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Esecuzioni
sommarie
durante
il fascismo, la guerra e
nell'immediato dopoguerra
contro fascisti e
antifascisti,
supposte spie, collaborazionisti e partigiani
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a cura di Luciano Lucci: in costruzione continua.
Chi fosse interessato a
proporre correzioni o a dare informazioni è pregato di contattare
Luciano Lucci
( lucci@racine.ra.it
)
PREMESSA
Da diversi anni con alcuni amici del circolo
“Alfonsine mon amour” mi sto interessando alla storia del novecento
nel nostro paese. In questo percorso ho creduto di scoprire alcune zone
d’ombra, periodi di vita del paese rimossi o mai raccontati, come quelli
degli anni del “fascismo vincente” degli anni ’30. Oppure
eventi impetuosi o tragici che sono stati poco conosciuti, rielaborati e
metabolizzati dalla nostra comunità, come quelli della “Settimana
Rossa” o quelli dell’avvento del fascismo all’inizio degli anni
’20. Infine ho trovato nella tragicità del periodo bellico e post
bellico episodi di violenza dovuti alla nefandezza della guerra, in cui
l’anima di chi combatteva si è incattivita e smarrita,
indipendentemente che si fosse dalla parte giusta o da quella sbagliata.
Il
fascismo fu una dittatura della maggioranza
Il fascismo era riuscito ad ottenere un consenso
di massa anche ad Alfonsine. La retorica della resistenza ha sempre teso a
nascondere quest'aspetto del fascismo, lasciando intendere che si
trattasse di una dittatura di pochi su molti. La resistenza sarebbe stata
di conseguenza la rivolta dei molti sui pochi. Basta sfogliare l'elenco
dei 565 informatori-delatori (o presunti tali) che compongono la cosidetta
"capillare", istituita dai fascisti, solo nel comune di Ravenna,
ci si rende conto di quanto il fascismo avesse pervaso la società civile.
Anche Alfonsine ha il suo elenco di circa una cinquantina di nomi, mai
pubblicati. Potremmo dire che nessun comune della Romagna può tirarsi
fuori. E a poco servono le riflessioni di chi giustifica ciò dicendo che
prendere la tessera del fascio serviva per avere pane e lavoro, o che le
violenze e le prepotenze erano tali da obbligare molti ad aderire per
paura, e così via... Ci fu una parte di cittadini che non aderì al
fascismo, che subì sì discriminazioni, ma che riuscì ad arrangiarsi,
senza per questo dover essere considerata eroica.
Occorre quindi prendere atto che anche in Romagna,
così pure ad Alfonsine, il fascismo riuscì ad essere vincente
guadagnandosi un progressivo consenso di massa. Con ciò non si vuole dire
che non ci fossero degli oppositori, ma che erano pochi, né si vuol dar
ragione a chi per giustificare tutti utilizza frasi come "... quello
era l'andazzo,... si doveva pur campare,... era una dittatura.... e non c'era altro modo" : il classico "tutti
colpevoli tutti innocenti". No! ci fu una parte vasta di gente (anche ad Alfonsine)
che aderì convinta al fascismo e ne permise l'ascesa, fin dai primi anni
'20. Certo il clima politico fu segnato da scontri, intimidazioni, minacce
provocazioni e violenze quasi quotidiane da parte dei fascisti, e spesso
ci furono anche omicidi, come quello di Peo Bertoni ad Alfonsine, o di
Battista Emaldi a Fusignano.
Nel 1924 alle ultime elezioni
politiche 'democratiche' il 47% dei voti alfonsinesi andò alla Lista
Nazionale (fascisti, destra, liberal-nazionali,
nazional-popolari)
Ma ad Alfonsine, quando ci furono le elezioni sia
amministrative ('22) che politiche ('24), pur in un clima tesissimo creato dalle
scorrerie di squadristi, ci fu un vasto consenso alla Lista Nazionale (fascisti,
destra, liberal-nazionali, nazional-popolari): la violenza contro i rossi aveva pagato.
Iscritti 3781: votanti (68,5%) (nel
1921 a elezioni politiche generali avevano votato il 67%)
Fascisti (fascisti, destra,
liberal-nazionali, nazional-popolari) 1358
(47%, nel 1921 erano il 13%)
Socialisti unitari (4,4%, erano il 42,8%)
Massimalisti (soc.) (13,6%, erano coi socialisti)
Repubblicani (12,6%, erano il 25%)
Comunisti (12,3%, erano il 17%)
Popolari (1,7%, erano il 2%)
E da lì fino
all'entrata in guerra fu una continua ascesa. Naturalmente va messo in
conto la divisione fra i partiti di opposizione e la loro messa al bando,
l'abolizione delle libertà di opinione e di stampa, i tribunali speciali
contro gli oppositori, insomma la dittatura. Ma occorre anche prendere
atto che le responsabilità del fascismo ricadono sì soprattutto sui
capi, sugli squadristi della prima ora, su "quelli della marcia su
Roma", ma anche su chi ne decretò il successo con il suo appoggio e
condiscendenza.
E in questi va enumerata almeno la metà dei cittadini, anche di Alfonsine.
In seguito si arrivò probabilmente a un consenso sempre più vasto,
fino al punto massimo della fine degli anni '30.
Come la guerra travolse tutta una
comunità
Nel
voler qui raccontare di come la guerra possa stravolgere tutti i canoni di
legalità e compassione, anche da parte di coloro che sono dalla
parte giusta, occorre prima raccontare i casi di scontri e morti ammazzati
da entrambe le parti negli anni del fascismo nascente, poi le esecuzioni sommarie
attuate contro giovani alfonsinesi antifascisti e
partigiani che vennero 'giustiziati' o uccisi nel periodo della repubblichina da tedeschi e
brigatisti neri o elementi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR).
Infine si
proverà raccontare delle esecuzioni
sommarie o vendette personali contro fascisti, collaborazionisti, o presunti
tali, durante la guerra e nell'immediato dopoguerra.
Gli
alfonsinesi morti per le violenze subite nel periodo del fascismo
Ad
Alfonsine durante il periodo di affermazione del fascismo, oltre a varie
intimidazioni squadriste fatte con schiaffi, minacce, bastonature, distruzioni, e
a volte (poche) reazioni di chi non voleva subire, ci furono alcuni episodi
violenti che causarono la morte di quattro persone
1 |
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Peo
Bertoni, repubblicano: ucciso sull'argine del fiume Senio da un
colpo di fucile sparato da alcuni fascisti rimasti ignoti, che si
trovavano dall'altra parte del fiume. Fu la risposta all'accoltellamento
mortale del fascista Giuseppe Baldini avvenuto nello stesso giorno
in un’osteria a Borgo Fratti. Incendiata la sezione del Pri nel
'lazzaretto' e distrutto un caffé della Vittoria Calderoni sotto i
portici della 'Violina', posti a fianco la rampa del fiume, i
fascisti stavano marciando verso la Casa dei Socialisti ('Casa del
popolo') quando il Bertoni, che faceva il calzolaio, vedendo
l'incendio delle sede repubblicana e temendo anche per il suo
negozio che si trovava in corso Garibaldi, si arrampicò sull'argine
sinistro del fiume, per vedere cosa stava accadendo, venne preso a
fucilate e ucciso. (cliccare
o toccare qui per saperne di più) |
2 |
Giuseppe
Baldini,
fascista: ucciso in un caffé di Borgo Fratti: era diventato
fascista per lavorare come facchino. Fu ucciso durante una lite da uno
che gli contestò tale azione opportunistica e che non lo voleva
nelle sede del caffé dei socialisti. (cliccare
o toccare qui per saperne di più) |
3 |
'Spadetta':
ucciso durante uno scontro con una squadra di fascisti negli
anni 20 lungo l'argine dii un fiume. Fu ucciso da un colpo di arma
da fuoco. Tra gli squadristi c'erano Vittorio Graziani (Tamànt). Tamànt sembra che fosse rimasto ferito, o fu
passato per tale, e indotto ad assumersi la colpa di essere l'autore
dello sparo. In questo modo non fu rinviato a giudizio trattandosi
di legittima difesa. L'autore dello sparo fu un suo camerata. |
4 |
Abele
Faccani: fascista, segretario del Fascio Alfonsinese.
2 marzo 1924, durante un'aggressione a Giacomo 'Mino' Gessi, quest'ultimo
per non soccombere sparò e ferì il Faccani che dopo 17 giorni
morì per infezione della ferita nell'ospedale di Bologna |
5 |
Mino
Gessi: ex-fascista,
poi anti-fascista, ruppe col fascismo fin dai primi
anni (1923) condannato in contumacia a 26 anni per l'omicidio del
segretario del fascio alfonsinese, mentre
invece si trattava di legittima difesa, visse in Francia finché nel
1945 fu imprigionato dai fascisti francesi e poi consegnato ai
tedeschi.
Morì di malattia il 6 febbraio nel campo di sterminio di Dachau.
