Alfonsine

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Ricerche sull'anima di Alfonsine | Giuseppe Orioli | “L’amante di lady Chatterley” |
| L'intervista impossibile a Giuseppe Orioli 
(sei qui)
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 Giuseppe Orioli: 
un vero cittadino del mondo

L’alfonsinese lontano: un'intervista impossibile

 

Intervistare Giuseppe Orioli, nato ad Alfonsine nel 1884 e morto a Lisbona (Portogallo) nel 1942, non è impresa da poco; perché andare a scomodare anche i morti, si chiederà qualcuno?
E’ semplice: per farli rivivere, riportarli tra noi, raccontando di loro, e farci raccontare da loro com’era Alfonsine. 

Giuseppe Orioli è stato un alfonsinese non omologato, un vero cittadino del mondo: sconosciuto alla maggior parte degli alfonsinesi, se non fosse che a lui è dedicata la biblioteca comunale e una via; fu un viaggiatore curioso,  divenne anche un famoso antiquario di libri e primo editore del romanzo “L’amante di Lady Chatterley”. Omosessuale e uomo di cultura, visse il disadattamento come antidoto contro il veleno di chi dice che è necessario adattarsi al mondo.

L’ho incontrato nella biblioteca di Alfonsine, che tra l’altro prende il suo nome, e mi ha raccontato tante cose, tramite l’unico libro scritto da lui “Le avventure di un libraio”. Tutto quello che trovate qui scritto è registrato in questo libro.

L'intervista impossibile  
(a cura di Luciano Lucci)

Cosa si ricorda di Alfonsine?

"L’immagine più forte che mi è rimasta di Alfonsine sono le lucciole, non ne ho viste di così luminose altrove, nemmeno in India o a Ceylon".

E poi ricordo le folaghe. Ad Alfonsine negli ultimi mesi di novembre giungevano talvolta migliaia di folaghe. Per la caccia alla folaga si formava quella che si chiama una “tela”, con un cerchio di barche attorno alla palude frequentata dai volatili, per sparare dalle barche; e sempre di sera. La mattina successiva i carri sovraccarichi di folaghe passavano per le strade e gli uccelli venivano venduti a due soldi l’uno: il giorno dopo venivano dati per niente e quelli che rimanevano si gettavano nei campi come concime. Povere folaghe! Perché non lasciarle vivere?

Soltanto la gente più umile riusciva a mangiare questi uccelli. La loro carne rosso scuro sa tanto di pesce che quando io ero ragazzo la chiesa permetteva che si mangiassero le folaghe nei giorni di digiuno, come se si trattasse di pesci.

Però mio padre aveva una specialità: il suo risotto alla folaga era una specialità degna d'essere mangiato. La preparazione era laboriosa. Dopo aver spennato e pulito gli uccelli, e dopo averli tenuti su una fiamma per strinarli, vi passava attraverso un ferro rovente per togliere l'odor di pesce. La testa, il collo, le ali e le zampe venivano gettati via; ciò che restava veniva lavato accuratamente sotto il rubinetto. Poi mio padre cucinava le folaghe con cipolle, sedano, prezzemolo, pepe, sale e spezie nonché con un'abbondante dose di vecchio barbera. Una volta cucinati, gli uccelli venivano disossati e la carne triturata veniva servita nel suo sugo con riso bollito. Mio padre soleva dire che alle donne non dovrebbe mai essere permesso preparare quel piatto; economizzano troppo nel vino.

Chi erano i suoi genitori?

"Mio padre faceva il bottegaio: gestiva una drogheria e un’osteria dello Stradone (Corso Garibaldi), presso il ponte nuovo sulla via Reale. Era conosciuto col nome “Marté de Pont Nov” e cioè Martino del Ponte Nuovo.

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L'osteria di Martino Orioli qui in una foto del 1920. E' la seconda casa da destra. 
Qui non apparteneva più
agli Orioli.

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Oggi 2005 corso Garibaldi ricostruito nel dopoguerra.

Ho trascorso la mia infanzia tra gli argini del fiume Senio, piazza Monti, il Fosso Vecchio e il Naviglio. 

Mia madre soffriva di una specie di depressione o mania di persecuzione. In uno di quei momenti di crisi, quando era incinta di me, fu ricoverata a Imola nel manicomio (era la seconda volta che le capitava). Mio padre era terribilmente preoccupato che io potessi nascere in un simile ambiente. Ma un giorno si verificò un miracolo. Mia madre si trovava nel refettorio con gli altri ammalati, quando un topo le si arrampicò su per una gamba. Lo spavento la ricondusse alla ragione. Fu rimandata a casa, e tre mesi dopo, l’11 febbraio del 1884, nacqui io, ad Alfonsine.

Fu la mia prima avventura."

E’ vero che c’era una leggenda alfonsinese che raccontava di una figura, quasi un fantasma, nominata “la Pellegrina, che vagava solitaria con una candela in mano, vicino ai cimiteri?

"Io la storia di questa figura detta “La Pellegrina”, in dialetto “la Piligréna”, l’ho imparata così.

