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C'era
nell'aspetto di Fiume qualcosa di spettacolare che non dimenticherò mai.
Sardi, piemontesi, uomini d'ogni altra regione d'Italia erano insieme,
tutti con uniformi diverse e tutti armati con uno o due pugnali, pistole e
fucili; e tutti avevano il petto pieno di decorazioni; perfino i ragazzini
avevano una dozzina di medaglie appuntate alla giubba. Per la maggior
parte non portavano berretto; questo allo scopo di lasciar crescere i
capelli per assumere un'aria battagliera. Non c'erano molti motivi che
ricordassero le tradizionali legioni romane in quell'accozzaglia di
uomini: non vidi nulla di romano a Fiume, se non l'arco della città
vecchia." "In
tanta confusione ebbi la fortuna d'incontrare il mio compagno di viaggio
della sera prima. Questi mi presentò a un capitano, un simpaticissimo
giovane toscano che occupava un posto eminente alla Reggenza, come si
chiamava la residenza di D'Annunzio. Pranzammo insieme in un ristorante
affollato di legionari, tra un frastuono assordante. Ogni volta che
qualcuno beveva c'era un coro di evviva all'indirizzo di D'Annunzio e dei
legionari, oppure un coro di «Abbasso Giolitti» e «Abbasso il
presidente Wilson»." "Iscrizioni
con queste parole si leggevano su tutti i muri della città e persino
negli orinatoi pubblici. Anzi, quegli orinatoi di Fiume sarebbero stati
un eccellente campo di studio per coloro che si interessano di quella che
si chiama Epigraphie latrinaire, non solo riguardo alla politica. Poiché
non sono mai stato d'accordo con quel francese - fu Lamartine? - che
disse: «La muraille c'est le papier de la canaille», copiai alcuni
esemplari
scelti di questi «graffiti», i quali purtroppo, per la maggior parte,
non sono pubblicabili. "Da
Giolitti una tassa sara fissata Ma riuscì a incontrare D’Annunzio? "Quando
dissi al capitano toscano chi ero e gli confidai che desideravo
ardentemente conoscere D'Annunzio, promise di fare del suo meglio per
accontentarmi, e mantenne la parola. Ci ritrovammo la sera stessa al
medesimo ristorante, tra una folla più che mai rumorosa. Consumammo un
pranzo a base di gamberi, specialità di Fiume, e qualcuno mi disse che
D'Annunzio li chiamava «velivoli», poiché si servono con le pinze
divaricate e ritte contro un mucchietto di prezzemolo nel piatto. Bevemmo
anche una buona dose di Sangue morlacco, cioè di cherry brandy, altra
specialità del luogo, e notai che ognuno si serviva indifferentemente
dalla bottiglia degli altri; vidi persino dei soldati versar nel proprio
bicchiere dalla bottiglia dei loro ufficiali. Il mio capitano mi disse che
era una cosa normalissima; faceva parte dell'atmosfera di Fiume sotto
D'Annunzio. Il
capitano mi aveva già fissato un'udienza col ministro della Guerra, che
mi avrebbe spiegato qual era la situazione militare.
La
mattina seguente andai a trovare il Ministro della Guerra, che mi tenne
curvo su un’immensa carta geografica per un paio d'ore, indicandomi col
dito grassoccio questo o quel punto illustrandomene il valore strategico.
Quando ritenne di avermi sufficientemente istruito, mi condusse dal
ministro degli Esteri, il quale, a sua volta, sprecò un paio d'ore del
mio tempo insultando i governi d'Italia, d'America, d'Inghilterra e di
Francia. Clemenceau era la sua bestia nera. In
seguito fui presentato al ministro delle Finanze, che mi disse degli
affari del suo dicastero. Dopo questi colloqui si ritenne che io fossi
sufficientemente versato nei problemi di Fiume per incontrarmi col
Comandante D'Annunzio. Tutto
ciò era molto operettistico. Il
terzo giorno della mia permanenza in città, il capitano mi accompagnò al
palazzo della Reggenza, dove non posso dire di aver ammirato tutte quelle
copie di sarcofaghi romani e tutti quei vasi moderni, produzione corrente
di Signa, pieni di quelle orribili piante chiamate aspidistre. Di dove
venivano? Le aveva forse importate D'Annunzio? Erano
circa le dieci del mattino e io feci anticamera in una stanza al primo
piano sino alle dodici e mezzo. Quando finalmente il mio capitano apparve,
mi disse che D'Annunzio era stato occupato in affari di Stato tutta la
mattina e che ora doveva andare a colazione. «Ritorneremo
nel pomeriggio» mi propose. «Ma
proprio non voglio farvi perdere il tempo in questo modo. Non sarete
occupato anche voi?» «Occupato?