(per
saperne di più clicca o tocca qui)
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Gli alfonsinesi antifascisti e
partigiani 'giustiziati' o uccisi nel periodo della repubblichina da tedeschi e
brigatisti neri o elementi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR)
1 |
Adriano
Zoli (1923-1944)
Adriano
Zoli di Rossetta, giovane renitente alla leva per la GNR, fu
assassinato da Natale Ancarani nel 1944
Risuolava
scarpe ad Alfonsine, suo paese natale, il ventiseienne Natale
Ancarani, di Eugenio e di Giovanna Mingozzi (Minguzzi?). Lo
conoscevano tutti e perciò, quando nel 1944 fu chiamato alle armi
nella Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) della neonata Repubblica
fascista di Salò, l’Ancarani chiese di essere impiegato fuori di
casa, magari in un paese vicino. Fu accontentato in parte, con la
collocazione nei presidi di Ravenna e di Fusignano.
Il
4 maggio del 1944 lo zio di Natale, Leonardo Ancarani, noto
caporione fascista, fu ucciso in località Marina, e il giorno dopo nella sede del
Fascio di Alfonsine venne allestita la camera ardente. Natale,
presente, dopo le condoglianze alla famiglia se n’era andato senza
partecipare alle esequie e senza profferire parola alcuna, men che
meno di vendetta, come dirà in seguito al processo.
Poche
ore dopo, un furgoncino con cinque uomini a bordo, tutti in
borghese, entrò nel cortile di una casa di contadini, nella
frazione di Rossetta, abitata dalla famiglia di Guido Zoli. Erano
circa le 16.30. Mitra alla mano, i cinque, chiesto fuggevolmente del
capofamiglia, si diressero verso un capanno d'erba collocato a poca
distanza. In esso erano soliti nascondersi tre giovani, Armando
Ravaioli con Silvio e Adriano Zoli, due cugini. Non erano
combattenti partigiani, ma semplici renitenti alla leva. I tre
giovani, vistisi braccati, uscirono rapidamente dalla parte
posteriore che dava verso la campagna, fatti oggetto da colpi di
mitra sparati da due inseguitori, Antonio Pavirani e l’Ancarani
stesso. Due si fermarono poco dopo con le braccia alzate, il terzo
Adriano proseguì nella fuga disperata fino a raggiungere un fosso.
Salvo? No, perché i due fascisti stavano proseguendo proprio nella
sua direzione. Fu inevitabile uscire dal provvisorio nascondiglio,
in segno di resa e diretto verso i compagni. Giunto a 40 metri,
egli fu freddato dall’Ancarani. Il padrone di casa egli altri
finirono in carcere a Ravenna, da cui Guido uscì dopo qualche
giorno per tornare alla Rossetta mentre i due compagni del morto
furono deportati in Germania.
Nel settembre 1944 l’Ancarani cambiò aria e compiti, lavorando
nel ferrarese a costruire fortificazioni sul Po sotto i tedeschi.
Fece bene perché di lì a poco l'asse Fusignano-Alfonsine vivrà
una delle fasi più cruente e tragiche dell’intera Campagna
d’Italia. Per mesi fuoco dal cielo e da terra, pericoli ovunque e
per tutti. L'inferno si concluse pochi giorni prima della
Liberazione dell’intera Padana, lasciando solo macerie, perfino
nelle case coloniche. Rasi al suolo i due centri. Ma mentre si
susseguivano gli ultimi funerali e le commemorazioni dei caduti
nella lotta antifascista, già si pensava alla ricostruzione.
A
Fusignano, presente una folta delegazione di Alfonsine, il 5 maggio
1945 il ricordo andò ad Adriano Zoli (classe 1923) ucciso
esattamente un anno prima, nel pomeriggio, alla Rossetta, località
intermedia tra i due. E, quasi per caso, nella stessa giornata fu
catturato il nostro calzolaio, ritenuto responsabile
dell’omicidio.
Al
processo negherà tutto, tranne il servizio e i lavori sul Po.
Dichiarò di non essere stato neppure presente al fatto e di avere
saputo dal camerata Gino Ghirardelli che l’autore del misfatto era
stato il Porisini, Tunin d'Pezpan, un altro brigatista nero resosi
tristemente famoso per vari omicidi e condannato poi a trent’anni.
Quale la verità? Se era certo il concorso dell’imputato, egli non
era condannabile però per l'eliminazione materiale del fuggiasco,
non provata sufficientemente.
I
giudici saranno di parere contrario, confortati in questo da
molteplici testimonianze: i due sopravvissuti e una donna, Teresa
Leopardi, che aveva visto passare il furgoncino diretto ad Alfonsine,
con l’Ancarani a bordo. Antonio Melandri anche lui sul luogo del
misfatto, cui erano stati chiesti i documenti, ed infine Cesare Zoli,
padre della vittima, che aveva assistito all’intera tragica
sequenza. Nessuno sarebbe potuto cadere in equivoci, data la
notorietà del calzolaio, nipote di Leonardo, l'odiato caporione
seppellito da poche ore.
Durissima
la condanna ed inaspettata, nonostante nella stesura esista un
accenno allo spirito di vendetta scaturita per l’uccisione dello
zio. Morte, con fucilazione alla schiena per chi aveva reso cadavere
il giovane Adriano, malgrado la resa. Nessuna attenuante.
Sbagliarono
i giurati dirà per questo la Cassazione, che il 3 dicembre dello
stesso anno annullerà la sentenza. Non per il merito, ma per un
cavillo, cioè la mancata motivazione del diniego delle attenuanti
generiche. Rinvio alla Corte di Assise straordinaria di Ferrara. Poi
da quel che si capisce il nuovo processo si concluse con una
condanna ad anni trenta di reclusione, ridotti a 24 da una nuova
pronuncia di Ravenna o di Bologna.
Ancarani
ricomparve a giudizio per un altro omicidio nella prima seduta del
1947. Era il 7 gennaio. Difensore d'ufficio l'avvocato Somarzi,
Pubblico Ministero l'avvocato Garzolini. Imputazione: partecipazione
all'uccisione premeditata di Giovanni Dragoni.
Il
3 aprile del 1944 il Dragoni aveva fatto visita alla fidanzata e
verso le 21 era rientrato a casa. Il padre vide la scena. Il giovane
stava chiudendo la porta d'accesso al Mulino, quando fu raggiunto da
alcuni colpi d'arma da fuoco. Ucciso perché ritenuto partigiano o
perché era scattato il coprifuoco? Non si dice, così come non si
fa cenno al luogo del delitto. Dalle carte si ricava però che la
morte non fu immediata e che lo sventurato ebbe il tempo di fare il
nome dell'Ancarani, ispirato dal noto famigerato brigatista
Tabanelli Primo, detto Sciantén, eliminato a sua volta a Ravenna,
durante l'occupazione tedesca. Il padre non era rimasto inattivo e
dopo nove giorni aveva incontrato il Tabanelli stesso per chiedere
spiegazioni, il quale così si era espresso: "Io non l'ho
ucciso, forse sarà stato Ancarani".
Da
qui, la nuova accusa all’Ancarani al processo del 1947. Sferzante
fu il Presidente della Corte e nello stesso tempo contraddittorio. A
suo avviso, con un semplice e vago indizio la causa avrebbe dovuto
risolversi in sede istruttoria, senza il rinvio a giudizio.
“Deplorevole leggerezza questa”. Coerenza avrebbe voluto quindi
una piena assoluzione, ma la Corte preferì l'insufficienza di prove
e revocò il relativo ordine di cattura. Ovviamente l’Ancarani
rimase in carcere per scontare la pena per la prima condanna.
Sta
di fatto a gennaio del 1950 si fecero i conti definitivi,
riepilogando i benefici derivanti dalle leggi del 1946 e del 1948.
Così 24 anni meno un terzo, meno un altro terzo, uguale a otto. Il
che significa che il 5 maggio del 1953 il calzolaio di Alfonsine
Natale Ancarani ritornò libero.
Ma
di lui non si è più saputo nulla. Il padre Cesare Zoli non riuscì
più a superare la tragedia, anche perché nel ‘ventennio
mussoliniano’ era stato di idee fasciste, e un senso di colpa
atroce lo portò al suicidio quattro o cinque anni dopo la fine
della guerra.
Un
testimone oculare Gianfranco Betti di Rossetta
In
questa storia processuale stranamente non appaiono i testimoni
oculari della vicenda: i componenti della famiglia Betti che quel
giorno erano a lavorare nei campi e che si trovarono a poco più di
una decina di metri. Gianfranco Betti di Rossetta, che all’epoca
dei fatti aveva 5 anni.
L’abbiamo
contattato ed vi proponiamo la sua testimonianza:
“A
pochi metri da me vidi scappare lungo il fosso che divideva il
terreno della mia famiglia da quello dei Zoli i tre ragazzi Armando,
Silvio e Adriano. Inseguiti dai fascisti repubblichini i primi due
si arresero subito, mentre Adriano che era fuggito più lontano
rimase colpito e cadde. Io non vidi il primo colpo ma vidi di sicuro
l’Ancarani in persona quando da un metro gli sparò il colpo di
grazia. Avevo cinque anni e quella scena mi rimarrà impressa nella
memoria per sempre.”