 Dato che mia madre non poteva allattarmi, fu assunta per me una donna giovane e robusta, che abitava nel centro del paese, oltre quel cimitero che oggi non esiste più (probabilmente abitava in corso Garibaldi e il cimitero era quello che si trovava dove fu il Parco delle Rimembranze, poi il Campetto dei conigli, dove oggi c’è la costruzione stramba che doveva ospitare il Conad, tra via "2 giugno" e la "Reale" . Quel cimitero fu spostato poi nel 1900 presso la sede attuale in via "Destra Senio" ndr)

 Una sera rincasando la nutrice vide nel cimitero “la Pellegrina”. La paura le fece cessare il latte e, a quanto pare, da quel momento io cominciai ad essere un poco la calamità della casa.

Non potrebbe essere questo il gioco della “Piligrèna, che i ragazzini alfonsinesi hanno sempre fatto, anche ereditando un’antica e ancestrale tradizione (o abruzzese o celtica): una zucca (o un cocomero) svuotata con una candela dentro messa in zone oscure, dove far paura a chi passava di lì?

Era un gioco che si poteva fare nel periodo di fine ottobre, attorno alle festività dei Santi e dei Morti, ma andava bene in qualsiasi altro momento, purché facesse paura. Oggi ad Alfonsine lo chiamano “Halloween”....

"Potrebbe essere... non sapevo che anche Alfonsine festeggiasse... per noi alfonsinesi a cavallo del ‘900 era solo un gioco di bambini."

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Giuseppe Orioli:
in una foto degli ultimi anni

Perché se ne andò da Alfonsine?

"Mio padre ebbe una crisi economica dovuta a vari fattori. Fu costretto a vendere casa e negozio. Aprì una piccola osteria e mi mandò a fare il garzone da barbiere in un negozio in piazza Monti.

Un mio fratello lavorava da barbiere a Firenze, così a 14 anni decisero che era meglio se andavo a Firenze a fare il barbiere. Passarono rapidi 5 anni, poi arrivò il momento del servizio militare. Quando dopo tre anni tornai a casa, non volevo più fare il barbiere, volevo viaggiare... Parigi... Londra.

Accennai l’idea a mio padre che disse “A lighij i can cun la zuzeza a Parigi?” “Legano forse i cani con la salsicca a Parigi?”. Lui voleva che facessi il barbiere.

Trovai comunque il coraggio di andarmene. Emigrai a Parigi con quattro soldi in tasca, e da lì passai a Londra. Qui vissi di vari espedienti, riuscendo poco a poco a conoscere molti personaggi che diverranno famosi."  

Lei è diventato famoso come libraio, è così?

"Sì. Con un mio amico di Londra J. Irving Davis, decidemmo di aprire un negozio di libri a Firenze, in via Vecchietti, finanziata dal padre del mio socio. Diventammo famosi e frequentati da tutta l’aristocrazia fiorentina. Improvvisamente decidemmo di chiudere con Firenze e trasferirci a Londra. Ci eravamo innamorati entrambi di una persona e temevamo che ciò potesse rompere la nostra amicizia.

Aprimmo poi un piccolo negozio anche a Londra dove vendevamo libri di antiquariato. 
Il nostro negozietto era frequentato da vari scrittori e intellettuali.

Poi, dopo la Grande Guerra, tornai a Firenze dove aprii un negozio tutto mio di libri di antiquariato, in Lungarno delle Grazie..."



Pino Orioli con Norman Douglas, a sinistra, in una delle "promenade" nella zona di Voralberg, in Austria, di cui Douglas parla nel suo libro "Together"

 

E lo scrittore Norman Douglas?

"Durante il periodo londinese avevo conosciuto molti poeti e scrittori e tra questi Norman Douglas, a cui fui legato da un’amicizia particolare" 
(sembra accertata la sua omosessualità, e il rapporto intimo che ebbe con Norman Douglas, entrambi presenti nella foto qui pubblicata. Rapporto intimo non significa in questo caso 'sessuale' ma forse solamente intellettuale, e di condivisione. Probabilmente la loro particolare sessualità si manifestava nelle relazioni con giovani.

Ad esempio Carlo Zanotti che fu da sempre segretario e accompagnatore di Orioli quasi sicuramente era il suo 'compagno'.  ndr)... 

Abbiamo fatto insieme molti viaggi e di lui ho pubblicato diverse opere.

Per merito dell’amico comune D. H. Lawrence, infatti ero diventato anche editore. Lawrence fu poi mio ospite a Firenze, da dove si trasferì in collina, a villa Mirenda. Fu là che scrisse il famoso romanzo erotico, che tanti scandalizzò: "L’amante di Lady Chatterlay", di cui diventai il primo editore."  

Chi ha conosciuto oltre a Lawrence e Douglas?

"Aldous Huxley e sua moglie venivano spesso a Firenze ed erano molto gentili con me. Avevano una villa a Forte dei Marmi e mi invitavano spesso, poi andavamo a Siena a vedere il Palio. Siccome Aldous accusava a volte disturbi di fegato come me, ci siamo spesso recati a Montecatini a fare la cura.

Una volta ho avuto occasione di incontrare in casa di un amico il pianista Arturo Rubinstein. Norman e Rubinstein erano vecchi amici. Lo accompagnammo a Siena dove doveva suonare  a Palazzo Ghigi, il cui proprietario era un grande protettore di musicisti. Un concerto per pochi intimi: fu un’esperienza indimenticabile.