Non ho altro da fare che badare a voi. Il Ministero della Guerra mi ha
dato preciso incarico in proposito». Nel
pomeriggio il capitano mi disse che non era possibile vedere D'Annunzio,
il quale aveva importanti problemi da studiare. La mattina seguente feci un altro vano tentativo per vedere il Comandante, ma nel pomeriggio il suo segretario privato mi introdusse nella sua stanza da lavoro.
In
una sala attigua «la donna dalle venti dita», come egli chiamava la
signorina Baccara, eseguiva al piano un pezzo di Beethoven e in certi
momenti il Comandante abbassava la voce per ascoltare meglio la musica.
Quando seppe che ero romagnolo cominciò a parlarmi della mia regione e
del periodo che vi aveva trascorso quando aveva scritto la Francesca da
Rimini. Quando mi alzai per andarmene e lo ringraziai per aver ricevuto
uno sconosciuto qualsiasi come me, mi diede due sue fotografie e una copia
di un suo libro con l'autografo. L'incanto si ruppe non appena ebbi lasciato quella sala. Non ero più in una terra di sogno, ma nel melodramma fiumano, circondato da aspidistre, da finti sarcofaghi romani e da una folla di montenegrini nel loro pittoresco costume nazionale, che aspettavano di parlare col Comandante per certi loro misteriosi affari politici." Lei
ha conosciuto anche il
fondatore del dadaismo Tzara, ed è andato spesso a cena in trattoria a
Firenze con Eugenio Montale, insomma ha avuto una vita avventurosa, ricca,
intensa, piena di energia e anche di felicità.
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Piazza
Monti dal lato della chiesa, |
Rimase
stupito quando la donna che ci servì mi apostrofò improvvisamente
chiamandomi «Pino!» e ancor più quando un vecchio seduto su una panca
mi corse incontro e volle baciarmi la mano gridando «EI fieul d' Martin!».
Era
il vecchio Plopi che in tempi remoti aveva lavorato in casa nostra.
Eravamo entrambi commossi. Plopi aveva ormai ottantaquattro anni, ma ben
volentieri bevve un bicchier di vino con noi; gli feci scivolare dieci
lire nella mano scarna mentre ci accomiatavamo.
Proseguimmo
verso Ravenna attraversando alcuni canali tra i quali il cosiddetto Fosso
Vecchio e il Fosso di Vetro, luoghi che d'estate sono straordinari per i
concerti di rane. Nei canali come quelli, Bastianello ed io solevamo
pescare da ragazzi."
"Bastianello
era un mio compagno di classe fin dalla 1° elementare: è stato il mio
miglior amico dell’infanzia, fino a 14 anni, quando dovetti lasciare
Alfonsine; dopo di allora non lo rividi mai più.
Lui
ed io, con pochi centesimi, compravamo una certa miscela in un negozio,
poi mettevamo una rete attraverso il canale e un'altra rete più a monte.
Quindi gettavamo nell'acqua la mistura che si trova già menzionata in
Plinio ed è tuttora usata dai napoletani che la chiamano “laterogna”.
Ci svestivamo, scendevamo nell'acqua e agitavamo il fango del fondo coi
piedi; infine risalivamo sull'argine per osservare i risultati. E questi
erano sempre uguali. I pesci salivano alla superficie col muso in aria,
cercando di respirare. Non appena apparivano ci gettavamo nuovamente
nell'acqua e li ghermivamo con le mani. Erano miseri pesci: piccoli lucci,
tinche, anguille, muggini; alle volte non valeva nemmeno la pena di
cuocerli. Bastianello non aspettava, del resto, di portare il pesce a casa
per farselo cuocere. Portava in tasca una cipolla cruda e con quella e con
un cospicuo numero di pesci crudi faceva copiosi pasti. La sua famiglia
era così povera che non aveva mai niente da mangiare all'infuori di
pesciolini e grosse rane; e, quando non c'era né la legna per far fuoco né
l'olio per friggere, quella povera gente mangiava tutto crudo.