Mario
Farina,
all’epoca un quattordicenne di Rossetta che sentiti gli spari era
corso a vedere, ha confermato che lui vide il cadavere del povero
Adriano con un foro di proiettile nell’occhio.
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2 |
Aurelio
Tarroni, partigiano comunista (24
aprile 1944) vice-comandante di una divisione
partigiana, aveva 37 anni quando fu fucilato, assieme al mezzadro
Zalambani, che abitava nel Palazzone, ed uno slavo disertore Reper
Janez, a ridosso delle mura del cimitero di Ravenna.
Alle
prime luci dell'alba del 23 aprile 1944,
nel corso di un vasto rastrellamento nelle campagne tra Alfonsine e
Fusignano, in un'area ove era particolarmente intensa l'attività
dei partigiani, le forze nazifasciste sorpresero alcuni gappisti
mentre riposavano nel fienile della cascina del mezzadro Ettore
Zalambani.
I
sette partigiani (Giulio Argelli di anni 21, Bruno Fiorentini,
Giovanni Ferri di anni 53, Giovanni di anni 30 e Severino Faccani di
anni 37, Francesco Martelli di anni 22, Giuseppe Ballardini di anni
20), dopo sette ore di furiosi combattimenti, sottoposti anche a
tiri di artiglieria, vennero massacrati.
Un
altro gruppo di partigiani fu individuato in una casa colonica
detta "Casa Lanconelli" : erano lì presenti il comandante
di divisione Alfredo Ballotta, il vicecomandante Aurelio Tarroni,
Antonio Montanari e lo slavo Reper Janez. Ballotta e Tarroni
tentarono la fuga, ma il primo fu colpito a morte mentre il secondo,
ferito ad una spalla, fu catturato assieme agli altri.
Tarroni, in possesso di importanti documenti del comando militare,
venne sottoposto a tortura nel tentativo di estorcergli preziose
informazioni: legato per i piedi fu calato in un pozzo della casa
vicina detta "La Zanchetta", immergendogli la testa
nell'acqua, poi appeso per i polsi ad una inferriata di una finestra
gli venne acceso un fuoco sotto i piedi, infine - visti inutili i
tentativi di farlo parlare - costretto a camminare scalzo, con i
piedi ustionati, per oltre un chilometro, per essere poi caricato
sugli autocarri delle camicie nere ed essere avviato al carcere di
Ravenna.
Due
settimane dopo i gapisti "Gustavo" e "Luciano"
uccideranno in un attentato Dal Pozzo (uno dei triumviri del fascio
ravennate che aveva comandato i rastrellamenti) nel centro di
Lavezzola.
Poco
dopo, sette innocenti furono immolati dalla brigata nera in un
barbarico sacrificio dedicato all'anima del gerarca.
In
onore di Aurelio Tarroni verrà intitolato a suo nome un
Distaccamento della 28ª Brigata Garibaldi, comandata da Arrigo
Boldrini, operante nella zona di Alfonsine. |
3 |
Alfredo
Ballotta partigiano comunista (23
aprile 1944) ucciso da tedeschi e brigatisti
neri presso casa della Zanchetta, dove tentò di fuggire quando
arrivarono alla vicina "Casa Lanconelli".
Era l’alba del 23 aprile e una
corriera blu, di quelle da trasporto civili, seguita da due camion
arrivò per la strada d’argine del canale di Fusignano, si fermò
al Crociaio, scese un ufficiale della “Brigata Nera” e chiese
informazioni a uno del posto: «Qual è la strada per arrivare al
Palazzone?».
In
una landa estesa e silenziosa cercava una casa colonica alta con
stalla e molti animali (la costruirono quando lì c’era solo
risaia e vi dormivano le mondine nei mesi del riso, era tanto
imponente che finì per dare il nome a tutta la zona: e Palazò).
L’ufficiale, ricevute confuse informazioni, ripartì e, mentre la
corriera e il primo camion, con i tedeschi e un cannoncino da campo,
fecero un largo giro, il secondo s’infilò deciso per una carraia
che portava alle vicine case 'Zanchetta' e 'Lanconelli', una casa agricola con stalla che
restava sotto il comune di Alfonsine, seppur al limite.
Il
giorno prima Revel (il responsabile di zona del CLN) aveva mandato
la segnalazione che l’indomani ci sarebbe stato un rastrellamento
nella “Zona de’ Palazôñ” e i partigiani Antonio Montanari,
Aurelio Tarroni, Alfredo Ballotta per maggior precauzione avevano
prelevato dei russi (nove), già scappati dai tedeschi e nascosti a
"Casa Lanconelli", li avevano trasferiti in località Passetto, oltre
la strada Reale, e sistemati in un rifugio. Poi, gli stessi, erano
tornati indietro, avevano riposto le armi in un posto sicuro ed
erano andati a dormire nella stalla di "Casa Lanconelli",
che
consideravano fuori dalla zona pericolosa, dove si trovava un prigioniero
slavo Reper Janez, di cui non sapevano, e altra gente
sfollata.
Le
brigate nere irruppero nella stalla. Ballotta scappò ma fu ucciso
nella campagna, Tarroni fu ferito a una spalla, tutti gli altri
furono tratti come prigionieri e legati nel cortile. Tarroni venne
sottoposto a tortura: gli bruciano i piedi e lo calarono su e giù
nel pozzo con una corda, volevano informazioni sul movimento
partigiano. Passò il tempo ma inutilmente perché Tarroni non parlava,
allora presero tutti gli uomini e partirono per il Palazzone, dove
certamente la corriera e l’altro camion erano già arrivati. Lì
c’era un gruppo del distaccamento partigiano “Sauro Babini”,
che aveva saputo per tempo del rastrellamento, ma non vi ha dato
eccessivo peso: altre volte notizie così erano giunte e poi nulla
era successo.
Arrivarono
e videro che c’era già stato uno scontro a fuoco (
c'erano state sette ore di furiosi combattimenti, anche con tiri di
artiglieria)
e un fascista era stato ferito a un occhio dai partigiani che, con
ogni probabilità, sorpresi nel sonno avevano avuto solo una modesta
reazione. Per terra, tra la casa e la campagna, c'erano i corpi di
Giulio Argelli, Giuseppe Ballardini, Severino Faccani, Giovanni
Ferri, Francesco Martelli, Bruno Fiorentini.
Nessuno era ferito, tedeschi e fascisti erano andati per uccidere.
Iniziarono
un comportamento intimidatorio nei confronti degli uomini di "Casa Lanconelli"
che si erano portati dietro; li appoggiarono al muro della
casa e inscenarono la fucilazione: una… due…tre volte. Ponevano
domande personali e sui partigiani, ma poi non badavano alle
risposte.
A
fine giornata caricarono sui camion tutti gli uomini superstiti e
ripartirono per una prima sosta a Lugo, poi una seconda e definitiva
a Ravenna dove, nei giorni seguenti, fucilarono Ettore Zalambani, il
capofamiglia del Palazzone, il povero Tarroni, già stremato per
ferite e torture, lo slavo Reper Janez. Fortunatamente, invece,
Montanari (conosciuto per E’ Gağ) e gli altri fecero appena
15 giorni di carcere.
Il
perché di quest’azione stava nel disegno dei tedeschi e fascisti
di uccidere i partigiani, certo, ma c’era anche l’intenzione di
togliergli quel sostegno che viene loro dato da contadini e
braccianti. Infatti l’intero Palazzone fu bruciato, gli animali
della stalla venduti, la famiglia Zalambani messa in miseria.
Non
va sottaciuto che tutto questo successe grazie anche a informatori
ben documentati e prezzolati, che avevano dato indicazione delle
case in cui si potevano trovare partigiani e disertori russi o
slavi.
Due
settimane dopo i gapisti "Gustavo" e "Luciano"
uccideranno in un attentato Dal Pozzo (uno dei triumviri del fascio
ravennate che aveva comandato i rastrellamenti) nel centro di
Lavezzola.
Nulla
vieta di pensare che, tra i presunti informatori alfonsinesi
denunciati dai partigiani per quei fatti, vi siano alcuni tra coloro
che furono poi 'giustiziati' dai partigiani alfonsinesi.
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Antonio
Pezzi (Caplò) (27 dicembre 1943) (1901-1943) |
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Dopo
la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre del 1943
si era formato ad Alfonsine il CNL (Comitato Nazionale di
Liberazione), referente di tutti gli antifascisti. Ma già in
ottobre si insediarono nella Casa del Fascio i militi della Guardia
Nazionale Repubblicana (i nuovi fascisti della Repubblica di Salò)
con a capo il comandante della milizia Goffredo Camilli. Da subito
entrarono anche in azione le prime squadre di partigiani, le SAP
(Squadre di Azione Partigiana) legate al CNL.
ll 26 dicembre 1943 venne ferito in un’azione progettate dalla SAP
di piazza Monti la guardia municipale Giuseppe Pagani (Gigì dla
Murètta). Questi era stato un noto sostenitore del fascismo e
aveva aderito anche alla nuova Repubblica di Salò. Il Pagani stava
camminando in piazza Monti davanti al bar Centrale d’Frazché (Tavalazzi)
insieme Domenico Rambelli, figura fino ad allora poco nota, che si
era prestato a essere ingaggiato dal Camilli come capo del
Direttorio del nuovo partito repubblichino 1ocale, dato che in pochi
degli ex-fascisti avevano aderito all’appello dei nuovi
fascisti.