Durante un viaggio a Capri fummo ospiti di John Ellingham Brooks, uno scrittore poeta che viveva in povertà ma in libertà. "

E’ vero che lei ha incontrato anche Gabriele D’Annunzio?

"Sì, nel 1920, prima di natale andai a Venezia per lavoro. Dal momento che ero a Venezia, decisi di andare a Fiume per visitare, se fosse stato possibile, Gabriele D'Annunzio, per il quale in più tenera età avevo avuto una grande venerazione. 

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D'Annunzio a Fiume nel 1920 nella divisa da Legionario

Arrivai a Trieste la sera di una giornata terribile. La bora soffiava furiosamente e, per giunta, le luci della città erano spente per uno di quei deplorevoli scioperi, tanto frequenti dopo la guerra. Desideravo raggiungere Fiume la sera stessa, ma mi dissero alla stazione che non si poteva entrare in città senza un permesso speciale che doveva esser richiesto a un certo ufficio di Trieste. Come potevo trovare l'ufficio nelle tenebre?"  

Ma era così facile entrare a Fiume?

"Ritenni che il mio passaporto per l'estero dovesse essere sufficiente e salii sul treno di Fiume in partenza alle dieci e mezzo. Alle undici e mezzo eravamo ancora fermi alla stazione di Trieste. Per consolarmi comperai un fiasco di vino. Nel mio scompartimento c'era un tenente con un'uniforme per metà d'ordinanza e per l'altra metà di fantasia. Sulle prime si mostrò molto riservato, ma dopo aver bevuto un paio di bicchieri divenne comunicativo e fino a quando arrivammo a Fiume non smise mai di parlare. Uscii dalla stazione con lui e non incontrai alcuna difficoltà per il passaporto. In piazza Dante mi mostrò un albergo dove trovai una camera comodissima. 

La mattina seguente girai un poco per la città e rimasi stupito nel constatare quanto Fiume fosse italiana o, meglio ancora, veneziana. Ma dopo tutto non c'era tanto da stupirsi, dal momento che per lungo tempo Venezia aveva esercitato la sua influenza su quella zona. "  

Come si presentava Fiume, occupata dagli italiani ribelli di D’Annunzio?

"Sorprendente era l'aspetto della folla per le strade. Era ben difficile vedere un borghese; la città pullulava di legionari di D'Annunzio, strano miscuglio di tipi, di dialetti e di età; ragazzi quattordicenni e vecchi garibaldini. 

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FIUME 2 OTTOBRE 1919

Un gruppo di legionari

La foto è tratta dal libro "Alla festa della rivoluzione di Claudia Salaris Società editrice Il Mulino "Biblioteca storica 2002

C'era nell'aspetto di Fiume qualcosa di spettacolare che non dimenticherò mai. Sardi, piemontesi, uomini d'ogni altra regione d'Italia erano insieme, tutti con uniformi diverse e tutti armati con uno o due pugnali, pistole e fucili; e tutti avevano il petto pieno di decorazioni; perfino i ragazzini avevano una dozzina di medaglie appuntate alla giubba. Per la maggior parte non portavano berretto; questo allo scopo di lasciar crescere i capelli per assumere un'aria battagliera. Non c'erano molti motivi che ricordassero le tradizionali legioni romane in quell'accozzaglia di uomini: non vidi nulla di romano a Fiume, se non l'arco della città vecchia."

"In tanta confusione ebbi la fortuna d'incontrare il mio compagno di viaggio della sera prima. Questi mi presentò a un capitano, un simpaticissimo giovane toscano che occupava un posto eminente alla Reggenza, come si chiamava la residenza di D'Annunzio. Pranzammo insieme in un ristorante affollato di legionari, tra un frastuono assordante. Ogni volta che qualcuno beveva c'era un coro di evviva all'indirizzo di D'Annunzio e dei legionari, oppure un coro di «Abbasso Giolitti» e «Abbasso il presidente Wilson»."

"Iscrizioni con queste parole si leggevano su tutti i muri della città e persino negli orinatoi pubblici. Anzi, quegli orina­toi di Fiume sarebbero stati un eccellente campo di studio per coloro che si interessano di quella che si chiama Epigraphie latrinaire, non solo riguardo alla politica. Poiché non sono mai stato d'accordo con quel francese - fu Lamartine? - che disse: «La muraille c'est le papier de la canaille», copiai alcuni esemplari scelti di questi «graffiti», i quali purtroppo, per la maggior parte, non sono pubblicabili. 
Eccone uno leggibile: «Il sole gira intorno alla terra. Galileo è un idiota» 
ed eccone uno di carattere politico, ispirato dalla mania di Giolitti per le nuove tasse: 

"Da Giolitti una tassa sara fissata
che per cacar ci vorra' carta bollata."

  Ma riuscì a incontrare D’Annunzio?