Bastianello
era il più povero e il più discolo della scuola. Benché cencioso e
sempre affamato, era il più bello di tutti, o così mi sembrava:
aggraziato e svelto, snello, biondo con occhi azzurri e lunghe ciglia.
Senza rendersene conto esercitava una specie di fascino su di me. Ben
presto nella nostra amicizia si insinuò una sfumatura, e più che una
sfumatura, di sessualità. La mia famiglia era contraria a
quell’amicizia. Bastianello era di famiglia poverissima e viveva in un
tugurio.
"C’era
una baracca di legno che pomposamente veniva chiamata “teatro” (e’
baracò detto anche “teatro Calderoni” di proprietà dei Gessi; venne
in seguito incendiato dai fascisti, per vendetta. – ndr).
Passavano
artisti di quelle compagnie girovaghe: povera gente, di solito, che
offriva ben miseri spettacoli. Ma una volta la compagnia Renzi-Gabrielli
onorò di una sua visita la cittadina.
Gli artisti
erano un po' meglio di quelli che venivano di solito e avevano un
repertorio pretenzioso costituito da lavori di Ibsen, Shakespeare,
Sudermann e altri commediografi. Mio padre mi permise di andare ad
ascoltare l'Amleto in una rappresentazione in cui il suggeritore recitava
tutte le parti principali, dato che la sua voce era così forte da
sopraffare quella degli attori.
Annunciarono
che avrebbero dato anche Frine, un dramma di autore italiano. Questa
notizia provocò molto scalpore tra gli uomini, dato che la prima donna,
la signora Gabrielli, secondo l'antica leggenda greca sarebbe dovuta
apparire nuda davanti ai giudici. Era una grassa fiorentina di mezza età,
che, guarda la combinazione, era stata un tempo l'amante di mio fratello
Antonio; suo marito era collega di Antonio alle ferrovie. La signora
Gabrielli era bionda naturale, benché nessuno ci credesse, e aveva la
vista così debole che spesso portava gli occhiali sul palcoscenico.
La sera dello spettacolo i prezzi subirono un aumento. Tutti i posti nella baracca di legno, che veniva pomposamente chiamata teatro, erano stati prenotati da uomini, perché le donne si mostravano disgustate al solo sentir parlare di un simile lavoro."
"Inutile dire che Bastianello ed io ardevamo dal desiderio di vederlo, ma, a parte il fatto che né lui né io avevamo danaro, mio padre non mi avrebbe mai permesso di andarvi.
Nel pomeriggio, Bastianello mi disse di trovare una scusa per assentarmi da casa in serata. Aveva aperto una breccia nella siepe, quindi aveva fatto il giro del teatro e aveva praticato parecchi buchi nelle pareti di legno, attraverso i quali avremmo potuto vedere ciò che accadeva sul palcoscenico. Ma c'era di più: aveva fatto amicizia con un ragazzo che lavorava per gli attori e aveva saputo da lui quale era lo spogliatoio della prima donna.
Anche là Bastianello aveva praticato due fori, uno per lui e uno per me. All'ora stabilita ci collocammo al nostro posto di osservazione e quando si accesero le luci potemmo sbirciare assai bene nello spogliatoio di Frine. Noi eravamo nelle tenebre. Fu un momento emozionante. Quando l'attrice entrò, Bastianello mi sussurrò all'orecchio: «Eccola! Ora sta' attento!»
Osservammo. Appena entrata nel camerino, l'attrice, per prima cosa, trasse di sotto una seggiola un vaso da notte e se ne servì. Poi, sferrando pedate all'aria, si tolse le scarpe. Infine prese una caramellina da una scatola, la mise in bocca e cominciò a togliersi gli abiti. Eccola in mutande, con un gran busto che le comprimeva il ventre e il seno. Si tolse il busto; il ventre si gonfiò come un pallone e il seno flaccido ricadde fin quasi a toccarlo. Final mente si sfilò la corta camiciola e le mutande e rimase nuda davanti a uno specchio, ammirandosi. Noi la fissavamo. Quel che mi colpì sopra tutto fu l'enorme deretano che parve aumentare ancora di volume quando la donna si curvò per indossare la maglia rosa: fece una fatica infernale a indossarla. Era la prima donna che vedevo nuda e non posso dire di aver ricevuto un'impressione favorevole. Non così il mio amico, che riusciva a stento a contenere la propria emozione. «Com'è bella! Com'è bella!» continuava a mormorare.