Filtrò
la notizia di una imminente reazione e vendetta, e molti
antifascisti avvisati per tempo abbandonarono le abitazioni. Inutili
le sortite e le perquisizioni dei militi. A sette chilometri dal
paese, a Taglio Corelli, riposava tranquillamente un uomo pacifico
con simpatie genericamente antifasciste, Antonio Pezzi di anni 42.
Alle due di notte bussarono violentemente alla porta. Lo prelevarono
per portarlo nella sede centrale. Ma poco dopo nel buio si sentirono
due colpi a distanza. La mattina successiva i Carabinieri accorsero
sul posto, trovano due bossoli e macchie di sangue sull'asfalto
della strada ‘Reale’ e il cadavere del povero mugnaio sull’argine del fossato che divideva la strada dai campi, a poco
più di duecento metri dal domicilio. I famigliari, il padre
Giacomo,
il fratello Pietro, la moglie Maria Zanzi e e i quattro figli in
giovane età non
furono in grado di identificare nessuno dei probabili assassini.
Dalle indagini e dall'autopsia (dottori Umberto Pasini e Giovanni
Preve) risultò che i due colpi provenivano da una pistola di grosso
calibro e da un moschetto, modello "1891", il primo dei
quali aveva ferito non mortalmente il collo e il secondo aveva fatto
esplodere la base cranica. I Carabinieri si erano fermati lì, anche
se qualcuno in paese si era vantato del delitto, asserendo di avere
sparato alla vittima mentre era a terra ferita. Omicidio premeditato
da parte d'ignoti.
TERMINATA
LA GUERRA, al processo che si era aperto a Ravenna in una Corte
d’Assise Speciale questo delitto sembrava concludersi senza
individuazione dei colpevoli.
Ma
il 26 gennaio 1946 si ebbe la svolta. Il giovane Costante Vicari,
residente a Ravenna, classe 1924, presente al processo, decise di
testimoniare su quei fatti. In base a quella testimonianza e ad
altre fonti processuali si può ricostruire ciò che successe la
sera del 26 dicembre 1943.
Subito
dopo gli spari, ci fu una riunione presso la sede del Fascio.
Presiedeva il cav. Domenico Rambelli. Rapida la decisione: stilare
un elenco degli antifascisti di Alfonsine, su cui fare ricadere la
rappresaglia per il ferimento del camerata Pagani. Una squadra della
milizia fascista si recò poi verso Taglio Corelli in cerca di un
noto comunista di nome Zaniboni. Ma questi aveva già preso il
largo. Così, o per errore di persona o perché dovevano comunque
dare un segnale di forza, presero il povero Antonio Pezzi.
Della
pattuglia, a detta del teste-complice, facevano parte, oltre a lui
stesso, “Achille
Lugaresi fu Antonio e di Fagnocchi Virginia, nato a Ravenna ed ivi
residente, Domenico Rambelli, fu Pietro e fu Lucrezia Sintoni, nato
a Russi e domiciliato ad Alfonsine in via Mazzini n° 8, classe
1888, Mario Menghi, un certo Frattini di Ancona, Ezio Mariani da
Passo Corvaro (?), un Valenti non meglio precisato, un Ancarani poi
deceduto (il fascista di nome Leonardo ucciso dai partigiani?
ndr), Giovanni Casanova e Chiarissimo Sutter”
Il
Vicari, tra l’altro indicato a suo tempo come colui che si era
vantato del colpo di grazia, aggiunse che la pistola del tipo
“Ghisenti” era stata usata dal Lugaresi e di non ricordare il
nome di chi aveva usato il moschetto. (Cioè lui stesso!)
Contro
il Rambelli, ancora latitante, ci fu la testimonianza del noto
veterinario di Alfonsine, il dott. Lorenzo Sgarbi, presente la sera
della riunione del Direttorio alla Casa del Fascio di Alfonsine.
Questi attribuì proprio al Rambelli tutte le malefatte di quel
periodo accadute in paese e dintorni.
Sgarbi
fu poi chiamato a processo a piede libero proprio per questo
episodio. Il dott. Sgarbi, secondo la testimonianza di un
ex-brigadiere dei carabinieri di Alfonsine Vincenzo Sardano, era
presente la sera della riunione del Direttorio alla Casa del Fascio
di Alfonsine e aveva contribuito attivamente a compilare un elenco
di 40 persone da impiccare ai lampioni della piazza. Ma
l’ex-Tenente Fortunato Cappelletti, pure presente a quella
riunione e critico alla minacciata impiccagione di massa, dichiarò
che non si era accorto di un apporto positivo del dottore. Anche il
parroco Don Liverani, che faceva parte del CNL, sostenne che Sgarbi
era stato contrario a qualsiasi impiccagione. Dato comunque che
quell’eccidio non si verificò e che “l’imputato
Lorenzo Sgarbi, nato a Lugo nel 1898 ammette solo la sua
iscrizione al Partito Fascista Repubblicano”, e
dato che si disse che aveva aiutato i partigiani fu
“assolto per non aver commesso il fatto”.
Come
mai il Vicari aveva confessato un misfatto tanto grave, con il
pericolo di essere chiamato in correità? Egli dichiarò che allora
faceva il doppio gioco, che di fatto era un sabotatore dei piani
fascisti, cercando di far credere che stava dalla parte dei
partigiani. Ma contro di lui pendeva anche l'accusa di sequestro e
di saccheggio a mano armata avvenute durante la guerra. Insomma era
un bandito generico che tentava di farsi una nuova verginità. Non
plausibile per la Corte su questo punto. Le difese degli altri
imputati sostennero che il Vicari era un autentico calunniatore,
come dimostrava l'assoluzione di Ezio Mariani, citato tra gli
esecutori dell'omicidio, mentre in realtà si trovava in licenza. Il
giudice non ritenne di annullare una confessione, sostanzialmente
credibile, per la cattiva reputazione del pentito o per un errore
nell'elencazione dei partecipanti. Lugaresi, Rambelli e Vicari
furono ritenuti colpevoli di tutte le imputazioni. Nessuna
attenuante, neppure per il pentito, falsamente doppiogiochista, un
"sicario", una "bieca figura di criminale".
“Carcere a vita per omicidio premeditato e mantenimento in
prigione a carico dei rei”. Non era mai successo che la Corte
emanasse una simile pena.
ALCUNI
ANNI DOPO in seguito a una sentenza successiva in Corte d’Appello
a Perugia, di cui non abbiamo documentazione, secondo quanto ci
hanno raccontato i parenti del Pezzi, tutte quelle accuse non
superarono la prova, e gli imputati furono assolti. Di loro non si
è mai saputo nulla, né i dettagli di questa storia sono mai
diventati patrimonio comune dell’opinione pubblica alfonsinese.
(Le
fonti alla base di questo articolo sono il libro “Camicie Nere”
di Andreini e Carnoli ed. Artestampa in
rete qui , voci raccolte tra ex-partigiani e parenti del
Pezzi)
|
4 |
Ettore
Zalambani (24
aprile 1944) Era mezzadro e proprietario della
casa detta Palazzone dove avvenne lo scontro con i tedeschi e i
brigatisti neri. Zalambani e la moglie furono catturati mentre tutti
gli altri uccisi. Portati a Ravenna con i prigionieri fatti
nell'altre case dette 'Zanchetta' e "Casa Lanconelli",
Ettore Zalambani fu fucilato con
Tarroni e lo slavo Reper Janez. La moglie fu rilasciata ma
l’intero Palazzone fu bruciato, gli animali della stalla venduti,
la famiglia Zalambani messa in miseria. |
Esecuzioni
sommarie durante la guerra (quali e con quali criteri)
Negli anni dell'occupazione tedesca i partigiani ad
Alfonsine, come in altri paesi, 'giustiziarono' diversi collaborazionisti,
senza però lasciare alcuna documentazione sulle motivazioni o su
eventuali accuse o processi popolari. Quindi si possono considerare tali
azioni più che 'atti di giustizia sommaria' come 'esecuzioni sommarie'
dove il prezzo più alto della vita probabilmente fu pagato da qualcuno
ingiustamente e soprattutto in modo non proporzionato alle eventuali colpe.
L'unica motivazione data dai partigiani a queste azioni la si trova sul
"Convegno di studi sulla Resistenza - Alfonsine 1974"
dove a pagina 98 si legge:
"Possiamo affermare oggi, senza timore di
essere smentiti, che se un centinaio di persone in meno sono state
giustiziate, ciò lo si deve essenzialmente al fatto che esse abiurarono
la loro iniziale scelta politica, rifiutandosi di riprendere la tessera
fascista nel periodo repubblichino."
