai Consigli Comunali per la sua attività di insegnante a Milano. La nuova giunta si presentò in C.C. il 4 gennaio 1923: Alberto
Alberani (sindaco)
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