 "Quando dissi al capitano toscano chi ero e gli confidai che desideravo ardentemente conoscere D'Annunzio, promise di fare del suo meglio per accontentarmi, e mantenne la parola. Ci ritrovammo la sera stessa al medesimo ristorante, tra una folla più che mai rumorosa. Consumammo un pranzo a base di gamberi, specialità di Fiume, e qualcuno mi disse che D'Annunzio li chiamava «velivoli», poiché si servono con le pinze divaricate e ritte contro un mucchietto di prezzemolo nel piatto. Bevemmo anche una buona dose di Sangue morlacco, cioè di cherry brandy, altra specialità del luogo, e notai che ognuno si serviva indifferentemente dalla bottiglia degli altri; vidi persino dei soldati versar nel proprio bicchiere dalla bottiglia dei loro ufficiali. Il mio capitano mi disse che era una cosa normalissima; faceva parte dell'atmosfera di Fiume sotto D'Annunzio.

Il capitano mi aveva già fissato un'udienza col ministro della Guerra, che mi avrebbe spiegato qual era la situazione militare.  

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D'Annunzio a Fiume al rancio con la truppa

La foto è tratta dal libro "Alla festa della rivoluzione di Claudia Salaris Società editrice Il Mulino "Biblioteca storica 2002

La mattina seguente andai a trovare il Ministro della Guerra, che mi tenne curvo su un’immensa carta geografica per un paio d'ore, indicandomi col dito grassoccio questo o quel punto illustrandomene il valore strategico. Quando ritenne di avermi sufficientemente istruito, mi condusse dal ministro degli Esteri, il quale, a sua volta, sprecò un paio d'ore del mio tempo insultando i governi d'Italia, d'America, d'Inghilterra e di Francia. Clemenceau era la sua bestia nera.
Disse: «Quello si chiama tigre, ma noi siamo leoni!»

In seguito fui presentato al ministro delle Finanze, che mi disse degli affari del suo dicastero. Dopo questi colloqui si ritenne che io fossi sufficientemente versato nei problemi di Fiume per incontrarmi col Comandante D'Annunzio.

Tutto ciò era molto operettistico.

Il terzo giorno della mia permanenza in città, il capitano mi accompagnò al palazzo della Reggenza, dove non posso dire di aver ammirato tutte quelle copie di sarcofaghi romani e tutti quei vasi moderni, produzione corrente di Signa, pieni di quelle orribili piante chiamate aspidistre. Di dove venivano? Le aveva forse importate D'Annunzio?

Erano circa le dieci del mattino e io feci anticamera in una stanza al primo piano sino alle dodici e mezzo. Quando finalmente il mio capitano apparve, mi disse che D'Annunzio era stato occupato in affari di Stato tutta la mattina e che ora doveva andare a colazione.

«Ritorneremo nel pomeriggio» mi propose.

«Ma proprio non voglio farvi perdere il tempo in questo modo. Non sarete occupato anche voi?»

«Occupato? Non ho altro da fare che badare a voi. Il Ministero della Guerra mi ha dato preciso incarico in proposito».

Nel pomeriggio il capitano mi disse che non era possibile vedere D'Annunzio, il quale aveva importanti problemi da studiare.

La mattina seguente feci un altro vano tentativo per vedere il Comandante, ma nel pomeriggio il suo segretario privato mi introdusse nella sua stanza da lavoro. 

Ecco il mio idolo, il Poeta seduto a una scrivania, con la penna in mano. Mi guardò benevolmente col suo unico occhio e subito mi mise a mio agio parlandomi dei moderni poeti inglesi e delle loro opere. Mi trovavo dunque ad ascoltare l'autore di Laus Vitae e di tante altre opere che ammiravo; ascoltavo il poeta e non l'eroe guerriero.
D'Annunzio aveva realmente il dono di creare intorno a sé un'atmosfera magica mentre parlava con una voce ben modulata, tenendo la testa calva un po' inclinata a sinistra.  

In una sala attigua «la donna dalle venti dita», come egli chiamava la signorina Baccara, eseguiva al piano un pezzo di Beethoven e in certi momenti il Comandante abbassava la voce per ascoltare meglio la musica. Quando seppe che ero romagnolo cominciò a parlarmi della mia regione e del periodo che vi aveva trascorso quando aveva scritto la Francesca da Rimini. Quando mi alzai per andarmene e lo ringraziai per aver ricevuto uno sconosciuto qualsiasi come me, mi diede due sue fotografie e una copia di un suo libro con l'autografo.  

L'incanto si ruppe non appena ebbi lasciato quella sala. Non ero più in una terra di sogno, ma nel melodramma fiumano, circondato da aspidistre, da finti sarcofaghi romani e da una folla di montenegrini nel loro pittoresco costume nazionale, che aspettavano di parlare col Comandante per certi loro misteriosi affari politici."

Lei ha conosciuto anche  il fondatore del dadaismo Tzara, ed è andato spesso a cena in trattoria a Firenze con Eugenio Montale, insomma ha avuto una vita avventurosa, ricca, intensa, piena di energia e anche di felicità. 
E’ mai tornato ad Alfonsine?

"Sì... tornai in occasione della morte di mio padre e poi durante un viaggio con l’amico Chapmann. Infine l’ultima volta fu in occasione di un mio viaggio a Faenza sempre per lavoro."

Qualche ricordo?