Si deduce che il criterio con cui i partigiani di Alfonsine si sentirono
autorizzati a colpire i fascisti fu la loro iscrizione o meno alla Repubblica
di Salò. Il che implica che essi vennero in possesso dell'elenco degli
iscritti. Non si sa ancora se e come ciò avvenne, né se vi fossero
precise sedi in cui si decidesse chi, come, quando e dove andasse
eliminato, tanto che si può supporre che qualsiasi 'testa calda' si sentisse autorizzato
a fare il "giustiziere".
Esecuzioni
sommarie
nell'immediato dopoguerra
Nell'immediato dopoguerra ci furono diversi episodi che testimoniano di una
volontà di 'castigo' che non si fermò certo con la fine dichiarata della
guerra.
La pubblicazione in tempi recenti di libri che raccontavano tali episodi
hanno suscitato tante le polemiche. Scrittori e associazioni di
‘sinistra’ e ex-partigiani ancora in vita hanno detto che era nelle
cose che contro i vinti di una guerra civile così piena di atrocità si
fosse poi cercato il castigo da parte di chi aveva subito tanto lutto. Alcuni a questo riguardo evidenziano che certo lo scandalo c'è,
ma sta nella violenza in quanto tale, sta nella guerra, come in tutte le
guerre, sta in tutte le atrocità compiute su popolazione inermi o nelle
vendette rabbiose su persone supposte colpevoli di vari crimini.
Eppure si ha la sensazione che oggi non basti questa specie di autodifesa,
perché rischia di portare a un giustificazionismo generico e forse
offensivo per le vittime e i loro famigliari.
Se si indaga a fondo sulle esecuzioni sommarie da parte di partigiani,
avvenute nell'immediato dopoguerra, si può scoprire che erano frutto di
uno spirito di vendetta, spesse volte sì di tipo personale-famigliare.
Ma si possono intravedere e supporre anche aspetti di vendetta di classe,
contro padroni e proprietari terrieri, se non addirittura azioni di
violenza, organizzata da piccole bande, con la confusa idea di promuovere
una fantomatica rivoluzione comunista.
In certi casi furono anche tentativi di estorsione, che sfruttavano
vigliaccamente un millantato credito partigiano.
L’intenzione mia è stata (ed è ancora) quella di sottrarre un tema di
questo genere alla speculazione politica. Ritengo che l’errore più
grosso sia che questi argomenti vengano utilizzati, in qualunque modo, e
anche con le migliori intenzioni, da personaggi o partiti politici.
Dovrebbe essere la comunità locale e le sue istituzioni a saperli
affrontare.
La fatica e la pesantezza nell’affrontare l’argomento che riguarda
persone assassinate e spesso fatte scomparire nell’immediato dopoguerra,
deriva dal fatto che ancora oggi, ogni parola che si scrive, ogni
argomentazione che si tenta di esporre, a volte anche sbagliando, rischia
di essere mal interpretata o a volte anche di urtare (senza volerlo) la
sensibilità di famigliari, o di associazioni di una parte o dell'altra.
Gli alfonsinesi
fascisti uccisi o fatti
scomparire
tra maggio del 1944 e maggio del 1945
I
nomi in rosso furono uccisi o scomparsi dopo il 30 aprile 1945.
I nomi in blu furono uccisi o scomparsi prima
del 30 aprile
Questa tabella e le relative informazione non è documentata in modo
storicamente accettabile, e quindi necessita di ulteriori verifiche,
aggiornamenti, ricerche
1 |
Amadei Pietro
di
Ignazio: anni 26 civile. Faceva il mezzadro.
Fu prelevato da casa il 22 maggio 1945 e fucilato.
La sua salma fu trovata al crocevia
delle 2 Madonne in un campo di proprietà della famiglia Salvatori
|
2 |
Ancarani Leonardo
(Bugiacchì) (n. - m. 4/5/1944)
Fascista
della prima ora faceva il postino ad Alfonsine.
Aderì alla R.S.I. e fu ucciso a Marina di Ravenna il 4 maggio del
1944. Suo nipote Natale Ancarani il giorno successivo assassinò a
Rossetta Adriano Zoli, giovane innocente ragazzo che non aveva
risposto alla chiamata di leva della Guardia Nazionale Repubblicana.
|
3 |
|
Andraghetti Camillo
(Camilé d’Sulacì) (1900-1945)
|
Fu
fascista militante durante il ventennio, aveva fatto parte del
primo nucleo di cinquanta alfonsinesi iscritti al Partito Nazionale
Fascista, presente nelle squadre d’azione e partecipò a 22
anni alla Marcia su Roma.
Durante
il fascismo lavorò con la sua famiglia di contadini, che conduceva
in affitto alcuni ettari di terra. Svolse l’attività di
istruttore premilitare per i ‘giovani avanguardisti’.
Dopo la caduta del fascismo
l’Andraghetti aveva aderito alla RSI, dalla primavera del ’44
fece parte della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) a Ravenna e si
trovò un posto da impiegato come magazziniere alla ‘Caserma
Gorizia’, poi alla "Caserma Garibaldi" e anche in quella
detta "Italo Balbo" di Ravenna. Girava voce che avesse partecipato allo
scontro del Palazzone tra Fusignano ed Alfonsine dove tedeschi
e brigatisti neri uccisero diversi partigiani. Ma suo cugino Paolo Savioli, che faceva parte
della Resistenza, sentì dalla testimonianza diretta di Scianté,
noto famigerato brigatista nero (un vero criminale) di Bagnacavallo,
che
operò in quei giorni ad Alfonsine, che "Andraghetti se ne
sta sempre rinchiuso nel suo ufficio a Ravenna, non era sicuramente
al Palazzone".
Il
Savioli (oggi 2010 ultra 94enne, ma ancora lucido e di ferrea
memoria) sostiene quindi che Camillo Andraghetti non era nel mirino
della Resistenza locale.
Quando,
sotto l'incalzare dell'avanzata alleata, nella seconda metà del '44
il Comando generale della GNR ordinò l'arretramento più a Nord dei
suoi reparti, il neo-costituito battaglione "Ravenna" andò
a formare i presidii di Pescantina e Bussolengo, in provincia di
Verona. Camillo Andraghetti decise di seguire il suo battaglione.
Con un suo aiutante, un maresciallo di Bagnacavallo, si recò a casa
di quest'ultimo dove incontrò i figli e la moglie per l'ultima
volta. Al figlio maschio più grande, che gli comunicò la sua
intenzione di aderire alla lotta partigiana, rispose: “Segui il
tuo istinto”, dandogli una delle sue pistole.
ARRIVARONO
A BUSSOLENGO al loro battaglione della GNR. Quando da lì
a poche settimane, con la sconfitta dei nazifascisti ormai
nell’aria, Mussolini, capo dello Stato e delle Forze Armate ma
anche diretto comandante della Guardia Nazionale Repubblicana, alle
19.30 del 25 aprile liberò tutti dal giuramento, i due camerati
romagnoli gettarono le divise e, messi
gli abiti civili, si
nascosero a Bussolengo a casa di contadini, che li ospitarono.
Camillo però era deciso a tornare a casa, nonostante il
suggerimento dell’altro a restare ancora fermi. Partì da solo, in
bicicletta, con una valigia, dove, oltre a pochi abiti, aveva i
soldi dello stipendio di tre o quattro mesi di arretrati, che era
riuscito ad avere prima della caduta della Repubblica di Salò.
(Il
suo amico-aiutante, tornato dopo alcuni mesi dalla fine della guerra
a Bagnacavallo, riuscì a farsi contattare dalla moglie di Camillo e
le raccontò quello che sapeva). Nei primi anni del dopoguerra
una delle sorelle di Camillo raccontò alla moglie di aveva parlato
con uno (di cui non fece il nome) che era stato anche lui a
Bussolengo e disse di aver parlato con Camillo, raccontando pure
della bicicletta e della valigia. Ma non sapeva o non ricordava il
luogo esatto in cui l'aveva visto ancora vivo. Quel testimone disse
che l'Andraghetti venne fermato sul ponte, ma di quale ponte si
trattasse non si sa. Siccome lo conosceva gli disse "Ma tsi
te Camell, ma dove vai?" "Vado a vedere la mia
famiglia". E l'altro "Guarda che è meglio che tu
torni da dove sei venuto perché è un brutto momento"
"Tu sai niente della mia famiglia?" - chiese
Camillo. "No..." "Allora vado"
"Fai come vuoi, buona fortuna". Probabilmente si
era ai primi di maggio. Da allora di Camillo Andraghetti non sì
seppe più nulla e il suo corpo non fu mai trovato.
Ufficialmente è considerato come ‘scomparso’ con ‘dichiarazione
di morte presunta del Tribunale di Ravenna del 1950’. La data
indicata è quella del 13 maggio 1945.