La signora
Gabrielli si truccò il viso, si incipriò le braccia e le mani, si buttò
sulle spalle un gran mantello di velluto nero e uscì dallo spogliatoio. A
nostra volta ci allontanammo e un momento dopo ammiravamo la scena dagli
altri fori che il previdente Bastianello aveva preparati. Fu un grande
successo. Quando Frine apparve e aprì il mantello rivelando la sua
esuberante persona inguainata di maglia rosa, il pubblico parve impazzire.
La breve scena dovette essere ripetuta varie volte. Il giorno seguente, in
paese, si fece un gran parlare della faccenda e una deputazione di donne
si recò dal parroco per pregarlo di intervenire e di far cessare
l'immorale spettacolo. Il parroco non fece nulla; il dramma fu replicato
per parecchie sere, a teatro esaurito, e la compagnia guadagnò molto. Ma
nessuno, all'infuori di Bastianello e di me, vide Frine nuda. Se
l'originale greco fosse stato simile alla signora Gabrielli e io fossi
stato uno dei suoi giudici, l'avrei condannata al carcere a vita.
Eravamo
all’inizio della seconda guerra mondiale, nel 1939. Ero a Faenza per
lavoro. Alle undici avevo già sbrigato l’affare e il treno per Firenze
partiva nel tardo pomeriggio. L’aria di Faenza mi sembrava satura di
ricordi del passato. A un tratto mi venne l’ispirazione di utilizzare il
tempo disponibile facendo una corsa in automobile fino a Bagnacavallo,
dove non ero stato da molti anni.
Ci racconti anche di
Bagnacavallo...
della contessa Guiccioli, di Byron e di sua figlia Allegra!
"Agli
occhi del turista, Bagnacavallo ha un aspetto bizzarro. Sorge in una zona
piana eppure non c’è una strada diritta in tutta la cittadina. Le vie
sono così tortuose che non si può mettere in dubbio la voce locale
secondo cui la città, in origine, fu progettata da un ubriacone.
Mi trovai di fronte al convento delle monache cappuccine dove la figlia di Byron, Allegra, fu rinchiusa dal padre, soprattutto, credo, per far dispetto a “quella maledetta strega atea” di sua madre.
Sul
muro del convento è stata fissata una lapide marmorea che ricorda
l'avvenimento. Che cosa mai poteva intendere Byron quando scrisse a un
amico parlando dell'«aria buona» di Bagnacavallo, che non aveva mai
visitato e che è stata la vera culla della malaria fino ai miei tempi?
Non è possibile che si sia informato a fondo e la sua condotta è tanto
più grave in quanto Allegra aveva già tanto sofferto di malaria nel 1819
ed è un caso che non sia stata proprio la malaria a ucciderla a
Bagnacavallo. L'ispiratrice di Byron, contessa Guiccioli, dovette essere
ben contenta che quella vivace creatura venisse tolta di mezzo e
imprigionata in quel convento dove morì dopo un anno e tre mesi di
reclusione, quando Byron stesso aveva confessato di non aver diritti sulla
figliola.
Il fatto di essere imbalsamata dopo morta e trasportata in Inghilterra non dovette essere un grande compenso per Allegra, anche se la cosa appagò gli istinti teatrali del padre.
Ultrateatrale è anche la lettera della Guiccioli che descrive come Byron ricevette la notizia della morte di Allegra.
Io non attribuisco alcuna importanza a ciò che Shelley scrive dell'umore giulivo di Allegra quando egli la vide nel convento (allude anche al suo pallore). Qual è il prigioniero che non si rallegra a vedere un volto amico che viene dal mondo esterno?
C'è
qualcosa di oscuro nella faccenda di Allegra."
Lei
riuscì a visitare il convento?
"No.
Mi dissero che non era possibile visitare l'interno del convento, poiché
le monache vivevano in stretta clausura; potevo visitare la chiesa, se
volevo. La visitai e non ci trovai nulla di bello.