"Chapman (traduttore in inglese di un'edizione dell'"Odissea" di Omero ndr) era un amico che incontrai casualmente a Ferrara. Mi invitò a fare un viaggio verso Rimini e san Marino. Accettai purché passasse da Portomaggiore e poi da Comacchio, dove dovevo recarmi. Lui aveva una Fiat enorme, comodissima, di color giallo, con autista. Indussi Chapmann a passare per Alfonsine senza dirgli che era il paese dove ero nato. Non ero più stato ad Alfonsine, dopo la morte di mio padre, ed ero impaziente di rivedere l’antica cittadina"

 Incontrò qualcuno?

"Sì... Quando fummo arrivati in piazza Monti proposi a Chapman: «Beviamo qualche cosa qui».

Tutta la mia infanzia ripassò davanti alla mia mente durante quei pochi istanti, ma Chapman non si accorse della mia emozione.

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Piazza Monti dal lato della chiesa, 
prima della guerra. Nel 1945 fu completamente rasa al suolo dai tedeschi
(per approfondimenti su piazza Monti clicca o tocca qui)

Rimase stupito quando la donna che ci servì mi apostrofò improvvisamente chiamandomi «Pino!» e ancor più quando un vecchio seduto su una panca mi corse incontro e volle baciarmi la mano gridando «EI fieul d' Martin!».

 Era il vecchio Plopi che in tempi remoti aveva lavorato in casa nostra. Eravamo entrambi commossi. Plopi aveva ormai ottantaquattro anni, ma ben volentieri bevve un bicchier di vino con noi; gli feci scivolare dieci lire nella mano scarna mentre ci accomiatavamo.

Proseguimmo verso Ravenna attraversando alcuni canali tra i quali il cosiddetto Fosso Vecchio e il Fosso di Vetro, luoghi che d'estate sono straordinari per i concerti di rane. Nei canali come quelli, Bastianello ed io solevamo pescare da ragazzi."

Chi era Bastianello?

"Bastianello era un mio compagno di classe fin dalla 1° elementare: è stato il mio miglior amico dell’infanzia, fino a 14 anni, quando dovetti lasciare Alfonsine; dopo di allora non lo rividi mai più.

Lui ed io, con pochi centesimi, compravamo una certa miscela in un negozio, poi mettevamo una rete attraverso il canale e un'altra rete più a monte. Quindi gettavamo nell'acqua la mistura che si trova già menzionata in Plinio ed è tuttora usata dai napoletani che la chiamano “laterogna”. Ci svestivamo, scendevamo nell'acqua e agitavamo il fango del fondo coi piedi; infine risalivamo sull'argine per osservare i risultati. E questi erano sempre uguali. I pesci salivano alla superficie col muso in aria, cercando di respirare. Non appena apparivano ci gettavamo nuovamente nell'acqua e li ghermivamo con le mani. Erano miseri pesci: piccoli lucci, tinche, anguille, muggini; alle volte non valeva nemmeno la pena di cuocerli. Bastianello non aspettava, del resto, di portare il pesce a casa per farselo cuocere. Portava in tasca una cipolla cruda e con quella e con un cospicuo numero di pesci crudi faceva copiosi pasti. La sua famiglia era così povera che non aveva mai niente da mangiare all'infuori di pesciolini e grosse rane; e, quando non c'era né la legna per far fuoco né l'olio per friggere, quella povera gente mangiava tutto crudo.

 Bastianello era il più povero e il più discolo della scuola. Benché cencioso e sempre affamato, era il più bello di tutti, o così mi sembrava: aggraziato e svelto, snello, biondo con occhi azzurri e lunghe ciglia. Senza rendersene conto esercitava una specie di fascino su di me. Ben presto nella nostra amicizia si insinuò una sfumatura, e più che una sfumatura, di sessualità. La mia famiglia era contraria a quell’amicizia. Bastianello era di famiglia poverissima e viveva in un tugurio.

Ad Alfonsine c’era un teatro?

 "C’era una baracca di legno che pomposamente veniva chiamata “teatro” (e’ baracò detto anche “teatro Calderoni” di proprietà dei Gessi; venne in seguito incendiato dai fascisti, per vendetta. – ndr).

Passavano artisti di quelle compagnie girovaghe: povera gente, di solito, che offriva ben miseri spettacoli. Ma una volta la compagnia Renzi-Gabrielli onorò di una sua visita la cittadina.

Gli artisti erano un po' meglio di quelli che venivano di solito e avevano un repertorio pretenzioso costituito da lavori di Ibsen, Shakespeare, Sudermann e altri commediografi. Mio padre mi permise di andare ad ascoltare l'Amleto in una rappresentazione in cui il suggeritore recitava tutte le parti principali, dato che la sua voce era così forte da sopraffare quella degli attori.

Annunciarono che avrebbero dato anche Frine, un dramma di autore italiano. Questa notizia provocò molto scalpore tra gli uomini, dato che la prima donna, la signora Gabrielli, secondo l'antica leggenda greca sarebbe dovuta apparire nuda davanti ai giudici. Era una grassa fiorentina di mezza età, che, guarda la combinazione, era stata un tempo l'amante di mio fratello Antonio; suo marito era collega di Antonio alle ferrovie. La signora Gabrielli era bionda naturale, benché nessuno ci credesse, e aveva la vista così debole che spesso portava gli occhiali sul palcoscenico.