‘GIUSTIZIATO’
O ASSASSINATO PER ESSERE DERUBATO?
La
‘scomparsa’ di Camillo Andraghetti potrebbe ricadere
nell’ambito delle esecuzioni sommarie di quegli anni tremendi e
particolari, anche se non circolano ‘voci’ e ‘chiacchiere’
che possano indurre in questa direzione.
Per
lo meno non vi sono elementi che possano far pensare al
coinvolgimento di partigiani alfonsinesi che avrebbero potuto
riconoscere l’Andraghetti, e quindi eventualmente averlo
‘giustiziato’ in quanto ‘repubblichino’.
Tutto
potrebbe essere successo, come ad esempio anche la sua soppressione
per derubarlo della valigia coi soldi, ma da parte di chi e dove non
è possibile saperlo. Certo che l’aver reso introvabile il corpo
richiama ad altri casi analoghi ben noti.
SU
INTERNET, in vari siti di ispirazione fascista, si trovano elenchi
dei fascisti caduti e dispersi della Repubblica di Salò. Vi sono
anche vari alfonsinesi. Camillo Andraghetti è segnalato come “scomparso
a Riolo Bagni il 13 maggio 1945”. Richiesti chiarimenti al
referente di uno di questi siti, riguardo a tale informazione, ecco
la risposta: "In
effetti l'Andraghetti risulta scomparso tra Pontelagoscuro ed
Alfonsine mentre in bicicletta tornava a casa. La data del 13 maggio
è quella della Dichiarazione di Morte Presunta del Tribunale di
Ravenna del 1950, la località Riolo Bagni (o Riolo Terme) invece
era stata messa dal curatore originario dell'elenco da una fonte
indicata "giornalistica" non specificata quindi non
possiamo accertarne la veridicità. Non abbiamo variato questa
località di dispersione in quanto evidentemente da qualche
parte è stata rilevata. Anche se Riolo Bagni risulta qualche
chilometro più ad ovest rispetto alla strada che avrebbe dovuto
percorrere Camillo Andraghetti non è neppure troppo distante da
Alfonsine."
Se
questa è la metodica con cui si fanno questi tipi di ricerche, bèh…
Le
fonti utilizzate da noi sono
a- la testimonianza diretta di Sante Andraghetti, figlio di
Camillo Andraghetti,
b- il libri ‘Storia di Alfonsine’ di Romano Pasi
c- il libro ‘Camicie nere’ di Carnoli-Andreini.
PIETA’
PER I MORTI
È
noto a tutti che diversi fascisti alfonsinesi sono stati eliminati,
anche fino ai primi giorni del maggio 1945, o perché ritenuti
aderenti alla R.S.I e quindi collaborazionisti, in quel caso
sommariamente ‘giustiziati’, oppure altre volte
tragicamente fatti sparire, chissà da chi, senza sapere il come,
dove e perché. Alcuni dei loro famigliari non hanno mai potuto
ritrovare i resti dei corpi e hanno trascorso una vita nella
speranza di dare loro una sepoltura e avere con ciò un po’ di
pace. Raccontare le loro storie vuole essere un modo per sopperire a
quella mancanza, dato che la possibilità di ritrovare quelle povere
ossa resta ormai solo una lontanissima speranza.
Sante
Andraghetti, figlio di Camillo, ha chiesto di lanciare un appello:
“Se qualcuno ha informazioni precise rispetto alla possibilità
di ritrovare i poveri resti di mio padre è invitato a contattarmi
telefonandomi o scrivendomi, oppure lucci@racine.ra.it
, il tutto anche in forma anonima”
Sante Andraghetti 48011 Alfonsine (RA) Viale Degli
Orsini, 40 tel: 0544 81712
|
4 |
Giuseppe
Argelli (Scuscén), fascista della Marcia su Roma, squadrista ad
Alfonsine e dintorni, vigile municipale. Durante
la Repubblica
di Salò, si trovò in una zona grigia: dopo la caduta del fascismo
lasciò qualche dichiarazione dubbia, ma poi si offrì di aiutare
chi, durante il fronte di guerra, organizzava l’assistenza
sanitaria per gli ammalati e feriti di Alfonsine (il CLN). Forse
qualcuno lo ritenne un pericolo, forse era troppo rischioso avere in
giro uno su cui si dubitava, forse qualcuno cercò una vendetta
personale, sta di fatto che fu fatto sparire e il suo corpo mai più
ritrovato. (Per
saperne di più clicca qui)
|
5 |
Balbi Achille
nato ad Alfonsine (RA) il 04/08/1898, residente a Novellara (RE).
Data della morte : 23/04/1945.
Causa della morte : Fucilato o Assassinato
Luogo della morte : Campagnola
|
6 |
Baracca
Stefano agricoltore possidente
Data della morte : 24/05/1945
Causa della morte : Fucilato o Assassinato
Luogo della morte : Alfonsine |
7 |
|
Bedeschi
Maria di Ettore, e madre ignota. Nata ad Alfonsine il
27 giugno 1911, in via Mameli n° 6 ad Alfonsine. Legittimata
il 9 luglio 1915 per successivo matrimonio di Ettore Bedeschi con
Ernesta Mazzotti.
Fu la
donna di Pasaré (Domenico Violani) a cui aveva dato due figli
illegittimi, e madre di Gianna Bedeschi, moglie del dott. Giorgini
|
|
Risulta che lavorasse come
infermiera o come operaia. Il
13/8/41 fu arrestata nella trattoria Romagna, in via Belle Arti a
Bologna, mentre raccontava una barzelletta «antifascista».
(info: Dizionario Biografico Gli antifascisti, i partigiani e le
vittime del fascismo nel bolognese (1919-1945), a cura di A.
Albertazzi, L. Arbizzani, N. S. Onofri.)
Ebbe
la diffida.
Ma
il 27/04/1945 fu uccisa a Bologna, in via S. Petronio Vecchio,
all'età di 33 anni per "condanna a morte eseguita mediante
fucilazione con l'accusa di aver collaborato coi tedeschi".
(pag. 396 "La perdita del ricordo tra sentimento e oblio"
Ed. Circolo Filatelico "V. Monti" anno2020)
Restano
dubbi se sia stata fucilata
o assassinata, pare che tra i partigiani che l'avevano accusata di
spionaggio a favore dei tedeschi la testimonianza fosse stata quella
di un suo spasimante partigiano geloso. |
8 |
Dradi Fedele
accusato come spia per i fatti del Palazzone ucciso
a mitragliate davanti a casa, estate ‘44. |
9 |
Dradi Aldo
di Giovanni, nato ad Alfonsine
il 10/05/1891 e qui residente. Era
mugnaio in via Reale, dove oggi c’è la
tipografia. Fu ucciso il 28/01/1945 ad Alfonsine |
10 |
Errani
Vito (Vito d’fati) di Giosafatte, nato ad Alfonsine mel
1899. Era un fascista, agricoltore, un
ricco 'dandi' locale che aveva l’auto, era un donnaiolo, si dice che fu
ucciso per motivi di 'corna'. Ma Tonino Pagani d'Cai disse che
assistette, per caso, al suo interrogatorio nella sede dove era
installata la 'Polizia Partigiana' nell'aprile del 1945. Vide che
era seduto su una seggiola e picchiato a sangue. (testimonianza
orale rilasciata a Luciano Lucci). Il luogo era la casa di via
Mameli che nel dopoguerra fu requisita dall'ANPI per farne la sede e
poi negli anni '50 divenne proprietà del PSI. Causa della morte: Disperso.
Data 06/05/1945 ad Alfonsine. |
11 |
Ghiberti Giovanni
di Eugenio nato a Ravenna nel 1890. Bracciante agricolo fucilato o
assassinato ad
Alfonsine 18/01/1945. |
12 |
Ghini
Caio (Caio d’ bajuchèn).
Nato nel 1904, residente ad Alfonsine. Era
solo un povero uomo, figlio di un ricco possidente fascista Giuseppe
Ghini (bajuchèn), ma che veniva trattato come un garzone. Era
spesso ubriaco. Si dice che nascondeva le bottiglie del vino nelle
sue terre con sopra il tartufo per poi andare a trovarle con il suo
cane da tartufo e berle con i suoi amici, che erano
poi i suoi braccianti. Non era invischiato nella politica. Fu ucciso il 10/05/1945 da un suo operaio (partigiano) con cui era in attrito. Forse fu
ucciso semplicemente per rubargli i soldi che stava portando per
pagare gli operai. Il colpevole era noto a tutti, ma non fu mai
inquisito. |
13 |
Sfollato
con la famiglia al di là del Po Vecchio (Reno), ad Anita, tornarono nel
febbraio del 1945 in paese, alloggiati presso la casa della figlia Marina
sposata a Fausto Vecchi, in via Mazzini. A guerra finita, senza nulla
temere, si trasferirono nella seconda casa in via Roma, dato che quella in
piazza Monti era diventata inagibile.