La
colazione al ristorante Pace - modesto ma ottimo, col proprietario che
serviva personalmente i clienti - mi ridiede il buon umore. Poi mi diressi
al canale Naviglio che corre tra Bagnacavallo e Alfonsine. Per me quel
corso d'acqua è pieno di cari ricordi, ricordi della mia amicizia
infantile con Bastianello.
Ben
conoscevo il Naviglio! Quante volte vi andavamo a prendere i pesciolini
dopo aver avvelenato l'acqua con una miscela che li faceva salire alla
superficie, col muso in aria! (Dovevamo avere nove o dieci anni allora,
perché più tardi ci mettemmo a pescare pesci più grossi). Di quando in
quando anche un'anguilla di rispettabili dimensioni saliva a galla; allora
ci divertivamo a cospargerci le dita di sabbia e a tenere il pesce per la
coda movendolo su e giù perché smettesse di dibattersi e aspettando lo
strano risultato, quasi immancabile. A poco a poco si formava un gonfiore
nella pancia dell'anguilla, che si spostava lentamente verso la testa. Poi
si apriva la bocca e sbucava fuori una rana, qualche volta viva, altre
volte digerita a mezzo.
Ripensai ad altre passeggiate lungo il canale, con Bastianello e il mio cane Poldino, che era speciale per trovare tartufi sotto i pioppi, e a quell'indimenticabile giorno in cui facemmo a piedi la strada da Alfonsine a Bagnacavallo e al ritorno ci scordammo di riprendere i nostri poveri libri di scuola che avevamo sepolti... con disastrose conseguenze per me.
Mi torna in
mente quella volta che Bastianello mi aspettava vicino alla scuola,
nell’ora in cui avevano inizio le lezioni mattutine. Mi disse che aveva
un mucchio di denari; ventidue soldi: un franco e dieci centesimi.
Ventidue soldi! Mi sembrava un patrimonio, dato che mio padre non mi dava
mai più di due soldi alla settimana.
Bastianello disse: “ Vieni con me. Andremo a Bagnacavallo a fare
una bella mangiata.
«Come fai
ad avere tutti quei soldi? Li hai rubati in casa?»
«No. La signora Fasoli (Faggioli
– ndr) mi ha mandato a comprare un chilo di carne, e quando il macellaio
mi ha dato il pacco mi sono dimenticato di pagare; il negozio era così
pieno di gente che non se n'è neppure accorto».
Partimmo per Bagnacavallo, distante all'incirca dodici chilometri, prendendo la strada lungo il canale e nascondendo le borse di scuola in un punto presso la riva. Fu quello per me un grande avvenimento, poiché non ero mai uscito dal paese natio. Bagnacavallo mi parve un immensa città, con le sue case alte, i suoi negozi, i suoi archi.
Facemmo una
meravigliosa mangiata: un pranzo principesco in un'osteria infima vicino
alla riva, osteria che esisteva ancora nel 1942 e portava la scritta «Stallazzo».
Ricordo anche com'era composto quel pranzo: pane, due enormi bistecche
comperate in una bottega vicina e cucinate per noi dall'ostessa e un
intero litro di vino rosso. Siccome a casa me lo davano allungato con
acqua e Bastianello non lo beveva mai, arrivammo alla fine del pasto
alquanto brilli e ce ne tornammo a casa a braccetto, cantando, allegri
come passeri. Disgraziatamente, dimenticammo di riprendere le borse di
scuola e arrivammo a casa senza libri. Quella volta fui picchiato di santa
ragione. Ma valse la pena di affrontare anche il castigo, e il macellaio
distratto non si accorse mai di non essere stato pagato. Eravamo felici
quanto lo possono essere i bambini... sono passati quarantadue anni...
"
Ha
mai saputo dov’è finito Bastianello?
Dov'è
Bastianello?
E
lei come ha passato i suoi giorni?
E
io? Come ho passato i miei giorni? Bene o male? Domande difficili. Ma
sulle rive di quel Naviglio esse mi si presentavano alla mente, mio
malgrado. Non ebbi mai cinquantamila lire da dare ai miei parenti, questo
è certo; quanto al resto... Che importa agli altri? Bene o male che io
l'abbia spesa, non mi dispiacerebbe rivivere questa mia vita."