La sera dello spettacolo i prezzi subirono un aumento. Tutti i posti nella baracca di legno, che veniva pomposamente chiamata teatro, erano stati prenotati da uomini, perché le donne si mostravano disgustate al solo sentir parlare di un simile lavoro."

Ma i ragazzini potevano entrare?

"Inutile dire che Bastianello ed io ardevamo dal desiderio di vederlo, ma, a parte il fatto che né lui né io avevamo danaro, mio padre non mi avrebbe mai permesso di andarvi. 

L'ingresso al teatro era in un vicolo dietro la chiesa (il lazzaretto detto anche Carraretto Venturi ancora oggi ndr) e tutto il resto della baracca era circondato da un frutteto e da un orto protetti da una fitta siepe di pruno selvatico. 

Il teatro Calderoni incendiato dai fascisti

 Nel pomeriggio, Bastianello mi disse di trovare una scusa per assentarmi da casa in serata. Aveva aperto una breccia nella siepe, quindi aveva fatto il giro del teatro e aveva praticato parecchi buchi nelle pareti di legno, attraverso i quali avremmo potuto vedere ciò che accadeva sul palcoscenico. Ma c'era di più: aveva fatto amicizia con un ragazzo che lavorava per gli attori e aveva saputo da lui quale era lo spogliatoio della prima donna.

Anche là Bastianello aveva praticato due fori, uno per lui e uno per me. All'ora stabilita ci collocammo al nostro posto di osservazione e quando si accesero le luci potemmo sbirciare assai bene nello spogliatoio di Frine. Noi eravamo nelle tenebre. Fu un momento emozionante. Quando l'attrice entrò, Bastianello mi sussurrò all'orecchio: «Eccola! Ora sta' attento!» 

Osservammo. Appena entrata nel camerino, l'attrice, per prima cosa, trasse di sotto una seggiola un vaso da notte e se ne servì. Poi, sferrando pedate all'aria, si tolse le scarpe. Infine prese una caramellina da una scatola, la mise in bocca e cominciò a togliersi gli abiti. Eccola in mutande, con un gran busto che le comprimeva il ventre e il seno. Si tolse il busto; il ventre si gonfiò come un pallone e il seno flaccido ricadde fin quasi a toccarlo. Final mente si sfilò la corta camiciola e le mutande e rimase nuda davanti a uno specchio, ammirandosi. Noi la fissavamo. Quel che mi colpì sopra tutto fu l'enorme deretano che parve aumentare ancora di volume quando la donna si curvò per indossare la maglia rosa: fece una fatica infernale a indossarla. Era la prima donna che vedevo nuda e non posso dire di aver ricevuto un'impressione favorevole. Non così il mio amico, che riusciva a stento a contenere la propria emozione. «Com'è bella! Com'è bella!» continuava a mormorare.

La signora Gabrielli si truccò il viso, si incipriò le braccia e le mani, si buttò sulle spalle un gran mantello di velluto nero e uscì dallo spogliatoio. A nostra volta ci allontanammo e un momento dopo ammiravamo la scena dagli altri fori che il previdente Bastianello aveva preparati. Fu un grande successo. Quando Frine apparve e aprì il mantello rivelando la sua esuberante persona inguainata di maglia rosa, il pubblico parve impazzire. La breve scena dovette essere ripetuta varie volte. Il giorno seguente, in paese, si fece un gran parlare della faccenda e una deputazione di donne si recò dal parroco per pregarlo di intervenire e di far cessare l'immorale spettacolo. Il parroco non fece nulla; il dramma fu replicato per parecchie sere, a teatro esaurito, e la compagnia guadagnò molto. Ma nessuno, all'infuori di Bastianello e di me, vide Frine nuda. Se l'originale greco fosse stato simile alla signora Gabrielli e io fossi stato uno dei suoi giudici, l'avrei condannata al carcere a vita.

Dicevamo, prima, dell’ultima volta che tornò ad Alfonsine. Ce la racconta?

Eravamo all’inizio della seconda guerra mondiale, nel 1939. Ero a Faenza per lavoro. Alle undici avevo già sbrigato l’affare e il treno per Firenze partiva nel tardo pomeriggio. L’aria di Faenza mi sembrava satura di ricordi del passato. A un tratto mi venne l’ispirazione di utilizzare il tempo disponibile facendo una corsa in automobile fino a Bagnacavallo, dove non ero stato da molti anni.

Ci racconti anche di Bagnacavallo... della contessa Guiccioli, di Byron e di sua figlia Allegra!

"Agli occhi del turista, Bagnacavallo ha un aspetto bizzarro. Sorge in una zona piana eppure non c’è una strada diritta in tutta la cittadina. Le vie sono così tortuose che non si può mettere in dubbio la voce locale secondo cui la città, in origine, fu progettata da un ubriacone.

Mi trovai di fronte al convento delle monache cappuccine dove la figlia di Byron, Allegra, fu rinchiusa dal padre, soprattutto, credo, per far dispetto a “quella maledetta strega atea” di sua madre. 