La
sera del 5 maggio 1945, mentre era in casa con la moglie Carolina (la
Carlina) e tutta la famiglia, sentì fermarsi un autocarro davanti a
casa.
Nel cassone coperto da un telo c’era già qualcuno. Secondo le fonti,
non rese note, del periodico “Il Romagnolo", scesero in tre e bussarono
alla porta, vestiti con giacche a vento e scarponi. Quando Giuseppe Marini
aprì gli ordinarono di uscire e seguirli alla questura di Ravenna. La
moglie si spaventò ma Giuseppe Marini la rassicurò col proverbio “male
non fare, paura non avere”. In tasca aveva un portafoglio con ottanta
mila lire. L’autocarro partì in direzione della via Reale. Si saprà
poi che andò a prelevare anche il possidente Stefano Mingazzi.
Sull'autocarro c'erano anche i due fratelli Santoni, già prelevati.
Nessuno
saprà più nulla dei quattro fino al settembre del 1961 quando un
contadino, durante i lavori di aratura del suo campo in zona Passetto,
vide apparire tra la terra dei resti umani. Erano le ossa appartenute a
quattro persone, i cui crani erano bucati dal colpo di un proiettile
all’altezza della nuca. Furono trovati anche bossoli di calibro 9 e
pezzi di filo di ferro usato per legare le mani ai sequestrati. I
famigliari dei quattro, prelevati nel maggio del 1945 riconobbero, i loro
cari da brandelli di vestiti e altri oggetti.
Giuseppe
Marini era
stato sostenitore del fascismo, ma non risultava – e non risulta tuttora
- che avesse mai avuto ruolo in alcuno degli episodi di violenza
che sono disseminati lungo il ventennio fascista, e nel periodo della
Repubblica di Salò. Tant’è che, a differenza di altri gerarchi
fascisti, che avevano qualcosa da temere per le violenze distribuite qua e
là lungo tutto il ventennio, lui, a guerra appena finita, era tornato alla
sua casa.
Esecuzioni
di quel tipo, in quei giorni, in Alfonsine ce ne furono altre, e il loro
numero appare sproporzionato rispetto a possibili vendette personali per
violenze subite nel periodo 1923-1943, e attribuibili a fascisti.
Quel
che è certo è che Giuseppe Marini, alla caduta del fascismo, aveva
continuato
la sua attività in fabbrica. Ma la guerra e i bombardamenti impedirono lo
sviluppo della produzione. Durante
l’occupazione tedesca operò per conto dell’organizzazione “TODT”,
con attività che l’esercito tedesco richiedeva, e che non potevano
essere rifiutate. Il lavoro con la “Todt” in Italia, e anche ad
Alfonsine, fu per molte persone una vera fortuna, in quanto lavorando lì
non sarebbero state deportate in Germania.
(Per
saperne di più clicca qui)
|
14 |
Graziani Demetrio |
15 |
Graziani
Vittorio (Tamant):
squadrista della prima ora,
si assunse il merito di aver ucciso un giovane di sinistra durante
uno scontro negli anni ’20, probabilmente perché lui era rimasto
ferito negli scontri e ciò rendeva più facile sostenere che si era
trattato di autodifesa. Comunque non era stato lui, ma pare un
suo camerata Giulio Tavalazzi. Forse fu ucciso per vendicare quella
vittima. La smentita però venne nel dopoguerra dai parenti, che
fecero sapere al fratello di Vittorio, il dott. Giuseppe (Peppino) Graziani che non c'entravano
con quell'esecuzione. Fu ucciso per motivi non ancora chiaramente noti.
|
16 |
Guerrini Igino
di Francesco, nato ad Alfonsine il 18/05/1883, e qui ivi
residente, muratore, disperso l'11/05/1945 ad Alfonsine. |
17 |
Marconi
Francesco detto
“Urtlanaz”
Indicato come
delatore dei partigiani gappisti che usavano come basi le case
della zona del 'Palazzone', dove lui abitava, sembra sia stata una pedina usata, magari a sua
insaputa, in tutto il contesto dei tragici fatti del Palazzone (Fusignano), anche se certamente aveva
conoscenza del luogo e della gente che vi abitava. C'è la
sentenza di morte del Distaccamento GAP S. Babini di Fusignano. ma
non c'è la documentazione in base alla
quale sarebbe stato considerato colpevole.
Passata
la guerra i figli del Marconi hanno tenuto a informare l'Istituto
Storico della Resistenza che il loro padre era un dandy, che
"frequentava" mogli di vari gerarchi fascisti, e che
potrebbe inavvertitamente essersi lasciato sfuggire, senza
rendersene conto, qualche informazione sui partigiani del Palazzone.
Fu giustiziato il 7 ottobre del 1944
Sentenza di morte del Distaccamento GAP S. Babini di Fusignano.
"7/10/44 Dopo sette mesi di indagini si è venuti
ufficialmente a conoscenza che il Marconi Francesco det l’Urtlanaz
abitante in Palazzone (Fusignano) è complice del crimine avvenuto il 23/04/44 nel Palazzone a
carico di nostri sette gappisti. I gappisti di Fusignano si recano
alla casa della nota spia, la conducono sul luogo ove è avvenuto il
crimine. I membri del tribunale del distaccamento Gap S. Babini
hanno processato il Marconi dopo aver interrogato a lungo il
suddetto ed aver strappato a questo informazioni importantissime
tramite il tribunale condanna il Marconi alla pena capitale. La
sentenza di morte è stata immediatamente eseguita".
(cliccare sull'immagine per averla ingrandita)
|
18 |
Marescotti
Agostino, 42
anni (res. Alfonsine di Ravenna):
ucciso a Codevigo
|
19 |
Melandri Sergio
ucciso aprile 1945 |
20 |
Melandri Eugenio
di Paolo, nato a Ravenna nel 1896 caduto il 02/09/1944 Alfonsine. |
21 |
Mezzogori
Adolfo (Pizighì)
Di Guerrino e Tasseli Angela nato ad
Alfonsine in via Saffi n°37 il 2 maggio 1913. Legittimato per
susseguente matrimonio il 13 agosto 1914. Residente ad Alfonsine.
Morto ad
Alfonsine all'età di 31 anni "sentenza di dichiarazione di morte presunta stabilita il 14 aprile 1945 alle ore 24" (atto di morte n° 2 II C del 1959).
Viveva nei Sabbioni, un poveraccio
ruffianello e teppistello che si vendette a Camilli capo dell’RSI
locale in cambio di informazioni sui giovani di leva, e per questo
probabilmente fu giustiziato come collaborazionista. Il suo corpo
non fu mai trovato.
|
22 |
Mingazzi
Stefano di Natale e Gagliardi Marianna.
nato ad Alfonsine il 3
agosto 1880 in via Reale n°64 (atto n°177). Possidente. Nel 1928 sposa Isani Amalia. Iscritto al P.N.F
(Partito Nazionale Fascista). Morto ad Alfonsine "il 6 maggio
1945" all'età di 64 anni "in circostanze non
chiarite" (atto di morte presunta n 2 II C del 1951).
La sera del 5 maggio 1945, un autocarro si fermò davanti a casa di
Giuseppe Marini in via Roma. Nel cassone coperto da un telo c'era
già qualcuno, i fratelli Santoni erano appena stati prelevati.
Scesero in tre e bussarono alla porta, vestiti con giacche a vento
scarponi. Quando Giuseppe Marini aprì gli ordinarono di uscire e
seguirli alla questura di Ravenna. L'autocarro partì in direzione
della via Reale. Si saprà poi che andò a prelevare anche il
possidente Stefano Mingazzi.
Sull'autocarro c'erano anche i due fratelli Santoni, già prelevati.
Nessuno saprà più nulla dei quattro fino al settembre del 1961
quando un contadino, durante i lavori di aratura del suo campo in
zona Passetto, vide apparire tra la terra dei resti umani. Erano le
ossa appartenenti a quattro persone, i cui crani erano bucati dal
colpo di un proiettile all'altezza della nuca. Furono trovati anche
bossoli di calibro 9 e pezzi di filo di ferro usati per legare le
mani ai sequestrati. I famigliari dei quattro, prelevati nel maggio
del 1945 riconobbero i loro rari da brandelli di vestiti e altri
oggetti.
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Orioli
Bruna (Segretaria del Fascio Femminile di Alfonsine)
ORIOLI BRUNA
di Ulisse e Guerra Giovanna, nata il 21 agosto 1903 ad Alfonsine.
Risiedeva in via Borse n°2, col padre Ulisse. Celibe, fu insegnante
e Segretaria del Fascio Femminile di Alfonsine.
(non essendoci testimoni le seguenti
notizie arrivarono vox populi, forse raccontate dai vicini)
L’11 maggio
del 1945, un gruppo armato della Polizia Partigiana, entrò nella
casa di via Borse, e minacciò di arresto il padre Ulisse che era
disteso nel suo letto. Forse cercavano il fratello di Ulisse,
Girolamo Orioli, iscritto ai fascisti della marcia su Roma. Bruna si
oppose gridando e cercando di proteggere il padre. Furono sparati
vari colpi d’arma da fuoco e padre e figlia rimasero uccisi.