Termina
qui questa lunga intervista
con Giuseppe Orioli.
Morì in Portogallo (neutrale), a Lisbona nel 1942, in piena seconda guerra mondiale, in miseria, abbandonato anche dal suo intimo amico Norman Douglas (e questo è l’unico episodio triste della sua vita).
Giuseppe Orioli nell'appartamento di Firenze, via dell'Oriuolo n° 26, dietro al Duomo, di fronte alla Banca d'Italia |
Tempo fa
qualcuno propose all’Amministrazione Comunale di Alfonsine di riportare
le sue spoglie, da Lisbona ad Alfonsine. In molti con sufficienza
respinsero quest’idea. Certo una società che mette l’economia al
primo posto dei suoi valori non può vedere l’utilità di una simile
spesa (si parlava di 8 milioni).
Riportiamolo a casa
Andranno dispersi i poveri resti
e
la tomba di Pino Orioli?
L'incarico di pagare la tassa cimiteriale era assunto dall’ultimo parente di Pino Orioli, Monsignor Giorgio Orioli che trovando difficoltà tecniche e burocratiche per seguire i pagamenti annuali e si era rivolse nel 2003 agli alfonsinesi. Nulla di fatto.
Poi il circolo “Alfonsine mon amour” insieme ad almeno tre dei sindaci succedutisi negli ultimi anni incontrò di nuovo Mons. Orioli in varie occasioni per realizzare l’idea di riportare le ossa di Pino ad Alfonsine e farlo diventare un simbolo della cultura alfonsinese.
Ma il tempo passava, e nonostante la diffusione anche sulla stampa locale (Carlino, Voce di Romagna, Corriere di Romagna) non si arrivò a una soluzione.
LA FORZA DI
INTERNET
Una ragazza portoghese Claudia Diaz, che studia a Londra e ha letto di
Orioli in questo sito internet mentre stava facendo una ricerca su
Norman Douglas, (scrittore che sta tornando alla notorietà in Gran
Bretagna, negli ambienti gay), amico di Orioli, è riuscita da qui a
contattarmi. Orioli è sepolto a Lisbona e lei essendo di Lisbona ha
voluto sapere in quale cimitero. Ha informato sua madre che risiede a
Lisbona la quale è andata a trovare la tomba di Orioli e ha parlato
con gli addetti del cimitero. Ha inviato quindi alla figlia le foto
della tomba e della casa dove morì. La notizia più importante è che
dal 2003 non veniva pagata più la tassa di manutenzione del loculo
(65 € all’anno), per cui entro tre mesi sarebbe avvenuta la
riesumazione, il trasferimento nell’ossario comune e distrutta la
vecchia lapide.
Dopo vari incontri e triangolazioni tra Comune di Alfonsine e
Direttore del Cimitero di Lisbona, l'ultimo parente Mons. Orioli per
vedere di pagare il debito per il loculo e magari riportare ad
Alfonsine i resti di 'Pino' non si è riusciti a combinare nulla.
Al che la madre di Claudia, la sig.ra signora Antonia Lobato cittadina
portoghese, abitante a Lisbona, si è fatta carico di pagare il debito
e la tassa mensile per la manutenzione della tomba.
Se i resti del povero Giuseppe Orioli non sono dispersi in un ossario
è solo merito suo, e della figlia.
Se un
giorno mai dovessi gareggiare per diventare sindaco il primo capitolo del
mio del programma avrà come titolo: "Senza espansione della
felicità, niente sviluppo economico", e tra i primi obiettivi di
questo punto inserirò l’impegno di riportare a casa le spoglie di Pino
Orioli ad Alfonsine. E’ ora che impariamo che al primo posto non ci può
stare certo l’economia: questo valore rende gretti, tristi, egoisti,
ragionieri, calcolatori, opportunisti, angosciati.
Al primo posto nella politica evolutiva del futuro ci sarà il sentimento,
la gioia, la creatività: "la vita sarà come un favola", diceva
Nietzsche. Orioli sarà qui vicino a noi a ricordarcelo.
(Luciano
Lucci lucci@racine.ra.it )
| Ricerche sull'anima di
Alfonsine | Giuseppe
Orioli |
| “L’amante
di lady Chatterley” |
| L'intervista impossibile a Giuseppe Orioli (sei qui)
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