Sul muro del convento è stata fissata una lapide marmorea che ricorda l'avvenimento. Che cosa mai poteva intendere Byron quando scrisse a un amico parlando dell'«aria buona» di Bagnacavallo, che non aveva mai visitato e che è stata la vera culla della malaria fino ai miei tempi? Non è possibile che si sia informato a fondo e la sua condotta è tanto più grave in quanto Allegra aveva già tanto sofferto di malaria nel 1819 ed è un caso che non sia stata proprio la malaria a ucciderla a Bagnacavallo. L'ispiratrice di Byron, contessa Guiccioli, dovette essere ben contenta che quella vivace creatura venisse tolta di mezzo e imprigionata in quel convento dove morì dopo un anno e tre mesi di reclusione, quando Byron stesso aveva confessato di non aver diritti sulla figliola.

Il fatto di essere imbalsamata dopo morta e trasportata in Inghilterra non dovette essere un grande compenso per Allegra, anche se la cosa appagò gli istinti teatrali del padre. 

Ultra­teatrale è anche la lettera della Guiccioli che descrive come Byron ricevette la notizia della morte di Allegra. 

Io non attribuisco alcuna importanza a ciò che Shelley scrive dell'umore giulivo di Allegra quando egli la vide nel convento (allude anche al suo pallore). Qual è il prigioniero che non si rallegra a vedere un volto amico che viene dal mondo esterno?

 C'è qualcosa di oscuro nella faccenda di Allegra."

Lei riuscì a visitare il convento?

"No. Mi dissero che non era possibile visitare l'interno del convento, poiché le monache vivevano in stretta clausura; potevo visitare la chiesa, se volevo. La visitai e non ci trovai nulla di bello.

La colazione al ristorante Pace - modesto ma ottimo, col proprietario che serviva personalmente i clienti - mi ridiede il buon umore. Poi mi diressi al canale Naviglio che corre tra Bagnacavallo e Alfonsine. Per me quel corso d'acqua è pieno di cari ricordi, ricordi della mia amicizia infantile con Bastianello.

Ben conoscevo il Naviglio! Quante volte vi andavamo a prendere i pesciolini dopo aver avvelenato l'acqua con una miscela che li faceva salire alla superficie, col muso in aria! (Dovevamo avere nove o dieci anni allora, perché più tardi ci mettemmo a pescare pesci più grossi). Di quando in quando anche un'anguilla di rispettabili dimensioni saliva a galla; allora ci divertivamo a cospargerci le dita di sabbia e a tenere il pesce per la coda movendolo su e giù perché smettesse di dibattersi e aspettando lo strano risultato, quasi immancabile. A poco a poco si formava un gonfiore nella pancia dell'anguilla, che si spostava lentamente verso la testa. Poi si apriva la bocca e sbucava fuori una rana, qualche volta viva, altre volte digerita a mezzo.

Ripensai ad altre passeggiate lungo il canale, con Bastianello e il mio cane Poldino, che era speciale per trovare tartufi sotto i pioppi, e a quell'indimenticabile giorno in cui facemmo a piedi la strada da Alfonsine a Bagnacavallo e al ritorno ci scordammo di riprendere i nostri poveri libri di scuola che avevamo sepolti... con disastrose conseguenze per me. 

Mi torna in mente quella volta che Bastianello mi aspettava vicino alla scuola, nell’ora in cui avevano inizio le lezioni mattutine. Mi disse che aveva un mucchio di denari; ventidue soldi: un franco e dieci centesimi. Ventidue soldi! Mi sembrava un patrimonio, dato che mio padre non mi dava mai più di due soldi alla settimana.  Bastianello disse: “ Vieni con me. Andremo a Bagnacavallo a fare una bella mangiata.

«Come fai ad avere tutti quei soldi? Li hai rubati in casa?»

«No. La signora Fasoli (Faggioli – ndr) mi ha mandato a comprare un chilo di carne, e quando il macellaio mi ha dato il pacco mi sono dimenticato di pagare; il negozio era così pieno di gente che non se n'è neppure accorto».

Partimmo per Bagnacavallo, distante all'incirca dodici chilometri, prendendo la strada lungo il canale e nascondendo le borse di scuola in un punto presso la riva. Fu quello per me un grande avvenimento, poiché non ero mai uscito dal paese natio. Bagnacavallo mi parve un immensa città, con le sue case alte, i suoi negozi, i suoi archi. 

Facemmo una meravigliosa mangiata: un pranzo principesco in un'osteria infima vicino alla riva, osteria che esisteva ancora nel 1942 e portava la scritta «Stallazzo». Ricordo anche com'era composto quel pranzo: pane, due enormi bistecche comperate in una bottega vicina e cucinate per noi dall'ostessa e un intero litro di vino rosso. Siccome a casa me lo davano allungato con acqua e Bastianello non lo beveva mai, arrivammo alla fine del pasto alquanto brilli e ce ne tornammo a casa a braccetto, cantando, allegri come passeri. Disgraziatamente, dimenticammo di riprendere le borse di scuola e arrivammo a casa senza libri. Quella volta fui picchiato di santa ragione. Ma valse la pena di affrontare anche il castigo, e il macellaio distratto non si accorse mai di non essere stato pagato. Eravamo felici quanto lo possono essere i bambini... sono passati quarantadue anni... "

Ha mai saputo dov’è finito Bastianello?