Nessuno indagò mai su quell’episodio. Ci fu solo la registrazione
da parte della Regia Procura di Ravenna di un Avviso di morte:
"per arma da fuoco" Bruna Orioli aveva 42 anni (atto di
morte n°81 II B del 1945).
Casa
degli Orioli inizio di via Borse.
Fu acquistata da Giulio Guerrini (i guarèn gross) dagli eredi degli
Orioli.
Quella casa fu poi espropriata dal Comune di Alfonsine e abbattuta
nel 1999)
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Orioli
Ulisse (padre di Bruna)
ORIOLI ULISSE
di Ercole e Tarroni Maria (padre di Orioli Bruna) nato il 26 aprile
1871 ad Alfonsine. Residente in via Borse n°2. Industriale.
Coniugato con Guerra Giovanna.
(non
essendoci testimoni le seguenti notizie arrivarono vox populi, forse
raccontate dai vicini)
L’11 maggio del 1945, un gruppo
armato (probabilmente della Polizia Partigiana), entrò nella casa
di via Borse, e minacciò di arresto Ulisse che era disteso nel suo
letto. La figlia Bruna si oppose gridando e cercando di proteggere
il padre.
Forse
cercavano il fratello di Ulisse, Girolamo Orioli, iscritto ai
fascisti della marcia su Roma. Furono sparati vari colpi d’arma da
fuoco: padre e figlia rimasero uccisi. Nessuno indagò mai su quell’episodio.
Ci fu solo la registrazione da parte della Regia Procura di Ravenna
di un Avviso di morte: "per arma da fuoco" Bruna Orioli
aveva 42 anni (atto di morte n°81 II B del 1945).
Avviso di
morte: "per arma da fuoco" della Regia Procura di Ravenna
dell' 11 maggio 1945 aveva 74 anni (atto di morte n°82 II B del
1945). |
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Pagani
Giuseppe (Gigì dla Murètta) |
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Pavan
Giovanni
di Antonio e Parovidolini Giuseppina nato il
1° gennaio 1907 a Pago (Dalmazia). Residente a Pola. Funzionario di Prefettura. Coniugato con Salvagno Rosmunda. Morto il 29
agosto 1945 all'età di 38 anni presso l'Ospedale Civile di Alfonsine, posto in via Reale n°100, (atto di morte n°145 II B del 1945).
Nota storica.
Circa un mese dopo la liberazione di Ravenna (4 dicembre 1944) arrivò ad Al-fonsine una persona sempre ben vestita in giacca e cravatta e prese alloggio in una abitazione del borghetto (via A. Saffi). Usciva di casa quasi tutti i giorni girando per i locali di Alfonsine e si soffermava specialmente di sera, nell'Albergo trattoria di fronte alla Stazione. Era molto schivo, parlava poco e mai si era espresso politi-camente né per una parte né per l'altra. In quella trattoria guardava a giocare a carte, spesso cenava, ed ogni tanto quando arrivavano i treni andava in stazione come fanno i bambini, per curiosità. Non aveva mai dato fastidio a nessuno, mai un al-terco con qualcuno e mai nessun problema anche con le autorità. In pratica una persona modello. Arriva il 10 aprile 1945 la Liberazione di Alfonsine, così come la fine della Guerra e Pavan rimane ad Alfonsine, continuando a frequentare i locali ed in particolare la Trattoria della Stazione, e dopo il ripristino della linea, qualche volta si recava a Ravenna. Altre volte saliva su una Topolino e non si sa dove andasse e cosa facesse. Da quel mese di aprile ad Alfonsine, come da altre parti della Romagna e
dell'Italia ci fu la cosiddetta caccia al fascista. Delle liste che si sapeva esistessero quasi tutte le persone furono uccise o sparirono rimaneva in sospeso il nome di Pavan. Chi era costui? La memoria popolare racconta che, alcuni si trovarono per decidere cosa fare
anche in considerazione che Pavan non aveva mai disturbato non aveva mai avuto atteggiamenti favorevoli al fascismo o contrari alla resistenza. A quel punto fu
deciso "nel dubbio" di eliminarlo. Una sera di fine agosto 1945 quando Pavan, dalla Trattoria della Stazione, ritornò verso casa nei pressi della via Reale di fronte a quello che oggi (2021) è il Bar Sport, sbucarono da dietro un fabbricato (forse una pesa pubblica) due persone e gli esplosero contro diversi colpi di arma da fuoco, uccidendolo. In seguito fu poi tumulato nel Cimitero di Alfonsine. Si trattava di un ufficiale di collegamento delle forze alleate e nella Trattoria della Stazione o nella Stazione stessa, passava ad altra persona un biglietto con l'indicazione delle case o dei luoghi dove si trovavano i comandi o militari tedeschi o repubblichini da
colpire. Quindi "avevano ucciso uno dei loro". A quel tempo, fine 1945, inizio 1946 tutti i morti sepolti fuori dal Cimitero,
fossero civili, tedeschi o repubblichini (vedi Chiesa della Paina), furono disseppelliti e tumulati in un angolo dell'attuale Cimitero. Già dal 1945 i parenti dei defunti si recavano in Municipio, facendo istanza al Sindaco per ritirare i resti dei loro
famigliari. Le spoglie venivano riesumate ed i familiari le portavano nei diversi luoghi
di destinazione. Questa operazione veniva pure indicata sui registri cimiteriali e si trovano ancora tracce del tipo
... riesumato dal fratello, oppure padre, oppure zio o altro parente (indicandone il nome) e portato a (nome della città).
Per Pavan ciò non è avvenuto. Non c'è alcuna richiesta di esumazione negli atti comunali, ma una semplice annotazione nel registro cimiteriale
"Riesumato e portato a Pola". Anche questa è una conferma del ruolo di Pavan. Nessuno (diversamente dagli altri) ha voluto qualificarsi all'allora Sindaco, ma il corpo è stato riesumato ugualmente e portato via. Altra conferma del ruolo di Pavan sta nel fatto che la maggior parte di detti "agenti", per poter percepire una paga, ricoprivano posti pubblici e Pavan dopo il dicembre 1944 (liberazione di Ravenna) era Consigliere di Prefettura a
Ravenna.
Dal dicembre 1944 sia la Prefettura di Ravenna e sia la Questura erano sotto il coordinamento della Resistenza, così come le altre forze dell'ordine oltre alla "Polizia Partigiana", di cui alcuni alfonsinesi ne fecero parte.
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27 |
Randi
Pier Mario Natale: sequestrato (e mai più
ritrovato) nei giorni immediati alla fine della guerra. Era tornato
in visita alla sorella che abitava in via Roma in quei giorni. Lei
era stata un maestra elementare, lui lavorava al Ministero a Roma.
Ebbe
contatti in Francia con Mino Gessi. Del tutto sconosciuti i motivi
del sequestro: restano dubbi su una voce che lo dava appartenente
all'OVRA, voce smentita da quando nel dopoguerra furono resi noti i
nomi dell'Organizzazione spionistica fascista. Forse era troppo
tardi... |
28 |
Ravaglia Girolamo
di Adolfo, nato ad Alfonsine il 19/10/1923 fucilato o assassinato a
Sant'Alberto il
31/05/1945. |
29 |
Santoni
Giannino Agricoltore |
30 |
Santoni
Corrado imprenditore |
31 |
Tarroni Natale
(nadèl d'mursò d’canarèl) viveva da solo
in Borgo Gallina (o Fratti). Fu ucciso sull'argine dello 'Scolo'
(Canale Destra Reno) da uno sparo. Era fratello di Tarroni Paolo, che
pure lui fu ucciso (vedi sotto) |
32 |
Tarroni Paolo
(fratello
di Natale) fu ucciso nel 1945 subito dopo la liberazione di
Alfonsine. Aveva due figli Rino (che fu pure lui ucciso) e Guelfo
che in quel periodo era militare, e che ebbe poi tre figli Gianni,
Andrea e Antonio. |
33 |
Tarroni Rino,
figlio di Paolo, non era fascista. Sparì mentre
andava dalla fidanzata. |
34 |
Vassura Sante
fu
ucciso tra via Valeria e Fiumazzo, nell'autunno ’44, mentre
tornava dal suo piccolo podere, (aveva qualche ettaro di
terra al Taglio). Era fascista e si dice coinvolto come spia per i
fatti del Palazzone. Fu squadrista e bastonò in via Fiumazzo
Viotti, Billini e Antonelli. Era il 24 giugno 1923. Aveva una
figlia, e un figlio in arrivo. Questi fu chiamato Sante. Abita a
Glorie di Bagnacavallo in via Aguta, con la madre ultracentenaria.
(oggi 2011)
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35 |
Vassura Anselmo
(era
lo zio
di Sante, aveva un figlio con la TBC
sequestrato nel '44 e mai più ritrovato). Si dice che venisse sepolto nella
'Dana', ex-valle, oggi podere della Cooperativa Braccianti. |
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