Dov'è Bastianello? Ha prosperato. Se n'è andato nel Sud-America e ben presto è divenuto direttore di una fabbrica laggiù. Un bel cambiamento per quel ragazzo scalzo e affamato. E anche per i suoi genitori. Una volta, a quanto mi hanno raccontato, è tornato a casa con cinquantamila lire in tasca per loro. Il discolo Bastianello ha fatto fortuna. Non ha sprecato la propria esistenza come molti avevano profetizzato.

E lei come ha passato i suoi giorni?

E io? Come ho passato i miei giorni? Bene o male? Domande difficili. Ma sulle rive di quel Naviglio esse mi si presentavano alla mente, mio malgrado. Non ebbi mai cinquantamila lire da dare ai miei parenti, questo è certo; quanto al resto... Che importa agli altri? Bene o male che io l'abbia spesa, non mi dispiacerebbe rivivere questa mia vita."

Termina qui questa lunga intervista 
con Giuseppe Orioli.

Morì in Portogallo (neutrale), a Lisbona nel 1942, in piena seconda guerra mondiale, in miseria, abbandonato anche dal suo intimo amico Norman Douglas (e questo è l’unico episodio triste della sua vita). 

Giuseppe Orioli nell'appartamento di Firenze, via dell'Oriuolo n° 26, dietro al Duomo, di fronte alla Banca d'Italia

Tempo fa qualcuno propose all’Amministrazione Comunale di Alfonsine di riportare le sue spoglie, da Lisbona ad Alfonsine. In molti con sufficienza respinsero quest’idea. Certo una società che mette l’economia al primo posto dei suoi valori non può vedere l’utilità di una simile spesa (si parlava di 8 milioni).

Riportiamolo a casa

Andranno dispersi i poveri resti  e la tomba di Pino Orioli?

L'incarico di pagare la tassa cimiteriale era assunto dall’ultimo parente di Pino Orioli, Monsignor Giorgio Orioli che trovando difficoltà tecniche e burocratiche per seguire i pagamenti annuali e si era rivolse nel 2003 agli alfonsinesi. Nulla di fatto.

Poi il circolo “Alfonsine mon amour” insieme ad almeno tre dei sindaci succedutisi negli ultimi anni incontrò di nuovo Mons. Orioli in varie occasioni per realizzare l’idea di riportare le ossa di Pino ad Alfonsine e farlo diventare un simbolo della cultura alfonsinese.

Ma il tempo passava, e nonostante la diffusione anche sulla stampa locale (Carlino, Voce di Romagna, Corriere di Romagna) non si arrivò a una soluzione.

LA FORZA DI INTERNET

Una ragazza portoghese Claudia Diaz, che studia a Londra e ha letto di Orioli in questo sito internet mentre stava facendo una ricerca su Norman Douglas, (scrittore che sta tornando alla notorietà in Gran Bretagna, negli ambienti gay), amico di Orioli, è riuscita da qui a contattarmi. Orioli è sepolto a Lisbona e lei essendo di Lisbona ha voluto sapere in quale cimitero. Ha informato sua madre che risiede a Lisbona la quale è andata a trovare la tomba di Orioli e ha parlato con gli addetti del cimitero. Ha inviato quindi alla figlia le foto della tomba e della casa dove morì. La notizia più importante è che dal 2003 non veniva pagata più la tassa di manutenzione del loculo (65 € all’anno), per cui entro tre mesi sarebbe avvenuta la riesumazione, il trasferimento nell’ossario comune e distrutta la vecchia lapide. 
Dopo vari incontri e triangolazioni tra Comune di Alfonsine e Direttore del Cimitero di Lisbona, l'ultimo parente Mons. Orioli per vedere di pagare il debito per il loculo e magari riportare ad Alfonsine i resti di 'Pino' non si è riusciti a combinare nulla. 

Al che la madre di Claudia, la sig.ra signora Antonia Lobato cittadina portoghese, abitante a Lisbona, si è fatta carico di pagare il debito e la tassa mensile per la manutenzione della tomba. 
Se i resti del povero Giuseppe Orioli non sono dispersi in un ossario è solo merito suo, e della figlia.

Se un giorno mai dovessi gareggiare per diventare sindaco il primo capitolo del mio del programma avrà come titolo:  "Senza espansione della felicità, niente sviluppo economico", e tra i primi obiettivi di questo punto inserirò l’impegno di riportare a casa le spoglie di Pino Orioli ad Alfonsine. E’ ora che impariamo che al primo posto non ci può stare certo l’economia: questo valore rende gretti, tristi, egoisti, ragionieri, calcolatori, opportunisti, angosciati.
Al primo posto nella politica evolutiva del futuro ci sarà il sentimento, la gioia, la creatività: "la vita sarà come un favola", diceva Nietzsche. Orioli sarà qui vicino a noi a ricordarcelo.

(Luciano Lucci lucci@racine.ra.it )  

 

 

 

Ricerche sull'anima di Alfonsine | Giuseppe Orioli
| “L’amante di lady Chatterley” |
| L'intervista impossibile a Giuseppe Orioli (sei qui) |